"Cininica e bara". Così l'industria farmaceutica di fronte ai disturbi mentali, secondo un suo ex dirigente. Philippe Pignarre si potrebbe definire un whistleblower postumo, uno che ha dato l'allarme dicendo che il suo mondo puzzava dalla testa ai piedi , solo una volta che ne è uscito. Meglio tardi che mai, tuttavia. In Francia è stato a lungo direttore della comunicazione di importanti aziende medicinali. Ha visto allargare, in modo direttamente proporzionale al perimetro semantico dei disturbi, i fatturati dei suoi datori di lavoro. E oggi ha denunciato tutto in L'industria della depressione, in uscita da Bollati Boringhieri (pp. 140, euro 14). È un bruttissimo mondo quello che racconta. Come si è arrivati dai cento milioni di depressi degli anni Settanta al miliardo del 2000? L'umanità è diventata dieci volte più triste o la causa va cercata altrove? «La spiegazione è complessa. "gli individui oggi sono portati a guardarsi dentro più profondamente di un tempo e a cercare subito delle spiegazioni quando qualcosa non va bene e non si sentono prestanti al lavoro o nelle relazioni familiari. Di colpo la depressione diventa il denominatore comune di tutta una serie di stati che una volta non avremmo messo sotto la stessa etichetta. È una qualifica ormai assai larga e vaga, che va da ciò che una volta chiamavamo melanconia, ovvero un sentimento di tristezza che spazia dalla voglia di morire a un'incapacità totale ad agire, sino a un malessere molto meno grave che chiamiamo depressione leggera o distimia. Oggi tutto questo viene raggruppato sotto il titolo unico di depressione con il paradosso che gli antidepressivi sono assai efficaci nel caso delle melanconie gravi, ma molto poco in quelle lecere, mentre è proprio in questo secondo caso che vengono massicciamente consumati. Però si porta sempre l'esempio dei casi gravi per giustificare il fatto che se ne consumino tanti e impedire il dibattito». Qual è il ruolo dell'industria farmaceutica in questa esplosione? «Di certo si è avvantaggiata molto di questa situazione. Si è accorta presto che la definizione di depressione non era molto stabile e che molte persone leggermente tristi potevano essere incluse nel gruppo dei depressi e quindi potevano consumare massicciamente farmaci pensati originariamente per le melanconie gravi. Si è resa conto poi che la maggior parte dei disturbi psichici avevano una definizione imprecisa e se n'è approfittata con cinismo. A differenza di numerose malattie organiche, la diagnosi dei disturbi psichici non è mai stata fatta con l'aiuto di strumenti tecnici oggettivi e indiscutibili. Non esiste un test di laboratorio attendibile in psichiatria. È solamente l'incontro soggettivo tra il paziente e il medico che genera la diagnosi».Vedete una complicità tra le Big Pharma e i grandi psichiatri, per esempio quelli che lavorano alle nuove definizioni di malattie mentali nel prossimo Dsm-V? «Beh, non appena un medico fa parlare di sé, mostra un certo dinamismo, anima i seminari ed è rispettato dai colleghi, i laborato-ri farmaceutici gli si gettano addosso. E fanno tutto ciò che è in loro potere per reclutarlo alla loro causa: lo invitano a fare conferenze ai congressi, gli finanziano gli studi cimici, gli danno fondi e così via. Con il tempo se lo rendono amico in mille modi. E anche con la più forte volontà del mondo sono rari i medici che riescono a resistere a tali blandizie, dal momento che i finanziamenti pubblici sono sempre più scarsi». Molti commentatori hanno parlato di «medicalizzazione della normalità». Quanto è serio, secondo lei, questo rischio? «Il nodo è tutto qui: dove inizia e dove finisce il disturbo psicologico? Nessuno lo sa perché non esistono riscontri biologici nei disturbi mentali. Anzi, quando se ne trova uno, non si parla più di disturbo mentale, ma di disturbo neurologico con ricadute psicologiche. La diagnosi quindi si poggia sul consenso che si stabilisce, in un certo momento storico, tra gli psichiatri. Essenzialmente quelli americani, mentre quelli degli altri Paesi si accontentano di copiarli. L'industria farmaceutica gioca evidentemente un ruolo: fa tutto quel che può per estendere la definizione di disturbo mentale. Così stati che si consideravamo normali ancora pochi anni fa tendono a essere definiti come anormali oggi al fine di giustificare una prescrizione più ampia dì medicinali. Per farci paura ci dicono che bisogna curare un disturbo mentale già dai primi segni, anche se non sono gravi, secondo l'argomento che ciò eviterà un peggioramento. Però non c'è alcuna prova che tale ragionamento - vero per certi disturbi organici, ma neppure tutti - valga in psichiatria o in psicologia. Anzi, alcuni sostengono proprio il contrario. Ad esempio, prescrivere molto precocemente un neuro-lettico, un antipsicotico, a un adolescente che ha la tendenza a isolarsi, con la motivazione che potrebbe essere un inizio di schizofrenia, ha spesso esiti catastrofici. Più a un giovane si daranno neurolettici, più lui assomiglierà a uno schizofrenico (le bozze del Dsm-V hanno scatenato molte polemiche anche sul trattamento precoce delle presunte psicosi, ndr)». Quali sono le contromosse più importanti per ridurre, in futuro, le ingerenze del mercato sul dominio della salute mentale? «Sin tanto che il dialogo sarà solo tra medici e industria farmaceutica non ci sarà alcun modo di resistervi. Serve che i pazienti possano giocare un ruolo collettivo. Ciò non è semplice perché ogni volta che un'associazione di pazienti alza la testa, le Big Pharma si precipitano per finanziarla e influenzarla. C'è bisogno dunque di associazioni di pazienti indipendenti che imparino a occuparsi di tutto, compresi la definizione di disturbi mentali, il modo di fare i test clinici e così via. Ma ciò non sarà possibile sin quando le casse di assistenza sanitaria non accetteranno di finanziarle. Negli Stati Uniti ne esistono già alcune molto potenti, in Europa no».
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