mercoledì 7 gennaio 2015

IO NON LAVORO !

Sembra che la maggior parte dei protagonisti parta da una rendita: soldi guadagnati in passato o beni di famiglia. E' cosi? Non è proprio facile partire da zero?
E’ evidente che se si vuol vivere senza lavorare il primo – ma non l’unico - ostacolo da superare è la sopravvivenza. Dove trovo i soldi per mantenermi? I personaggi di “Io non lavoro” hanno cercato di risolvere questo problema nei modi più vari perché partivano da punti di partenza diversi. A chi ha potuto contare su una rendita familiare più o meno ampia si aggiunge chi ha lavorato per un periodo prima di smettere, ma anche chi è riuscito a trovare un escamotage esterno per riuscire nell’intento. Tutti avevano il desiderio di non legare la propria esistenza e la propria identità al lavoro, nessuno di loro voleva subirne i condizionamenti temporali o psicologici. Persone estremamente libere, quindi, dal giudizio degli altri, ma anche dal bisogno eccessivo di denaro.
E quindi?
Io non lavoroCome dice una delle nostre protagoniste, piuttosto faccio la fame ma non vado a lavorare. Se si vuol vivere senza guadagnare, in primo luogo si deve sapere che si dovrà fare a meno di tanti gadget che sembrano ormai quasi imposti dalla società dei consumi. Chi non lavora, tirandosi fuori dal meccanismo produttivo, si tira fuori anche delle conseguenze di quel sistema. Rinunciare al superfluo, però, non costituisce una sofferenza, anzi. Il consumismo viene visto come un ulteriore peso da cui disfarsi.
Pensa che il fenomeno stia prendendo piede in Italia piu che all'estero?
Nel nostro Paese i nuclei familiari finiscono spesso col diventare i più efficienti ammortizzatori sociali. La rete di protezione economica delle famiglie, anche delle più modeste, e’, non di rado, sufficiente a garantire il mantenimento dei figli per lunghissimi periodi di tempo. In un Paese scarsamente meritocratico come il nostro, dove l’ascensore sociale resta bloccato ed e’ rara la mobilità tra le generazioni, facilmente può prevalere un atteggiamento di resa.
E cioè?
Finire col pensare che l’impegno lavorativo, scarsamente premiante, possa essere inappagante sia psicologicamente che economicamente. Lo dicono le statistiche che oggi parlano della cosiddetta “generazione ne ne”, i giovani che non studiano e non lavorano. Gli “inattivi”, secondo gli ultimi dati, sarebbero quasi il 20% dei giovani sotto i trent’anni. E’ un dato che dovrebbe far riflettere per correre ai ripari, se vogliamo che la nostra sia davvero una Repubblica fondata sul lavoro, come recita la nostra Costituzione. E non sulle rendite o sui patrimoni.
I protagonisti del suo libro hanno uno status sociale elevato, un livello culturale alto. E' solo una coincidenza?
Quasi tutti hanno un bagaglio culturale piuttosto corposo. La spiegazione e’ semplice: tutti i protagonisti di “Io non lavoro”, avendo uno smisurato tempo a disposizione, hanno maturato una spiccata attitudine alla riflessione. Molti passano gran parte del loro tempo a leggere, dai libri ai saggi ai quotidiani. Inoltre hanno spesso trovato dei riferimenti filosofici di supporto alla propria scelta, che è magari arrivata dopo un periodo di elaborazione psicologica nutrita di letture e di meditazione.

E in futuro, ritiene che aumenteranno gli «improduttivi»?
Credo che il mondo occidentale nell’era delle crisi economiche e politiche internazionali sarà sempre più portato a riflettere sul reale valore del lavoro. Spogliato dal suo tratto “comunitario”, di mezzo fondamentale per realizzare il progresso comune della società, il lavoro sembra essere ormai diventato solo la molla per l’esaltazione individuale, per l’arricchimento, per l’affermazione del sé. Con il risultato che, quando non riusciamo a realizzare i nostri obiettivi, finiamo vittime di grandi frustrazioni, ma anche nel migliore dei casi, quando cioè raggiungiamo il successo, ci rendiamo spesso conto che non ci ha comunque reso appagati.
Cosa vuole dire?
Ci sono domande di cui si avverte sempre più l’urgenza: siamo davvero così sicuri che la sfrenata spinta verso la produzione e la ricchezza a tutti i costi ci renda più felici? O al contrario, ci rende schiavi di meccanismi che poi non siamo neanche più in grado di controllare? Su queste domande cardine della contemporaneità i protagonisti di “Io non lavoro” hanno da raccontarci qualcosa. Le loro storie, avventurose e sincere, possono suscitare amore o invidia, ammirazione o persino rabbia, ma mai lasciano indifferente il lettore. Molti ci scrivono che i nostri personaggi li hanno fatti ragionare sulla propria vita, magari dedicata a un superlavoro o alla conquista di potere e prestigio. La via alternativa perseguita dai nostri personaggi regala sempre uno spunto di riflessione.
La «qualità» più importante per diventare un «improduttivo felice»?
Sicuramente l’indipendenza. Dal giudizio altrui, dal denaro, dal potere. Talvolta persino dall’amore. L’identità di chi non lavora non si lega al giudizio di un capo, a una carriera, al riconoscimento economico o sociale e quindi per affermarla occorre uno sforzo di consapevolezza in più. In una società dove chi non lavora non esiste, i nostri personaggi riescono ad esistere da soli, senza passare per specchi esterni, cosa sicuramente non facile. È per questo che, come scriveva Guy Debord, “Per non lavorare mai ci vuole un grande talento.”
Cinzia Ficco

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