lunedì 12 luglio 2010

Io sono il mio corpo: Il dialogo come antidoto all’idolatria

di Bernhard Casper da no'ova (sole24ore) di giugno 2010
Se ci chiediamo da che cosa sia generalmente caratterizzato l'essere uomini nell'epoca della postmodernità, dovremo dare due risposte molto diverse.Per un verso oggi, in quanto uomini, ci troviamo determinati da una normalizzazione onnicomprensiva. Sembra che ci sia lecito essere uomini soltanto in quanto accettiamo di essere funzioni di un sistema, in quanto cioè abbiamo un codice: un codice fiscale, un codice per l'assistenza sanitaria e altri codici digitali che ci rendono funzioni formali di sistemi. Per altro verso, di fronte a questa formalizzazione estrema del nostro esserci in un mondo sempre più razionalizzato, che ha le sue radici nell'Illuminismo, vi è una materializzazione altrettanto totale del nostro Sé, una generale biologizzazione o appunto una somatizzazione, una comprensione dell'uomo che trova tutto il senso della nostra esistenza in nient'altro che nella nostra corporeità: «Io sono tutto corpo e nulla fuori di questo», come annuncia lo Zarathustra di Nietzsche.L'affermazione di Nietzsche rilancia la riflessione sul limite umano e sulla relazionalità: ognuno ha forte necessità dell'altro. Alla fin fine cos'è che ci interessa davvero? Proviamo a riflettere.
Innanzitutto: in effetti non abbiamo alternative rispetto a questa fondamentale condition humain che il nostro «io sono corpo» significa. La nostra verità consiste nel fatto che ci troviamo a confrontarci continuamente con un «non». Non siamo tutto. E non abbiamo un tempo illimitato. Ma questo significa un destino fatale? O non si mostra forse proprio in ciò la chiamata sommessa di un senso che si annuncia nel nostro «io sono corpo»; di un senso che non è fatto danai e che tuttavia ci si da proprio in questo nostro esserci corporeo? Poniamo che non avessimo bisogno dell'altro che è separato da noi e che non è a nostra disposizione, e che esistessimo come una monade assolutamente chiusa in se stessa, che si estende illimitatamente e senza tempo (come un antico dio, che riempie l'intero cosmo); poniamo che nel nostro esserci non fossimo segnati da questo doppio «non» dello stato di bisogno della nostra corporeità. Gioiremmo ancora davvero del nostro esserci? O questo non significherebbe piuttosto soltanto la sconfinata noia di un continuo «niente di nuovo sotto il sole» e il disgusto di un simile essere, così come è stato tematizzato nella filosofia del Ventesimo secolo, da Sartre e da Camus? La positività della corporeità finita del nostro esserci non consiste in verità nel fatto che incontriamo sempre di nuovo l'altro corporeo che non ci è contemporaneo e non è a nostra disposizione in un accadimento  inanticipabile? E che questo ci viene donato sempre di nuovo? Non è racchiusa proprio in questo la gioia per il nostro esserci, il piacere di vivere? Il fenomeno del godimento, L'accadimento corporeo di ciò che Agostino ha portato al linguaggio con il verbo fruì, il godimento del cibo, delle bevande, degli elementi della natura in cui siamo immersi, ma anche dell'abbraccio tra amanti, non ci sarebbe affatto se non fossimo esserci in un corpo finito e bisognoso. Non stiamo parlando della perversione idolatrica del godimento, che è sempre possibile per gli uomini, se dimenticano che proprio nel godimento restano bisognosi dell'altro. Stiamo parlando del fatto che fondamentalmente il godimento è possibile soltanto perché ci siamo nel nostro corpo, che ha bisogno dell'altro da se stesso e che esiste soltanto nell'intervallo del tempo che accade.Il godimento, in quanto accadimento umano primordiale, significa che io gioisco dell'altro che mi si dona. E in verità mi si può donare solo ciò che io non posso darmi da me stesso. Qui non si può parlare affatto di un disprezzo del corpo: anzi la nostra corporeità viene qui presa sul serio. Di questo gioire dell'altro corporeo parlano anche le lodi del Cantico di frate sole di Francesco d'Assisi, che non soltanto osa magnificare il nostro incontro con il sole, la luna e le stelle, con il vento e la sorgente, e con la madre terra con i fiori e l'erba nulla di tutto questo potremmo darcelo da soli -, ma alla fine osa persino esaltare il nostro incontro con «sora nostra morte corporale»; l'incontro, che non è assolutamente a nostra disposizione, con il «non» del nostro stato di bisogno mediante il quale soltanto esistiamo in quanto coloro che ci sono in modo corporeo.Ci si può chiedere perché gli uomini in realtà cerchino sempre di nuovo il confronto con l'altro indisponibile della, natura, l'altezza delle montagne, l'ampiezza dei deserti, l'imprevedibilità degli animali e delle piante nei luoghi selvaggi. Proprio perché l'avventura di questo incontro con l'indisponibilità dell'altro fa esperire loro in modo intensificato il loro esserci corporeo, nell'esperienza appagante dell'avere la possibilità di essere (Seinsdurfen). De facto anche le nostre piccole e grandi esperienze del tutto quotidiane possono mostrarsi come esperienze di questo tipo. In esse, in quanto incontri con ciò che è altro rispetto a noi, possiamo esperire ogni volta di nuovo e in modo nuovo il fatto che in quanto esserci abbiamo la possibilità di essere nel corpo. In questo modo ciò che in prima battuta poteva apparire nel nostro «io sono corpo» come puro limite, l'indisponibile, può rivelarsi proprio come il luogo in cui ci viene donata la nostra vita vera in quanto corporea e finita; in quanto vita che ha un senso incondizionato, il quale, poiché è incondizionato, non si lascia produrre da noi, ma ci si invia in dono proprio in quanto siamo corpo. E nell'esperienza del fatto che siamo donati a noi stessi nel nostro corpo non vi è già un senso religioso? Ci riceviamo nel nostro corpo nell'incontro con l'altro e per questo siamo grati a un indicibile. Un simile atto fondamentale di culto non lo si può ritrovare in molte figure storiche della religione, anche al di fuori della tradizione biblica? E qual è il senso ultimo di questo «io sono tutto corpo»? Poniamoci ancora una volta questa domanda nella più piena situazione del nostro essere uomini. Voglio dire che in questa situazione piena della coumanità viene alla luce nel modo più chiaro il significato pieno delle due componenti costitutive della nostra corporeità, anche nella loro sensatezza ultima: il bisogno dell'altro e il nostro dipendere dall'accadimento mortale del nostro tempo in quanto tempo, che abbiamo in quanto noi stessi, dell'uno-con-1'altro..............(Traduzione di Stefano Bancalarì)


Sempre di Casper riportiamo stralci di un'interessante intervista , che raccomandiamo di leggere  sul sito :
http://www.filosofilungologlio.it/index.php/interviste/93-il-dialogo-come-antidoto-allidolatria-intervista-a-bernhard-casper.html

........................Lei ha dedicato una vita intera allo studio e all’interpretazione del pensiero dialogico, di cui è considerato il più autorevole esperto, ma anche il più raffinato prosecutore cogliendo nel binomio linguaggio/ tempo le condizioni stesse dell’accadere di quell’evento universalmente comprensivo che mi trascina verso qualcosa che è estraneo e altro, ovvero l’Altro. Che cos’è dunque il dialogo? Che cosa si deve intendere per pensiero dialogico?
«Inizierei col precisare – risponde lo studioso – che una buona teologia ha sempre bisogno di due occhi: l’u conno sistematico, l’altro storico e che la fede cristiana necessita sempre di una esplicazione ragionevole. La filosofia classica e l’elaborazione del pensiero dei padri medievali si sono, da subito, poste il grande interrogativo: che cosa è l’essere assoluto? Si sono quindi collocate in quell’orizzonte dell’essere che, come coglieva Agostino, primum cadet in intellectum. Questa metafisica è divenuta, pertanto, il mezzo per esplicare l’atto della fede nella grande epoca che da Aristotele e Platone giunge a Hegel. Poi con l’empirismo e con la teorizzazione di una scienza che rende, per dirla con Cartesio, l’uomo signore e padrone della natura si è cominciato a pensare la realtà more geometrico, con conseguenze tuttora ben visibili poiché se non si può negare che il progresso scientifico abbia certamente condotto a risultati importanti. Essi, proprio perché esposti nella forma di evidenze atemporalmente valide del tipo: “se, allora”, non dicono cosa si debba realmente fare, ponendo il soggetto nella difficoltà di scegliere tra possibilità meramente formali. Per uscire da una tale aporia, che determina l’attuale dis-orientamento dell’uomo, occorre ricorrere a quella fenomenologia del linguaggio che ebbe la sua svolta decisiva già nell’800 e arrivare con Humboldt alla constatazione che per parlare si ha bisogno di due persone. Già Aristotele nella Retorica lo aveva intuito: “qualcuno parla a qualcuno su qualcosa” restringendone, tuttavia, l’intendimento all’ambito scientifico. Ma se si vuole, davvero, capire il linguaggio lo si deve intendere nel suo realissimo essere parlato. Condizione che implica l’incontro con l’Altro, che come me è mortale e finito. Questo coincide con l’intuizione di Kant, che conferisce nell’economia della razionalità umana, il primato alla pura ragione pratica. Nella II formulazione dell’imperativo categorico v’è il fondamento dell’umanità. E il linguaggio stesso si mostra come umanità, a condizione che non degeneri, appunto, nella strumentalizzazione dell’altro o in un tentativo di limitarsi a parlare soltanto con sé, cadendo preda di un’autoreferenzialità autistica e patologica. Perché parliamo? In ultima analisi per promuovere l’essere insieme degli uomini. Nel suo temporalizzarsi, l’uomo coglie nell’evento che si fa dialogo e preghiera la possibilità stessa di dire sì ad un accadimento della storia»..........
............. Professore, il nostro tempo sembra essere attraversato da un duplice fenomeno: da un lato si assiste ad una crescente secolarizzazione – quasi fosse un deserto che s’accresce di nietzschiana memoria – dall’altro, si registra quello che Lei, poco fa, ha definito un progressivo decadimento del religioso. A partire dalle stimolanti pagine del suo Evento e preghiera (Cedam, Padova 003) potrebbe spiegarci in che cosa consiste il rischio cui può condurre l’adorazione del sacro fascinosum e tremendum di cui parlava Rudolph Otto e in quale tipo di errore cade l’uomo che si lascia irretire in ciò che Lei chiama «un’infinizione senza infinito»?
«Per intendere il decadimento del religioso occorre, innanzi tutto, precisare come sia necessaria una criteriologia capace di aiutarci a distinguere la vera relazione religiosa – che è sempre una sofferenza liturgica ossia un darsi in consegna all’Altro fino a farsi suo ostaggio in una gratuità che non richiede nulla in cambio – dalla sua degenerazione in forme idolatriche. Si danno, pertanto, due gesti: quello del possedere tutto, proprio di colui che trasforma il finito in infinito e l’intenzionalità autentica, che connota chi riceve ringraziando. Chi ci afferra è sempre e soltanto Dio. In proposito Meister Eckhart ha parlato di una gratitudine (Dankbarkeit) “ripartoriente”: nel farmi ostaggio dell’Altro io riconosco la gratitudine come un dono che mi viene da Dio. Heidegger ha mostrato – argomenta il pensatore – come la filosofia e il pensiero fenomenologico debbano “co-dirigere” l’intendimento del religioso. Se lei immagina due persone in dialogo sulla loro rispettiva appartenenza religiosa, potrebbe pervenire alla conclusione che questo dialogo non consista in altro che in un mero scambio di reciproca autoaffermaziotrario ne. In questo caso, non si dà futuro ed è proprio a partire dalla constatazione di questa “paralisi dialogica” che io posso esplicare all’Altro il mio rapporto con l’Assoluto e sono in grado di farlo – questo è un elemento imprescindibile – soltanto se sono autocritico, ovvero se possiedo una ragione critica che mi fa rilevare come il fenomeno religioso possa essere vero o falso. L’aspetto interessante da mettere in evidenza – continua il noto studioso – consiste nel fatto che il pericolo del rapporto religioso, che si schiude nella preghiera, deriva dalla sua stessa essenza. La preghiera appartiene costitutivamente all’esserci umano, nella misura in cui questo è assegnato a se stesso, ossia tentato. Se non fossimo assegnati a noi stessi, non potremmo pervenire a questo andare– oltre–noi che nel pregare accade liberamente. Trovandomi chiamato dall’Altro nella mia libertà, mi apro alla “Gloria dell’Infinito”. Ma, spesso, accade che venga meno la fiducia che mi fonda nel mio pregare: non accetto di reggere il fardello della mia condicio humana, sul quale, per altro, si fonda la mia dignità. Di qui il decadimento dell’evento responsoriale che ci fa comprendere come fosse fondata la constatazione di Feuerbach, che non esitò ad affermare come le religioni possano trasformarsi in fenomeni che sono espressione dell’egoismo di un gruppo o come sia da prendere realmente sul serio il sospetto freudiano secondo cui le religioni non sarebbero altro che nevrosi coerciti ve. Siamo dinnanzi a una perversione del rapporto religioso, dal quale si schiudono due figure: quella del “tiranno del Regno dei Cieli”, che è tentato di anticipare ciò che può darsi solo come cosa ultima e quella del pusillanime che non fede. L’uno punta troppo in alto, l’altro si accontenta di troppo poco: in entrambi i casi si assiste ad uno sbrigativo sottrarsi alla serietà della realtà intera della storia che ci chiama in causa in quanto libertà storicamente connotate. Semplicemente ci si accontenta di una “quasi infinità”, che è posta soltanto dagli uomini e che si fonda su una falsità che può essere tenuta in vita solo con la violenza. Ben si comprende, dunque, come il decadimento del religioso comporti il crollo dei modi fondamentali del mio temporalizzarmi: l’attesa, l’attenzione, la pazienza. Sottrarsi alla chiamata della trascendenza significa fondarsi su un’autoassicurazione, che è poi un’affermazione di possesso, un puro rendere sé e gli altri “oggetto di un oggetto”, “un recitare meccanicamente”, dimentico del fatto che, come ricordava Rosenzweig, nel pregare ne va di me»..............
orso castano : gli ampi starlci di questo intervento di un esperto di teologia (davvero  meriterebbe di essere letto per intero) pone questioni cruciali, fissa paletti, delimita confini difficilmente travalicabili. La pratica del dialogo' e' indispensabile. Essere solo per se stessi priva di sensio il percorso dell'esistenza. Siamo condannati al con-esserci, al dialogo continuo per dare un senso alla nostra vita. Questo sia che lo si voglia leggere sotto l'angolatura laica che sotto quella   religiosa. E questo e' particolarmente vero nel campo della relazione d'aiuto psicologica, dove e' assolutamente indispensabile , pur applicandoli per quello che hanno di utilita', i tecnicismi, per privilegiare l'empatia, l'ìincontro sul piano umano, per illuminare insieme  le zone d'ombra , per cercare attraverso la dialettica quel filo di Arianna che puo' condurre fuori dal labirinto nel quale, chi ci sta di fronte, si e' venuto, per le vicende della vita, a trovare

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