Suona un po' come X Files, ma non è esattamente la stessa cosa, anche se il metodo scientifico rivendicato con forza dall'agente Dana Scully, tutto sommato, potrebbe trovarvi agevolmente il suo posto. X-Phi è l'acronimo che designa la experìmental philosophy, una tendenza filosofica molto giovane, che si è fatta largo nella cultura anglosassone e che combina la dimensione della riflessione e dell'elaborazione concettuale con una serie di esperimenti pratici e di ricerche quantitative condotte mediante sondaggi e questionari. A rilanciare il dibattito sullaX-Phi, presentata come la corrente più trendy della filosofia contemporanea, è, tra gli altri, un lungo articolo dei filosofi David Edmonds e Nigel Warburton apparso sul numero di marzo di Prospect, la prestigiosa rivista politico-culturale londinese, in cui gli autori prendono le mosse dai test di unaneurobiologa tedesca, Katja Wiech, che ha dimostrato come la somministrazione di scariche elettriche a cattolici osservanti in atto di contemplare un'immagine della Madonna risulti meno dolorosa di quanto accade nel caso di un ateo o di un agnostico. Esiti sperimentali su cui la giovane scienziata si è confrontata successivamente con un gruppo di pensatori convinti che il dato empirico non fornisca un semplice sostegno alla filosofia, ma sia, in qualche modo, il fondamento stesso del fare filosofia. LaX-Phi si colloca così nettamente in controtendenza rispetto all'egemonia, sinora incontrastata, esercitata dall'analisi concettuale, e si scontra, quindi, con la tradizione di filosofia analitica dominante nel mondo anglosassone. Ragion per cui si esprime molto attraverso blog e siti (oltre che libri), e viene avversata o liquidata malamente da vari mostri sacri del pensiero angloamericano, suscitando, invece, entusiasmi tra i filosofi più giovani e alimentando una polemica culturale dove anche l'anagrafe gioca la sua parte. Anche se, a onor del vero, pure una star del livello del filosofo del "cosmopolitismo" (e molto altro) Kwame Anthony Appiah mostra parecchio interesse, dopo avere pubblicato un libro di"esperimenti di etica", ed essendosi spinto a definirla sul New York Times come la "nuova nuovafilosofia". Lafilosofia sperimentale vanta una "scuola" molto dinamica che conta tra i suoi esponenti di punta Joshua Knobe, Shaun Nichols, Neill Levy, al lavoro tra Princeton eOxford, figure, di cui si parlerà sempre più, che si muovono nei tre ambiti fondamentali, chiaramente interdisciplinari, che ne compongono lo scenario attuale. Ovvero, lo studio, mediante le tecnologie a disposizione delle neuroscienze, dell" attività mentale che si sviluppa quando gli individui si trovano alle prese con un problema di natura filosofica; l'utilizzo, uscendo dalle aule e dagli uffici universitari, di questìonari per comprendere le intuizioni e le modalità di ragionamento nella vita quotidiana; e, infine, gli "esperimenti sul campo", conl'osservazionedei comportamenti e delle reazioni a specifiche situazioni da parte di un individuo, osservato a sua insaputa. Tutto molto anglosassone, perl'appunto. E in ltalia? Queste tematiche ricevono una certa attenzione daparte diRes cogitans (www.rescogitans.it), "sito di filosofia applicata" dedicato a Marco Mondadori, che annovera tra i suoi collaboratori Telmo Pievani, Maurizio Ferraris, Mario De Caro e Nicla Vassallo. Adi-rigerlo è Simona Morini, docente di Teoria delle decisioni razionali e dei giochi allo luav di Venezia (e autrice, con Pietro Percenti, di Emailfilosofiche, edito da Cortina), che nota come la X-Phi rappresenti «una sorta di interessante ritorno al passato, alla filosofia morale e alla tradizione del Sei-Settecento. Basti pensare, infatti, che il famosissimo Trattato sulla natura umana di David Hume aveva come sottotitolo: Un tentativo di introdurre il metodo sperimentale di ragionamento negli argomenti morali. Dunque, vari sono gli aspetti positivi: da un lato, i filosofi ricominciano a fare scienza (superando lo specialismo introdotto nell'Ottocento) e, dall'altro, tornano a occuparsi di fatti reali, soprattutto in Italia dove la produzione filosofica negli ultimi tempi è stata orientata per lo più verso l'ermeneutica e la storia. Questi esperimenti, inoltre, tornano al senso comune, ma confutano anche i luoghi comuni. E sprovincializzano la disciplina, attribuendole una dimensione veramente mondiale, mostrandoci, per esempio, come la filosofia del linguaggio contemporanea risultimolto collegata alle lingue occidentali. Naturalmente, ci sono anche i limiti: gli scienziati si rivelano oggi ancora piuttosto deboli sotto il profilo filosofia», e viceversa. Come diceva Robert Hooke: "La vera filosofia inizia dalle mani e dagli occhi, ma deve procedere con la memoria e continuare con la ragione". È così che dovrebbe accadere, tornando davvero all'idea del filosofo naturale seicentesco». E, quindi, se son rose (filosofiche), magari fioriranno anche in Italia... per saperne di piu' : http://www.rescogitans.it/................ http://www.prospect-magazine.co.uk/landing_page.php................ http://www.slate.com/id/2137223/
lunedì 30 marzo 2009
Grid computing da wikipedia ,clicca
il nuovo web secondo il suo inventore , Tim Berners-Lee
da Repubblica del 14/mar/09 di ELENA DUSI Il numero di pagine sul web ha raggiunto quello dei neuroni nel cervello di un uomo. «Dieci seguito da undici zero» sorride Tim Berners-Lee nel ventesimo compleanno della rete che è diventata il sistema nervoso del mondo, il fisico britannico che ha inventato il world wide web senzar pretendere un centesimo in diritti d'autore, oggi guida una fondazione che scruta il futuro della ragnatela. «Il web arriverà su tutti i cellulari, che con 5 miliardi di esemplari sono gli apparecchi più diffusi sulla terra. Finirà anche col ricoprire le pareti delle case. Non avremo più intonaco sui muri, ma schermi connessi su cui navigare usando le mani». Fedele all'idea originaria («Non abbiamo nulla da vendere e non siamo stati noi a cercare i nostri utenti, ma loro si sono uniti a noi»), il padre del www se la prende con gli "spioni" di Internet. «Non è possibile che qualcuno controlli chi si collega a un sito gay o lesbo. La tecnologia deve sforzarsi di pro- teggere la privacy». Lo schivo Berners-Lee esce di rado dal suo laboratorio al Mit di Boston. Ma ieri a Ginevra, con i colleghi di quel marzo 1989 che sembra così vicino, riaccende il computer che è stato il primo server del web e ricorda il giorno in cui, da semplice programmista del Cern, sottopose al suo capo un progetto di poche parole e molti disegni: computer connessi in rete, utenti che si scambiano informazioni, frecce in tutte le direzioni. A quell'epoca l'acceleratore di particelle del Cern sfornava fiumi di dati e i computer ansimavano nel cercare di gestirli. «Gli scienziati venivano da tutto il mondo. Ognuno aveva il suo computer, il suo computer, la sua lingua e il suo sistema operativo. Bisognava trovare il modo di farli comunicare. In quello zoo era più facile scambiarsi informazioni bevendo una tazzina di caffe' che non davanti ad un terminale. seme del web, quell'alfabeto universale che tutti i computer connessi nel mondo potevano finalmente utilizzare. «Un po' vago, ma eccitante» scrisse lì per lì Mike Sendall, il capo diBerners-Lee, sulla prima pagina del progetto. Una risposta ambigua, ma nella porta si era aperto uno spiraglio e il fisico inglese ci si gettò a capofitto: «Utilizzammo proprio Internet per cercare aiuto. Chiedemmo a chiunque se la sentisse di contribuire allo sviluppo dell'idea». Al Cern oggi, con il nuovo acceleratore Lhc sulla pista di lancio e quantità immense di dati da gestire, il futuro della rete si chiama Grid: 200 centri di calcolo in 33 Paesi uniti dalla fibra ottica macineranno qualcosa come 15 milioni di gigabytes all'anno. Per Roberto Petronzio, presidente dell'Istituto nazionale di fisica nucleare, l'invenzione del www è la dimostrazione di quanto la ricerca scientifica abbia da offrire alla società, anche quando sembra del tutto astratta: «II web è stato inventato per far comunicare i fisici e poi si è trasformato nel volano di una nuova economia. La ricerca finanziata dal settore pubblico può permettersi di non brevettare e rendere disponibile a tutti le nuove tecnologie». Ma vent'anni di continua tessitura della rete nel mondo non soddisfano ancora Berners-Lee. A livello globale solo il 20 per cento delle persone è in rete. E il web, che ambisce a diventare il cervello del pianeta, rischia di essere solo un chiacchiericcio sovraccarico di dettagli. «Ora che ho inventato il web, mi piacerebbe renderlo intelligente. Al posto dei motori di ricerca possiamo ideare dei motori di risposta, con informazioni già pronte anziché documenti da spulciare».
da news oggi, clicca .
Al nastro di partenza la rete globale da 100.000 computer che potrebbe diventare l’internet del futuro. Si chiama Grid (calcolo a griglia) e oggi viene inaugurata con una cerimonia al Cern di Ginevra, proprio dove 17 anni fa nacque il World Wide Web. Grid è nata per analizzare l’enorme quantità di dati che il più grande acceleratore del mondo, l’Lhc, comincerà a produrre a partire dalla prossima primavera, quando sarà stato riparato il guasto che lo ha costretto a fermarsi. Con la potenza di calcolo di 100.000 computer, Grid è una rete distribuita che unisce 140 centri di calcolo di 33 Paesi. Grazie ad essa, migliaia di fisici di tutto il mondo potranno analizzare l’enorme quantità di dati che saranno prodotti dall’acceleratore Lhc: 15 milioni di Gigabyte, tanti quanti possono essere contenuti in una torre di cd alta 20 chilometri, vale a dire alta 60 volte la torre Eiffel. La nascita della Grid è un’impresa che parla italiano: «L’idea è partita dall’Italia nel 1999», spiega il direttore del Centro nazionale per la ricerca e sviluppo nelle tecnologie informatiche e telematiche dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), Mirco Mazzuccato.
per il libro di Tim Berns-Lee : http://libri.html.it/recensioni/libro/12.html
vai anche al post : http://menteallegra.blogspot.com/2009/03/grid-computing-da-wikipedia-clicca.html#links
domenica 29 marzo 2009
Torniamo al soggetto ed ai suoi diritti; Alain Touraine
Edmund Burke , un importante pensatore recuperato
Edmund Burke (1729-1797) RIFLESSIONI SULLA RIVOLUZIONE IN FRANCIA « Fare una rivoluzione significa sovvertire l'antico ordinamento del proprio paese; e non si può ricorrere a ragioni comuni per giustificare un così violento procedimento. […] Passando dai principî che hanno creato e cementato questa costituzione all'Assemblea Nazionale, che deve apparire e agire come potere sovrano, vediamo qui un organismo costituito con ogni possibile potere e senza alcuna possibilità di controllo esterno. Vediamo un organismo senza leggi fondamentali, senza massime stabilite, senza norme di procedure rispettate, che niente può vincolare a un sistema qualsiasi. [...] Se questa mostruosa costituzione continuerà a vivere, la Francia sarà interamente governata da bande di agitatori, da società cittadine composte da manipolatori di assegnati, da fiduciari per la vendita dei beni della Chiesa, procuratori, agenti, speculatori, avventurieri tutti che comporranno una ignobile oligarchia, fondata sulla distruzione della Corona, della Chiesa, della nobiltà e del popolo. Qui finiscono tutti gli ingannevoli sogni e visioni di eguaglianza e di diritti dell'uomo. Nella "palude Serbonia" di questa vile oligarchia tutti saranno assorbiti, soffocati e perduti per sempre. » (Edmund Burke, Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia) La Rivoluzione francese contro la proprietà privata. All'inizio hanno cercato di giustificare l'oltraggio recato a ogni diritto di proprietà con quanto, sulla base del loro modo di comportarsi, appare il più stupefacente di tutti i pretesti possibili: il rispetto del rapporto fiduciario vigente nella nazione. Questi nemici della proprietà, infatti, hanno originariamente finto di nutrire scrupoli e preoccupazioni delicate quanto al mantenimento degli impegni pubblici contratti dal re. Questi professori dei diritti umani sono talmente occupati a indottrinare gli altri che non rimane loro tempo per imparare nulla, altrimenti avrebbero saputo che il primo obbligo della società civile è quello verso la proprietà dei cittadini, non verso le richieste dei creditori dello Stato. I diritti del cittadino vengono prima in ordine di tempo, sono supremi in ordine d'importanza e sono superiori per relazione a tutti gli altri. I beni del privato, che egli li possegga per averli acquistati, oppure per eredità o in virtù di una certa partecipazione alle ricchezze di qualche comunità, non fanno parte - né espressamente né in maniera sottintesa - della garanzia data ai creditori. Una garanzia di questo tipo era assai lontana dalla mente del creditore al momento dell'accordo, giacché questi ben sapeva come un organismo pubblico, sia esso rappresentato da un monarca o da un Senato, possa offrire solo la garanzia della proprietà pubblica e non possa avere altra proprietà di tal genere che quella derivante da tasse giuste e proporzionate imposte a tutti i cittadini. Questo e solo questo è stato promesso ai creditori dello Stato. Nessun uomo può ipotecare la propria ingiustizia quale pegno della propria fedeltà. Burke ed Hayek: la critica alle "pretese" della ragione e l'esaltazione del riformismo Ciò che hanno in comune di sicuro due pensatori come Burke ed Hayek, è il sospetto e la sfiducia verso le "pretese" della ragione. Pretese che Hayek vede esemplificate in Cartesio quando questi si accinge alla rifondazione dell'epistemé o quando afferma di volersi disfare delle proprie precedenti convinzioni e di volerle sostituire con delle nuove, fondate razionalmente 118. Hayek critica la posizione " costruttivista " di Cartesio e di Rousseau ma non si esprime direttamente sul concetto di rivoluzione. I suoi argomenti sono però utili per comprendere la critica che Burke muove ai fatti francesi e in definitiva al concetto di rivoluzione. Burke contrappone alla rivoluzione francese quella inglese ma ciò non dimostra che sia favorevole a certe rivoluzioni perché quella Inglese come abbiamo già largamente sottolineato non è una rivoluzione moderna. Burke ed Hayek sono contrari agli stravolgimenti radicali ma favorevoli alle riforme che nascono dal desiderio di cambiare singoli aspetti della realtà. In questo senso le riforme sono le risposte che l'uomo elabora per ovviare ai problemi e alle necessità che di volta in volta bisogna superare per il corretto funzionamento della società. Non è però possibile rifiutare in toto la nostra società e la nostra cultura perché per Burke è un empietà ed un salto nel vuoto, mentre per Hayek il problema è prima di tutto teoretico. Secondo il filosofo austriaco noi possiamo criticare singoli valori alla luce degli altri valori della nostra cultura. Voler invece porsi al di sopra della nostra società è oltre che pericoloso impossibile perché dovremmo prima di tutto rifiutare quelle categorie mentali attraverso cui vediamo la realtà. Per Hayek rifiutare radicalmente la realtà in cui siamo immersi è una finzione, come se noi volessimo descrivere i nostri occhiali mentre li portiamo. Noi non possiamo perciò metterci al di sopra della nostra civiltà 119. Alla luce di quanto appena accennato si capisce quanto sia profonda la convergenza tra i due autori menzionati. Burke si oppone allo stravolgimento radicale della società in nome di "astratte" fantasticherie. Hayek completa questa posizione, con argomentazioni puntuali ed esaurienti che al nostro autore derivano dai suoi svariati studi, da quelli economici a quelli di psicologia cognitiva. Burke si oppone alla rivoluzione come possibilità generica di cambiamento rapido e completo ed Hayek fornisce la giustificazione teoretica di tale opposizione. Entrambi concordando nel rifiutare le pretese della ragione di voler modellare l'ordine sociale a proprio piacimento, colpiscono al cuore la possibilità stessa della rivoluzione. Per saperne di piu' clicca
sabato 28 marzo 2009
una ferrari per tutti , un sito "contro" la teoria della "decrescita" , clicca x link
usa il traduttore google , clicca
Thursday 2 March 2006 Growth is good, Benjamin Friedman’s new book makes a decent stab at defending affluence, but doesn’t go far enough in its attack on ‘growth sceptics’. di Daniel Ben-Ami dal suo sito "ferrari per tutti" (clicca) The Moral Consequences of Economic Growth, Benjamin M Friedman, Knopf, 2005. The Moral Consequences of Economic Growth is a useful if ultimately flawed attempt to defend rising living standards against their numerous critics. Benjamin Friedman, a professor of economics at Harvard, argues that economic growth has important moral benefits - by which he means social and political ones - in addition to material advantages. His main argument is that economic growth helps foster openness, tolerance and democracy. While there is much truth to this point, he avoids tackling the most powerful anti-growth arguments head on. The difficulty in countering anti-growth sentiment today is that it invariably takes an indirect form. Apart from a few Deep Greens it is rare for economic growth to be attacked outright; to do so would invite hostility from the general public, understandably hostile to the prospect of cuts in their living standards. Instead growth is subject to various indirect assaults. For example, it is argued that growth damages the environment, causes unhappiness and widens inequality. That is why the term ‘growth scepticism’ is useful to describe this kind of criticism (1). Friedman’s starting point in challenging these arguments is to locate himself in the tradition of the Enlightenment of the eighteenth century. In one of the most interesting chapters of the book, he makes the point was that one of the key innovations of the Enlightenment was to put material development at the centre of human progress. Anne Robert Jacques Turgot in France and Adam Smith in Britain both made this connection. The link between economic growth and social progress was also generally accepted during the subsequent Age of Improvement. For instance, Auguste Comte, a nineteenth-century French philosopher, argued that: ‘All human progress, political, moral, or intellectual, is inseparable from material progression.’ (2) At the same time the Romantic reaction to the Enlightenment started questioning the benefits of economic growth. Thinkers like Thomas Carlyle in Britain and Ralph Waldo Emerson in America, as well as novelists such as Charles Dickens, railed against the effects of industrialisation. But the critics were in the minority as mainstream thinking, as well as public sentiment, generally favoured growth. Friedman’s next step - and the main part of his argument - is to try to re-establish the link between economic growth and social progress first made by Enlightenment thinkers. By examining American and Western European history he attempts to show empirically that rising living standards and progress are closely correlated. The emphasis is on America (on which there are four chapters), while Britain, France and Germany take a chapter each. In most cases the facts seem to fit Friedman’s argument. American society, for instance, generally moved towards openness and tolerance in periods of economic growth, such as the Horatio Alger era (1865-80), the Progressive era (1895-1919), the Civil Rights era (1945-73), and in what Friedman calls New Beginnings (from 1993 onwards). In contrast, it moved in the opposite direction during periods of economic slowdown, including the Populist era (1880-95), the Klan era (1929-29), and the Backlash era (1973-93). Some of the specifics of Friedman’s links are open to question. But the period that most challenges his thesis, by his own admission, is the Great Depression of the 1930s. During that time the economy suffered a severe slowdown yet the policy response, President Franklin Delano Roosevelt’s New Deal, is generally seen as a progressive measure. Friedman explains this paradox partly in terms of Roosevelt’s personality and partly because the impact of the Depression was so broad that people were forced to respond in cooperative ways. If there’s a fault with Friedman’s argument in its own terms it is that he does not understand the link between broader historical trends and economic developments. He certainly concedes that influences besides economic ones can have an impact. But he doesn’t seem to appreciate how some of the key developments in history - such as the Russian Revolution or the discrediting of racial thinking through the experience of the Second World War - also played a key role. More important though, in relation to Friedman’s goal of defending economic growth, is his failure to get to the root of the contemporary anti-growth arguments. He has only one chapter on the environment, one on equality and a few pages on the happiness debate. Both the environment and inequality chapters draw heavily on the work of Simon Kuznets, a twentieth-century American economist and Nobel laureate. Kuznets argued that economic growth tended to widen inequality in the early stages and then narrow it as time progressed. Friedman accepts this argument and adapts it to the environment - the early stages of industrialisation may cause environmental damage, but as the economy becomes richer society also becomes less polluted. Although there is some truth to Friedman’s arguments, they do not go nearly far enough. In relation to the environment, for instance, the growth sceptics’ argument emphasises not only actual damage but potential damage in the future. In their view, it is necessary to be exceedingly cautious in the present because of the damage human activity can do to future generations. Sometimes this is referred to as a precautionary approach, while at other times ‘sustainability’ becomes the buzzword - and this approach is best captured in the debate about climate change. To counter this argument it is necessary to show that excessive caution is a barrier to progress. For example, the mainstream approach to climate change - essentially to put limits on development - undermines humanity’s capacity to increase its control over nature. Restraining economic growth means forcing human beings to live in a poorer environment for them. Similarly, the current discussion of inequality shouldn’t be taken at face value. Far too much time is spent on an arid statistical debate about whether global inequality is widening or narrowing. Either way, it should be clear that the gulf between rich and poor is enormous. The distinctive character of the contemporary debate is that the critics of inequality are not arguing for a better society; rather, the thrust of their argument is that we need to level down. Rather than raise the economic level of the poor to that of the rich - which they regard as unfeasible and undesirable - their goal is to curb the consumption of those living in the industrialised nations. The discussion of happiness is also not what it seems. Critics such as Richard Layard, a professor at the London School of Economics, correctly point out that since the 1970s economic growth does not seem to have coincided with greater happiness (3). However, they are wrong to conclude from this coincidence that economic growth is to blame for unhappiness. There are alternative explanations for why a mood of deep social pessimism has come to the fore in recent years (4). And whatever the subjective mood, it should be clear that in objective terms economic growth remains beneficial. For example, the ability to pay reasonable pensions or other social benefits depends on having a wealthy economy. In contrast, Layard’s emphasis on happiness leads him to argue for an ever greater number of mental health professionals as a policy intervention (5). Friedman’s book provides a reasonable starting point to defending the benefits of economic growth. But his underestimation of the scale of the problem means that he fails convincingly to dispel the key arguments of the growth sceptics. ...............................................Buy The Moral Consequences of Economic Growth by Benjamin M Friedman from Amazon(UK) or Amazon(USA).Daniel Ben-Ami is the author of Cowardly Capitalism: The Myth of the Global Financial Casino, John Wiley and Sons, 2001 (buy this book from Amazon (UK) or Amazon(USA)
orso castano : sintesi della traduzione: secondo Friedman (cosi' come lointerpreta Ben-Ami) la crescita economica apporta grossi benefici morali (cioe' sociali e politici) in aggiunta ai benefici materiali."Il suo principale argomento è che la crescita economica aiuta a promuovere l'apertura, la tolleranza e la democrazia"...."si sostiene che la crescita provoca danni per l'ambiente, causa infelicità ed amplia la disuguaglianza. Questo è il motivo per cui il termine 'scetticismo da crescita' è utile per descrivere questo tipo di critiche......"In uno dei capitoli più interessanti del libro, egli fa il punto su una delle principali innovazioni del secolo dei Lumi cioe' quella di mettere lo sviluppo materiale al centro del progresso umano...."la reazione romantica all'Illuminismo inizia conl'interrogarsi sui benefici della crescita economica......a proposito della Grande Depressione del 1930 : durante questo periodo l'economia ha subito un grave rallentamento nonostante la risposta politica, Il Presidente Franklin Delano Roosevelt del New Deal, è generalmente considerato come un progressista. Friedman spiega questo paradosso in parte dovuto alla personalitàdi Roosevelt ed in parte all'impatto della depressione. Questa è stata così vasta che i cittadini sono stati costretti a rispondere in modo cooperativo...."Ma lui non sembra tenere in considerazione come alcune delle chiavi di sviluppo della storia - come la rivoluzione russa o il disprezzo per le teorie razziste che portarono alla seconda guerra mondiale- hanno inoltre svolto un ruolo fondamentale", cosi' come "Friedman accetta la tesi di Simon Kuznets, economista americano e premio Nobele, trovandola adatta alle attuali considerazioni sull'ambiente : le prime fasi di industrializzazione può causare danni ambientali, ma diventando piu' ricca l'economia ed anche più riccha la società, il mondo diventa meno inquinato.....ma gli scettici della crescita sottolineaNO non solo un danno attuale reale, ma un danno potenziale per il futuro.......Per contrastare questo argomento è necessario dimostrare che l'eccessiva cautela è un ostacolo al progresso...Limitare la crescita economica significa costringere gli esseri umani a vivere in un ambiente più povero....Ad ogni modo, dovrebbe essere chiaro che il divario tra ricchi e poveri è enorme. Il carattere distintivo del dibattito contemporaneo è che i critici della disuguaglianza non pongono argomenti a favore di una società migliore, ma la loro tesi è che abbiamo bisogno di un livello di sviluppo economico basso. Piuttosto che aumentare il livello economico sia dei poveri che dei ricchi - che essi considerano come irrealizzabile ed indesiderabile - il loro obiettivo è quello di ridurre il consumo di coloro che vivono nei paesi industrializzati.....Richard Layard, professore presso la London School of Economics, giustamente fa notare che dal 1970 la crescita economica non sembra aver coinciso con una maggiore felicità......ma l'autore si sbaglia nel far derivare da questa coincidenza che la crescita economica è la colpa dell'infelicità. Ci sono spiegazioni alternative per lo stato d'animo di profondo pessimismo sociale venuto alla ribalta in questi ultimi anni . E qualunque sia l'umore soggettivo, dovrebbe essere chiaro che in termini oggettivi la crescita economica rimane vantaggiosa. Ad esempio, la capacità di pagare le pensioni in misura ragionevole o altre prestazioni sociali dipendeno dall'esistenza di una ricca economia.
venerdì 27 marzo 2009
Intervista al filosofo Alain de Benoist sulla nuova destra, clicca
«Come commuovere un popolo disincantato come il nostro, senza farlo tremare per pericoli immaginari?», scriveva Tocqueville
Quella attuale è una destra senz’anima e senza idee, ma dominata dal denaro». Alain de Benoist, filosofo francese considerato uno dei teorici della nuova destra, non usa mezzi termini. «Esistono molte destre, ma tutte accomunate dall’adesione al liberalismo mercantile», spiega lo studioso. «Quelle correnti della destra che in passato guardavano con sospetto il denaro, l’individualismo e il dominio dell’economia sulla politica oggi hanno pienamente accettato questa prospettiva, aderendo in toto al capitalismo e al mercato». In passato l’antimodernismo era un dato caratteristico della destra. È ancora vero? «No. Paradossalmente, oggi l’idea del progresso appartiene più alla destra che alla sinistra. La critica delle forme del progresso è esercitata soprattutto dai verdi, che di solito sono collocati a sinistra. La destra ha anche aderito più apertamente alla globalizzazione e alla logica del profitto che la sottende». La globalizzazione però rimette in discussione un principio fondatore della destra, vale a dire l’attaccamento al territorio e alla nazione... «In effetti, nasce da qui la sua schizofrenia. Sul piano della retorica, la destra non abbandonato il legame con il territorio e la nazione, ma nella pratica essa aderisce a un sistema economico che rimette in discussione radicalmente queste nozioni, mirando a sopprimere le frontiere e le identità nazionali. Insomma, la destra difende un sistema che progressivamente distrugge tutto ciò che essa vorrebbe conservare». Ciò spiega la sopravvivenza al suo interno di una componente estremista, spesso xenofoba e razzista? «Solo in parte. In realtà, la destra più dura vuole salvare l’identità nazionale, pensando che la minaccia venga innanzitutto dagli immigrati. In realtà, la vera minaccia viene dal capitalismo stesso, il cui enorme mercato globale minaccia i modi di vita locali e popolari molto di più dell’immigrazione». L’antiegualitarismo fa ancora parte dell’apparato concettuale della destra? «Ormai non è più una discriminante forte nei confronti della sinistra. La destra ammette senza difficoltà l’eguaglianza dei diritti politici e delle opportunità. Ha anche pienamente adottato i diritti dell’uomo. Sul piano delle libertà però, tende difendere soprattutto la libertà del mercato, da qui la difficoltà di fronte all’attuale crisi economica. In realtà,oggi non esistono più un pensiero, una filosofia o una visione del mondo di destra. Le trasformazioni degli ultimi vent’anni hanno travolto le identità ideologiche e uno dei grandi problemi della destra è proprio quello di sapere cosa significhi oggi essere di destra». Come fare allora per tentare una definizione? «Io vedo solo elementi negativi. La destra è diventata una coalizione di interessi, che sul piano internazionale fa parte del grande club occidentale contrapposto al resto del mondo. Ciò spiega ad esempio l’enorme successo tra le sue fila del tema dello scontro di civiltà tanto caro a Huntington». La differenza tra destra radicale e destra di governo è ancora importante? «Tende a stemperarsi. Lo ha mostrato ad esempio la campagna elettorale di Sarkozy. Tuttavia l’esistenza dei movimenti di estrema destra fa parecchio comodo alla destra di governo, perché ne mostra per contrasto la rispettabilità. Per la destra, quindi, questi movimenti sono politicamente ininfluenti, ma molto utili».
per saperne di piu' su A. de Benoist : http://anchesetuttinoino.splinder.com/post/18736246/ALAIN+DE+BENOIST:+LA+COMUNITA'
Le due identità del partito conservatore , clicca
Un paradosso stringe oggi da vicino la destra italiana. Il berlusconismo le ha consentito un successo clamoroso e insperato. Ma dal berlusconismo dovrà subito uscire, se vuole darsi una prospettiva che regga al futuro. Nella storia politica del nostro Paese non è mai esistito, finora, un partito conservatore di massa. Un partito, cioè, schierato in modo conseguente sia a destra, sia sul terreno della democrazia. La Dc era un’altra cosa, anche se nel suo amalgama la destra rappresentava una componente essenziale. E un’altra cosa, naturalmente, era l’Msi, intrinsecamente minoritario, e saldamente radicato nel neofascismo fino agli inizi degli anni novanta. Questa assenza – un’anomalia assoluta rispetto alle altre grandi democrazie dell’Occidente – si spiega con i traumi subiti dall’Italia nella prima parte del suo Novecento: un’epoca di ferro e di fuoco, in cui abbiamo inventato, insieme, il fascismo e la forma europea del comunismo, nel tentativo di venire a capo di un durissimo scontro di classe; abbiamo combattuto due guerre mondiali, e ci siamo dilaniati in un sanguinoso conflitto civile di liberazione nazionale. Il prezzo lo abbiamo pagato ingessando per i quarant’anni successivi la nostra politica e la stessa democrazia faticosamente riconquistata, immobilizzate entrambe intorno all’ininterrotto primato del centrismo democristiano: in un primo tempo, in una condizione di vera e propria “guerra fredda civile” (negli anni cinquanta); più tardi, in un consociativismo sempre più spinto (legittimato dalla strategia del “compromesso storico”), durato sino alla fine degli anni Ottanta. E’ stato solo il collasso del comunismo e il crollo dell’impero sovietico che ha spazzato via tutto questo, creando le condizioni per una nostra piena “normalizzazione” democratica. Il processo è stato tuttavia più faticoso del previsto, e su di esso (come ha scritto Ezio Mauro) ha messo ben presto il suo “sigillo” Silvio Berlusconi, con le ben note conseguenze. Egli si era trovato d’improvviso un’autostrada vuota spalancata innanzi, e si è imposto politicamente e culturalmente decostruita da una duplice transizione, post-industriale e post- democristiana; un Paese ansioso di voltar pagina, cui hasaputo offrire uno specchio in cui riconoscersi, una facile ideologia acquisitiva e mercatista che sembrava al passo con i tempi, e un’interpretazione scarnificata e leaderistica della democrazia, ai limiti del sovversivismo, in sintonia con alcuni caratteri profondi della nostra identità. Non è riuscito a imporre un’autentica egemonia sul Paese, ma ci è andato vicino, e soprattutto è stato capace di incunearsi nel rapporto fra sinistra e modernizzazione, che si era già spezzato negli anni Ottanta, e a interporre, nel varco che si era creato, la propria narrazione, i propri simboli, la propria messa in scena, ricongiungendo – nel sentire della maggioranza degli italiani –nuova destra e nuova modernità, antistatalismo e leggerezza consumistica. Ma ora anche questa stagione sta finendo. La crisi sta disegnando per noi un altro orizzonte, ben lontano dall’orgia e si è imposto di mercato che abbiamo finora vissuto. Nell’Europa e nel mondo che usciranno dalla recessione, quello che abbiamo conosciuto e identificato finora come “berlusconismo” non avrà più spazio. È irrimediabilmente la canzone di un’altra età, di quell’Italia liquefatta dall’impeto della deindustrializzazione e stordita dalla scomparsa del vecchio sistema dei partiti, che ormai ci stiamo lasciando alle spalle. Può darsi che il vecchio leader riesca, con un colpo di teatro, a sopravvivere politicamente alla sua stessa creatura, improvvisando non saprei quale metamorfosi. Sarà tuttavia molto difficile. Oggi la prospettiva di una nuova destra – di un partito conservatore di massa come elemento decisivo della normalizzazione democratica italiana – passa per un’altra strada. Quella di Burke e non di de Maistre, come ha scritto Eugenio Scalfari su questo giornale. La tradizione, la terra, la nazione certo; e poi innesti nuovi: la Costituzione, il presidenzialismo, la riscoperta dello Stato. Ma qui le strade si dividono, e gli eredi del berlusconismo cominciano a manifestare idee diverse, e non facilmente componibili. C’è la visione di Fini, che ormai guarda esplicitamente oltre Berlusconi, e mette in guardia con parole forti dai rischi del leaderismo in nome di una concezione più pluralista, più laica (che non rinuncia a un filone illuministico: ancora Scalfari). E quella invece di Tremonti, che sembra avere in mente un’Italia ripiegata nel suo guscio, meno “globale” e più “locale”, municipalizzata, dichiaratamente “neoguelfa”, pronta a essere accolta sotto le bandiere della Chiesa. Di fronte, un lavoro enorme attende la sinistra italiana: la ricostituzione di un patrimonio ideale degno di questo nome. Può riuscirvi. Il Paese aspetta un’indicazione forte, all’altezza della gravità del momento. Dalla recessione non si esce arretrando. La globalizzazione è senza ritorno, come lo è il rapporto fra tecnica, vita e mercato. Ma bisogna elaborane una forma più matura. La sinistra può vincere se saprà intercettare le tendenze che usciranno dalla crisi. La destra farà fatica a farlo. Non è dalle sue parti che ha mai abitato la razionalità sociale di cui abbiamo bisogno. Cerchiamo di ricordarlo.
Editore Fazi (collana Le terre)
In sintesi
Negli ultimi due secoli, l'uomo ha messo in atto una semplice ma brillante strategia di sopravvivenza: l'abbondanza. Di qualunque cosa avesse bisogno, il trucco era cercare di ottenere sempre di più: un rango più elevato, una maggiore quantità di cibo, di denaro, o di informazioni. E senza mai accontentarsi, cercare ancora e ancora. Solo in questo modo è riuscito a superare carestie, epidemie, catastrofi naturali. Ma oggi, grazie alle moderne tecnologie, viviamo addirittura nell'eccesso: abbiamo molto più di quanto sia mai possibile usare, godere, permetterci. Ciò nonostante, continuiamo a volere di più, con la conseguenza che, pur di seguire questo istinto, finiamo per ammalarci, stressarci, ingrassare, arrabbiarci e indebitarci. Per non parlare delle ripercussioni sull'ambiente. Adesso è giunto il momento di smettere. I segnali d'allarme sono ovunque: la crisi economica e quella ecologica, lo spettro della recessione, la precarietà lavorativa ed emotiva. Eppure i media - e persino i governi dei paesi occidentali - non fanno che dirci: "Comprate! Il peggio passerà". Ecco perché, sostiene il giornalista britannico John Naish, si deve iniziare a sviluppare un senso di appagamento per quello che già si possiede, in netto contrasto con una cultura consumistica che spinge ad avere sempre nuovi bisogni sociali e materiali.giovedì 26 marzo 2009
Allarme Confindustria: Nel 2010 Pil a -3,5% e 507 Mila Posti In Meno , clicca
la decrescita : unica soluzione all'uscita dalla crisi dei postcapitalismi ?
da Donna de la Repubblica , marzo 09, di Laura Piccinini POSTCAPITALISMI Potete essere con lui o contro di lui. John Naish, teorico della decrescita, ci spiega perché praticarla sia l'unica soluzione alla crisi Se pensate che un libro sul consumare troppo non vi serva più, tanto ormai ci penserà la crisi a spegnere l'interruttore centrale, "vi sbagliate", dice il suo autore. "Perché guardate che anche con la crisi non è cambiato nulla, se la preoccupazione dei politici è garantirvi che, tempo un anno o massimo il 2010, torneremo alla normalità". Ma, scusi, Obama? "È come spostare le sedie sdraio sul pontile del Titanic. Non basta", continua John Naish, giornalista del Times, quarantacinquenne della schiera degli anticonsumisti anticapitalisti, teorico della decrescita, panteista scientifico. Che pratica quel che predica anche se vive a Brighton e non nei boschi alla Walden Thoureau. Ma "quanto basta", per citare la sua teoria che è finita nel libro che dovrebbe spiegare anche come e perché siamo arrivati a doverlo dire: Basta! (240 pagg., 16,50 euro, dal 20 marzo per Fazi editore). E perché non sarà facile quanto sembra, per quanto reso obbligatorio dalla crisi. Il punto è che c'è di mezzo Charles Darwin, il biologo che a duecento anni dalla nascita è più pimpante e celebrato che mai (a parte il pezzetto d'umanità convinto che ci abbia creati Dio e non discendiamo mica dalle scimmie). E così tra uno speciale di Micromega e un saggio dello storico americano Dennis Dutton sull'"Istinto dell'Arte" che ci verrebbe dall'evoluzione naturale della specie, prima che per acquisizione culturale, c'è il nostro Naish. Che dice che se "siamo diventati come le scarpe di Imelda Marcos per cui il paio migliore è sempre il prossimo" e in pratica vogliamo troppo di tutto, è colpa della strategia di sopravvivenza. E dei nostri cervelli, che come ha suggerito a Naish il biologo evolutivo Rutgers Trivers, nella fase di scelta e consumo, siano notizie o hamburger, e-mail o vacanze, felicità e malattie, si sono fermati al Pleistocene, 130-200mila anni fa o giù di lì. Esteticamente sembriamo belli e presentabili, ma davanti al buffet ci salta fuori l'istinto ominide che deve procacciarsi il cibo con le asce. "O il sushi con le forchettine di Philippe Starck, se aspiriamo a diventare cavernicoli di prestigio", dice Naish. Al telefono, come piace a lui che da teorico della decrescita specifica a fine libro di non avere incluso viaggi aerei in nota spese, ché le tecnologie devono servire a lasciare un'impronta inquinante più scarpetta di Cenerentola che Yeti. Anche qui, quanto basta. Infobesi, infomani, informivori? Che poi, il primo a non sembrare minacciato da tasti di spegnimento è il settore dell'informazione. O meglio, la crisi potrà far tremare l'editoria e costringere a chiudere giornali, "ma restano mille altri bottoni da accendere per tenersi costantemente e magari gratuitamente informati". Il punto è che, secondo Naish, davanti alle tv o a quel concentrato mediatico che è diventato il display del telefonino regrediamo alla savana, dove si sono evoluti i cari antenati, che più informazioni acquisivano più riuscivano a nutrirsi e moltiplicarsi. Certo dovevano "superare la paura di estinguersi per affrontare ogni novità, che innescava un conflitto mentale tra paura e curiosità". Perché abbia vinto la seconda, se lo è fatto spiegare dai neuroscienziati della Southern California University, che hanno scoperto che ai furbetti del Pleistocene ogni acquisizione di nuovo concetto gratificava il cervello con una scarica di oppioidi simili all'eroina. Lo hanno svelato le tomografie. Di qui alla ricerca di tutti i media possibili per non entrare in crisi di astinenza. Naish invita a "soffermarsi da critici e non spettatori passivi" sullo scorrere delle breaking news e dei tizi microfonati che celebrano il rito del "posso confermare che non è successo nulla dall'ultimo collegamento in cui ho detto che non era successo nulla". Se vi dice qualcosa, siete a rischio infobesità, chi non lo è. La sua paura, un po' da romanzo di fantascienza e invece reale, avverte, è che "il saturismo da informazioni potrebbe bloccare l'evoluzione della specie, sopprimendo definitivamente il nostro desiderio di spegnere la tv e fare qualcosa che abbia uno scopo preciso". Il distacco dalla realtà che a Naish fa venire voglia di urlare Basta! il più smodatamente possibile. Tipo? "I social network, grandiosi se hai fatto qualcosa di interessante e vuoi farlo sapere a qualcuno, ma non ti accadrà più niente di interessante se finisci per stare tutto il tempo su facebook. Comunque io non lo frequento perché vivo a Brighton, che è una città dove puoi fare social networking faccia a faccia". E non ha un telefonino, ma se i suoi figli o sua moglie dovessero aver bisogno di lei, per emergenza? "È vero, è un facilitatore di vita. Ma può creare senso di dipendenza, rallentare la conquista dell'autonomia personale di un adolescente. E a causa sua il concetto di "emergenza" si è così allargato che certa gente sembra costantemente sull'orlo della catastrofe, li vedi inviare sms con smorfie di terrore esagerato". Naturalmente non ha la tv, "ma non ce l'ho mai avuta", dice, per scansare le accuse di fichettismo No-tech, come il futurologo Paul Saffo ha bollato la categoria, in ascesa: dal musicista e vecchio ambientalista Bob Geldof che non ha e-mail (ma il cellulare sì, esempio di q.b.). Ai manager aziendali che però dismettono la posta elettronica per non ricevere lecite rivendicazioni dai dipendenti, ma questo non è qb, è una beffa. Un po' come il nostro sciopero virtuale, facciamo notare a John, che però aveva avvertito. C'è pure un attenti all'infant-tainment rivolto ai genitori, lanciato dalla chimica del cervello Susan Greenfeld. "Che forse esagera, ma, nel dubbio... Si sa che l'etica vieta di sottoporre i bambini a test tipo topi da laboratorio, in questo caso il q.b. mi pare la scelta più sensata. Anche perché "proibire del tutto videogiochi o tv contribuirebbe a renderli più appetitosi". Rimedi e cure a ogni fine capitolo: "Condividere le breaking news con i vicini di pianerottolo? O configurare le e-mail in modo da riceverne ogni 90 minuti, se a ogni interruzione ne perdiamo 4 per tornare a quel che si stava facendo". Dalle news al cibo, pleistocenici 2009 Di qui al cibo, il darwinismo non cambia. "E con la crisi semmai la gente va a riempire i carrelli al discount, approfitta dei buffet all-you-can-eat (mangia quanto puoi) che con la recessione offrono prezzi stracciati". Naish ha invitato a pranzo in uno di quei posti lo psicologo dell'appetito Martin Yeomans, che nel meno metaforico capitolo "Basta cibo!" gli spiega come gli esseri umani nascano privi di gusto e imparino a formarselo scoprendo presto il meccanismo per cui sapori amari tipo l'alcol comunichino in realtà piacere al cervello. Linneo ci aveva definito homo sapiens, ma siamo sempre lì, "la nostra struttura desiderante si è formata alla fine del Pleistocene e se siamo sopravvissuti alle centinaia di carestie nei secoli è grazie all'istinto arraffone dell'homo expetens, nelle epoche di abbondanza si immagazzinava grasso in vista dei periodi di fame. E non c'è stato verso di evolversi per arrivare a dire basta cibo. Che tanto per cambiare è un altro sballo: grasso e dolce fanno un'altra scarica di oppioidi endogeni tipo eroina, sballo doppio quando ci riempiamo lo stomaco lungo la linea del nervo vago che collega la pancia alla testa e comunica al cervello primitivo che stiamo per scoppiare. Sconsigliate diete lampo che promettono di ritornare alla vita normale. Lui diffida di chiunque prometta "ritorni alla normalità". Non basta, bisogna autoridursi. È un teorico della decrescita. O si è con lui, o contro di lui. Come il critico che l'ha attaccato dal magazine Spiked, gli facciamo notare, che è un giornale controcorrente e anticonservatore ma ha già attaccato un illustre ambientalista come George Monbiot, per dire. Oggetto della discordia proprio la tesi dei cervelli da Pleistocene, smentita dagli studi dell'esperto di scienza Kenan Malik, che dice che al contrario la natura umana è flessibile e si sviluppa interagendo con l'ambiente. "Non in quella fase", ribatte Naish, "io mi riferisco a uno stato pre-razionale in cui avvengono le decisioni. E poi, vada a guardare il sito del giornalista che mi ha criticato". Fatto: si chiama Daniel Ben-Ami e il sito è "Più Ferrari per tutti", ovvero, "Risorse per la difesa del progresso economico contro gli scettici della crescita". Interpellato, resta sulle sue posizioni, "contro Naish e tutti i pro-austerity come Monbiot". O siete con Naish, o col signor Ben-Ami, scegliete. Magari dopo avere letto il capitolo "Basta opzioni!". Quello dove furoreggiano gli Yeppies (Young Experimenting Perfection Seekers), Giovani Aspiranti Perfezionisti, sindrome diagnosticata da Kate Fox del Social Issues Research Center: gente che ha avuto la flessibilità per andarsene se qualcosa non andava correndo il rischio di ritrovarsi a casa a 40 anni suonati. Procrastinatori a vita. E con gli ex-workaholic, i drogati di lavoro ricacciati a casa dalla crisi? "Li invito al capitolo "Basta Lavoro!", e a riscoprire il Keynes nascosto". A che cosa serve il benessere Tornando all'economia spicciola, l'altro testimonial della teoria del q.b. è John Maynard Keynes, il celebre economista anche lui evocatissimo di questi tempi. Il punto, sostiene Naish, è che stanno riesumando il Keynes sbagliato, il più prevedibile, anche se aiutò a uscire dalla Grande Depressione del '29 con la teoria della spesa interna per sostenere la domanda. "Come Obama e la fiducia nel moltiplicatore keynesiano", dice Naish, cui Barack piace, ma non gli va giù che spenda "900 miliardi per lo stimulus plan, quando bastava un decimo e il coinvolgimento di economisti alternativi". Quelli della decrescita come lei, eh, Naish? Il change di Obama c'è ma dentro un sistema capitalistico dove il mercato è imbattibile. Non basta. L'economista nascosto che gli ha ispirato una via psichedelica al keynesianesimo è l'autore di "Possibilità Economiche per i Nostri Nipoti", l'uomo dagli amori bisex, frequentatore del circolo letterario proto-hippy Bloomsbury. "Che aveva predetto che in poche generazioni avremmo raggiunto un'abbondanza economica e tecnologica tali da permetterci di lasciare alle spalle il problema dell'incassare e spendere e pensare al resto, all'evoluzione culturale e morale davvero liberata della specie. Capite? Quel momento è arrivato da un po', ma finora non c'è stato verso. Forse questa recessione può convincerci alla svolta", predica e credendoci Naish. Basta! leggere dei Beckham sui tabloid. Sarà difficile, negli anni di boom economico ci siamo abituati a ingurgitare informazioni fast, facilmente comprensibili e velocemente dimenticate. E "istintivamente possiamo non avere un tasto basta, ma dalla nascita della civiltà abbiamo adottato metodi per trovarlo, dal Tao cinese all'Aristotele che invita a dire: "Grazie, ma ho raggiunto una sufficiente eleganza e il resto sarebbe superfluo"". È solo dopo la Seconda Guerra Mondiale che abbiamo rotto gli argini del consumo per arrivare qui, al punto di massimo sviluppo. E crisi. Fine Dopo i capitoli "Basta roba", "Basta felicità", e "Mai abbastanza!", la certezza è che qualcosa da cui si è affetti si trova, anche di più. Il capitolo "Basta sindromi" non c'è ma è sottinteso. E Naish prima di questo aveva pubblicato un "Prontuario Tascabile per Ipocondriaci". Non è che vuole approfittare del nostro istinto debole darwinista e vorace di tutto, diagnosi comprese? Nell'ultima pagina chiede scusa e invita a dire basta a questo genere di libri. Dopo aver letto il suo, ovviamente.
orso castano: l'articolo e' lungo ma merita di essere letto fino in fondo. Considerazioni e riflessioni di questo tipo si stanno moltiplicando. La crisi economica e produttiva , globalizzata , almeno a livello di ripensamento delle modalita' e degli oggetti da parodurre, sta costringendo a ripensamenti. Certo le spinte sono contrapposte , c'e' chi addirittura approfitta della crisi per accumulare ancora di piu' e prepararsi a ripartire secondo vecchi schemi di accumulazione , c'e' chi resiste e non intende neppure intaccare i vecchi schemi di gestione della "cosa" pubblica , verticismo, gestione privatistica e partitocratica ( quasi indistinta dal modo di gestione delle aziende private) , compresa la immortale pratica della cooptazione decisa dall'alto , della corruzione, dello sperpero quale identita' narcisitica , l'ostentazione del lusso e dello spreco quale identita' esistenziale. Ma c'e' anche chi , come j. Naish suggerisce di dire Basta ! e' assurdo, e' inutile.....
bilanci sociali della Citta' di Torino e delle ASL di Torino
Città di Torino, clicca x link pagina In questa pagina sono raccolti i bilanci comunali della Città di Torino dal 1993 ad oggi. A partire dall'anno 2000, i bilanci sono corredati delle relazioni di presentazione al Consiglio Comunale. I documenti sono in formato pdf. I dati sono a cura della Vice Direzione Generale Risorse Finanziarie, Settore Bilanci e Rendiconti. Ultimo aggiornamento: 18/4/2008 Bilanci 2008-2000Anno Previsione Dati Sintesi Previsione Rendiconto Dati Sintesi Rendiconto Relazione Previsione Relazione Rendiconto 2008 dati previsione dati sintesi non ancora disponibile non ancora disponibile relazione 2008 non ancora disponibile 2007 dati previsione dati sintesi non ancora disponibile dati sintesi relazione 2007 rel. consuntivo 2007 2006 dati previsione dati sintesi non ancora disponibile dati sintesi rel. previsione 2006 rel. consuntivo 2006 2005 dati previsione dati sintesi dati rendiconto dati sintesi rel. previsione 2005 rel. consuntivo 2005 2004 dati previsione dati sintesi dati rendiconto dati sintesi rel. previsione 2004 rel. consuntivo 2004 2003 dati previsione dati sintesi dati rendiconto dati sintesi rel. previsione 2003 rel. consuntivo 2003 2002 dati previsione dati sintesi dati rendiconto non disponibile rel. previsione 2002 rel. consuntivo 2002 2001 dati previsione dati sintesi dati rendiconto non disponibile rel. previsione 2001 rel. consuntivo 2001 2000 dati previsione dati sintesi dati rendiconto non disponibile Altri documenti Bilancio sociale 2003 bilancio sociale 2004 Bilanci 1999 e precedentiAnno Previsione Consuntivo 1999 dati previsione dati consuntivo 1998 dati previsione dati consuntivo 1997 dati previsione dati consuntivo 1996 dati previsione dati consuntivo 1995 dati previsione dati consuntivo 1994 dati consuntivo 1993 dati consuntivo Copyright Città di Torino
"il Bilancio Sociale 2003 della Città di Torino è stato premiato con l'Oscar di Bilancio dalla FERPI (Fed. Rel. Pubbliche) per l'informazione chiara, articolata, approfondita, completa, graficamente accattivante, Merito particolare poi è stata la disponibilità integrale sul sito della Città. Il premio è stato ritirato dall'Assessore al Bilancio, Paolo Peveraro. La Città di Torino ha assunto l'impegno di pubblicare il proprio Bilancio Sociale accogliendo una mozione del Consiglio Comunale, presentata il 15 novembre 2002. L'obiettivo era ed è quello di offrire ai cittadini, alle loro espressioni organizzate (dalle associazioni alle rappresentanze di categoria) e alle altre amministrazioni, un documento che da un lato consenta, anche ai "non addetti ai lavori", di capire in modo chiaro come sono stati spesi i soldi amministrati dal Comune, dall'altro di aggiungere informazioni preziose. Per chi? Con quali scelte? Con quali prospettive? Per raggiungere questo risultato, Torino ha scelto di adottare i Principi di redazione del Bilancio Sociale emanati dal Gruppo di studio per il Bilancio Sociale (GBS), ritenuti oggi i più attendibili. Secondo questo modello, il documento si divide principalmente in tre parti: l'identità dell'ente, una sintesi del rendiconto economico al quale si aggiunge il calcolo e la redistribuzione del valore aggiunto, infine la relazione sociale che, attraverso la descrizione qualitativa e quantitativa dei risultati, consente di comprendere fino a che punto gli impegni assunti sono stati mantenuti...................."
orso castano : se mi e' concesso : opacita' ed ombre contro un serio ed encomiabile sforzo di trasparenza. Una gestione partitocratica , verticistica , "mastelliana" (non importa se il primario lo scelgo io , purche' sia bravo!!) contro lo sforzo per una gestione compartecipata.