domenica 29 giugno 2014

r.k.: medic. complem. e cancro : pricipi attivi dalle med. complem. x il cancro

orso castano: il metodo, le regole sono sempre le stesse: la falsificabilita' dell'ipotesi, la ripetitivita' della stessa, la "evidence based" della stessa. Solo cosi' e'possibile  accettare  qualsiasi ipotesi coerente praticabile , formulata secondo criteri  statistici condivisi. 

 Una speranza contro il cancro
................Per la sua ricerca, Pier Mario Biava si è avvalso del Guna Rerio, un medicinale omeopatico a base di fattori di differenziazione cellulare, ottenuti da embrioni di danio rerio (meglio conosciuto come pesce zebra). La scelta è ricaduta su questi embrioni in quanto si sono dimostrati attivi nella riprogrammazione di alcuni tipi di cellule tumorali. L’ipotesi sulla quale ha lavorato il ricercatore italiano prevede il considerare le cellule tumorali, come cellule staminali mutate, bloccate in una fase di moltiplicazione compresa fra due diversi stadi di differenziazione cellulare. “Alle cellule tumorali viene a mancare l’informazione per procedere nel loro normale sviluppo differenziativo – ha spiegato il dott. Pier Mario Biava il quale si è occupato dell’importante ricerca – Se forniamo a queste cellule tumorali le giuste informazioni per ritornare a procedere nel loro regolare sviluppo, vengono risolte le mutazioni che sono all’origine della malignità, le cellule tornano a differenziarsi correttamente e di fatto si normalizzano”. Il ricercatoreha notato come la correzione dell’espressione genica delle cellule con i fattori di differenziazione cellulare abbia fatto rientrare le cellule del cancro nell’ambito della normalità fisiologica. Una nuova tecnica di lotta.......

sabato 28 giugno 2014

orso castano: molti sono preoccupati  ma il governo non pone il problema . La poverta' tra gli anziani aumenta il rischio di malattie, Occorre un welfare che sappia prevenire questa caduta , anzi questi drammi. Occorre mobilitarsi , Portare con tutti i mezzi e con forza questo problema drammatico. Il salario minimo garantito e' solo una delle risposte , ne occorrono altre complementari , bisogna mobilitarsi, nessuno regalera' nulla !!

L’Ocse lancia l’allarme: i precari di oggi 

rischiano la povertà da anziani

Il rapporto redatto dall’organizzazione di Parigi
Salari italiani sotto la media Ocse

In Italia, «l’adeguatezza dei redditi pensionistici potrà essere un problema» per le generazioni future, e «i lavoratori con carriere intermittenti, lavori precari e mal retribuiti sono più vulnerabili al rischio di povertà» durante la vecchiaia.

IL RAPPORTO - È l’Ocse , l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che dipinge l’Italia in questo modo. Un paese in cui i salari sono inferiori alla media, e in cui, nonostante le riforme, resta relativamente bassa l’età effettiva nella quale uomini e donne lasciano il mercato del lavoro. Ma sono i giovani di oggi quelli a rischiare di più. Chi entra oggi nel mercato del lavoro, avverte l’Ocse, dovrà aspettarsi una pensione più bassa rispetto agli standard attuali, con un autentico rischio povertà per i precari. È la conseguenza delle riforme delle pensioni approvate negli ultimi vent’anni in buona parte dei paesi Ocse, secondo quanto emerge dal rapporto «Pensions at a Glance», redatto dall’organizzazione di Parigi. «Lavorare più a lungo potrebbe aiutare a compensare parte delle riduzioni», si legge nel rapporto, «ma, in generale, ogni anno di contributi produce benefici inferiori rispetto al periodo precedente tali riforme», sebbene «la maggior parte dei paesi abbia protetto dai tagli i redditi più bassi».
I SALARI - In media in Italia nel 2012 un lavoratore ha percepito un reddito di 28.900 euro, pari a 38.100 dollari, al di sotto dei 42.700 dollari medi dell’Ocse, sui quali pesano i 94.900 dollari degli svizzeri, i 91 mila dollari dei norvegesi, i 76.400 dollari degli australiani, i 59 mila dollari dei tedeschi e i 58.300 dollari degli inglesi, superiore ai 47.600 dollari degli statunitensi. Ai livelli più bassi i messicani con 7.300 dollari e i 12.500 dollari degli ungheresi.
I CONTRIBUTI - Restano al top dell’area Ocse i contributi previdenziali italiani. Nel 2012 sono infatti stati pari al 33% del totale lordo della retribuzione, pari al 9% del Pil e al 21,1% del totale delle tasse. La media Ocse è del 19,6% (il 5,2% del Pil e il 15,8% del totale delle tasse). Nonostante ciò, chi entra oggi nel mercato del lavoro dovrà aspettarsi una pensione più bassa rispetto agli standard attuali. «Lavorare più a lungo potrebbe aiutare a compensare parte delle riduzioni», si legge nel rapporto secondo cui presto in Italia l’«età pensionabile aumenterà gradualmente sia per gli uomini che per le donne». Per le donne la riforma ha stabilito che l’età pensionabile sarà come quella degli uomini di 66 anni entro il 2018. Dal 2018 al 2021 passerà a 67 anni. La riforma del 2011 ha anche stabilito una finestra flessibile dell’età pensionabile tra i 62 e i 70 anni, che di fatto estende in futuro l’età pensionabile oltre 67 anni. La pensione di anzianità si otterrà con un minimo di 20 anni di contributi e se l’ammontare complessivo della pensione non è inferiore di 1,5 volte l’assistenza sociale.

Mujca , Uruguay, un grande Presidente, un leader socialista che parla diretto al cuore (forse solo un po "pauperista", ma non guasta affatto)



tre modelli di psicoterapia , tutti afermano di seguire l'evidence based, e' possibile?? sarebbe interessante un dibattito, Riporto anche un articolo del dr Siegel , noto psicologo , ideatore , insieme ad un suo collega ,Pennebaker, di una tecnica basata sulla memoria di un evento significativo :" ricordo e narrazione come relazione tra il se' e l'altro, in cui vengono spegati alcuni punti di questa nuovo approccio psicologico

State of Mind intervista Paolo Moderato, Professore Ordinario di Psicologia Generale, IULM Milano. Past President EABCT (European Association for Behavioural and Cognitive Therapies) Past President AIAMC (Associazione Italiana di Analisi e Modificazione del Comportamento) Direttore della Scuola di specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale HUMANITAS. Fondatore e Presidente di IESCUM (Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano).Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.










Assolutamente d'accordo con Moderato sulla necessità che vengano conosciuti e insegnati i principi teorici delle procedure psicoterapiche. Dirò di più: se conosci i principi allora sai anche inventare nuove tecniche. Tuttavia, anche i principi teorici - a mio avviso - devono avere un fondamento empirico e non filosofico: nella scienza i concetti usati (p. es. "fusione" o "defusione", apprendimento, memoria, etc.) devono rimandare a specifiche operazioni (replicabili) per mettere in evidenza i fenomeni indicati, altrimenti rimane sciamanesimo. I principi delle social learning theories, ad esempio, hanno base empirica, ma quelli della teoria dei contesti relazionali?


State of Mind (http://www.stateofmind.it/ ) intervista Vittorio Lingiardi, Psichiatra e Psicoterapeuta. Professore Ordinario di Psicologia Dinamica presso la Facoltà di Medicina e Psicologia, Università La Sapienza Roma.


State of Mind intervista Valeria Ugazio, Psicologa e Psicoterapeuta. Professoressa ordinaria di Psicologia Clinica presso l'Università di Bergamo, direttrice e fondatrice della scuola di specializzazione EIST.l

http://books.google.it/books?id=PfMGAQAAQBAJ&pg=PA60&lpg=PA60&dq=Pennebaker+e+Siegel,&source=bl&ots=h78bN7v4BJ&sig=x8yjnga3PeCsLLdnDv6QteCzw8o&hl=it&sa=X&ei=J-CuU4mrKoSQ7Aba44GoBA&ved=0CCIQ6AEwAA#v=onepage&q=Pennebaker%20e%20Siegel%2C&f=false

da vedere  su ou tube anche i filmati su 

The Work Foundation: Psychological well-being of the UK workforce

sempre visti secindo questa tecnica di rievocazione del ricordo

lunedì 23 giugno 2014

orso castano : la ricerca di nuove terapie antitumorali fa notevoli investimenti sulle capacita' del sistema immunitario di aggredire il tumore. Ma sembra che la strada sia  (ovviamente) complessa e non breve. Pure offre speranze.

Immunoconiugati

La notevole capacità antitumorale di certe citochine è spesso associata ad un elevato grado di tossicità. Un modo per ottimizzare il loro potere terapeutico consiste nell'unire tali citochine ad anticorpi monoclonali, come L19, capaci di localizzarle selettivamente il tumore. Queste proteine di fusione conservano sia la capacità anticorpale che la funzione di citochina e mostrano una attività anticancro superiore a quella corrispondente ad una quantità equivalente di citochine sole. A tale scopo sono state costruite le seguenti proteine di fusione:
L19 con IL-12;
L19 con IL-2;
L19 con TNF alpha;


L'interleuchina-12 (IL-12) è una citochina codificata da due distinti geni e prodotta dai macrofagi a dai linfociti B. E' un etero-dimero con svariate funzioni: per es. stimola la produzione di interferone gamma da parte dei linfociti T e NK (natural killer). La proteina di fusione IL-12-L19 ha dimostrato un potere terapeutico superiore a quello dell'IL-12 nei tumori murini. Tuttavia solo occasionalmente si osserva una regressione tumorale e nel caso di una regressione completa è stato osservato il ristabilirsi del tumore, indicando l'assenza di un duraturo effetto di protezione.
L'interleuchina-2 (IL-2) svolge un ruolo essenziale nelle fasi di attivazione sia della risposta immunitaria specifica che naturale. Tuttavia IL-2 non ha un diretto effetto citotossico contro le cellule tumorali, ma induce la regressione tumorale attraverso la sua capacità di stimolare una potente risposta cellulo-mediata in vivo. Un suo utilizzo a scopo terapeutico è limitato dal fatto che ad alte dosi è soggetta ad una clearance rapida e dimostra elevata tossicità a carico della parete vascolare.

Il fattore di necrosi tumorale (TNF alpha) è una citochina rilasciata dai macrofagi attivati. Stimola le cellule T e induce la proliferazione sia delle cellule T che B; richiama macrofagi e granulociti, contribuendo così ad accumulare altre cellule immunitarie in grado di rilasciare sostanze capaci di generare un processo infiammatorio. La somministrazione in modelli murini di L19-TNF alpha genera una sostanziale inibizione della crescita tumorale, tuttavia anche in questo caso complete remissioni sono state osservate solo raramente.


IL12-L19-TNFalpha
La combinazione di immunoterapie basate su citochine ha mostrato effetti antitumorali sinergici.
E’ stato dimostrato che combinando le proteine di fusione L19-TNF alpha e di L19-IL-12 si ha un notevole aumento dell’attività tumorale in confronto al trattamento basato su dosi equivalenti delle singole proteine di fusione. Questa contemporanea somministrazione porta a un più spiccato assorbimento di L-12, dovuto almeno in parte alle proprietà vasoattive di TNF alpha. Inoltre questo aumento dell’attività antitumorale osservato per tale combinazione avviene a spese di un modesto aumento della tossicità. Alla luce di questi risultati è stata provata la combinazione di L19, IL-12 e TNF alpha in una unica proteina di fusione, codificata in una singola catena polipeptidica. Ne è derivata una proteina omotrimerica che ha mostrato piena attività in vitro. Tuttavia per le notevoli dimensioni del complesso tale proteina di fusione non è stata in grado di localizzare il tumore in esperimenti di biodistribuzione.



sabato 21 giugno 2014

l'Intervento del Segretario Nazionale ANAAO , il piu' esteso e consistente sindacato nazionale dei medici. Andrebbe letto per intero.Meglio di mille slide e di mille dati numerici, con grande concretezza e semplicita' offre una foto del disastrato Servizio Sanitario Nazionale. Siamo ormai al fondo del barile. Ma sembra che della Salute non importi a questo governo che annovera ministri provenienti spesso da classi sociali ricche e con potere , che non potranno mai capire le esigenze dei piu' poveri , governo che tutti i giorni va "tirato per la giaccetta perche' ricordi che il PD non e' la nuova DC e che una volta c'era Berlinguer.










orso castano : ecco dove ci ha portato e dove ci portera' il governo del rottamatore" Renzi: alla rottamazione dello Stato Sociale e dellle liberta' democratiche! Speriamo che all'orizzonte compaiano le elezioni unico sistema perche gli italiani s riapproprino della democrazia e caccino un governo che sta solo facendo disastri in nome di un inesistente efficientismo da strapazzo!!
Care colleghe e cari colleghi, gentili ospiti,



una strana congiuntura accompagna i nostri congressi. Il Congresso di Silvi Marina, nel giugno 2010, si svolse a ridosso dell’approvazione del DL 78, che poi diventerà la famigerata L.122/2010, che inaugurò la stagione dei blocchi, di contratti, nazionali ed aziendali, e del turnover e dei tagli, ai fondi contrattuali ed al finanziamento della sanità pubblica. E si chiuse con la nostra protesta che culminò nello Sciopero Nazionale di 24 ore del 19 luglio.

Sono passati 4 anni, e 3 Ministri della Salute si sono avvicendati, ma nessuno dei problemi aperti da quella logica emergenziale si è risolto. Anzi. Sono stati ulteriormente prorogati i blocchi contrattuali al 2014, e poi a tempo indeterminato, continua l’abuso incontrollato di contratti atipici per i quali un decreto propagandato come risolutivo si è rivelato un flop, la crisi della formazione medica è assurta a vera emergenza nazionale, avanzano, sotto la spinta di Governo e Regioni, nuove professioni sanitarie all’insegna di mirabolanti risparmi, e più certi ritorni elettorali, si susseguono allarmanti avvisaglie di una strategia complessiva di ridimensionamento dell’intervento pubblico. E siamo alle prese con una riforma della pubblica amministrazione che ci porta il taglio lineare della agibilità sindacale, la mobilità coatta, a guisa di pacchi postali pronti alla partenza, la rottamazione generalizzata, a prescindere dalla età anagrafica, vale a dire incarichi e carriere a disposizione della politica. Ed anche questa estate si preannuncia calda. Tra i due Congressi abbiamo avuto altri due giorni di sciopero nazionale, una marea di comunicati e documenti, convegni, assemblee, dentro e fuori gli ospedali fino alla grande manifestazione del 27 ottobre 2012, per la quale non finirò mai di ringraziare tutte le OOSS, ed in particolare l’Anaao, per una partecipazione straordinaria, che ha messo in piazza il disagio di una professione e lanciato, inascoltata, l’allarme sul tracollo del sistema di welfare. 4 anni intensi, ricchi di fatti e di parole, in cui non siamo stati immobili, afasici o rassegnati, ma in prima linea, impegnati ad arginare attacchi incessanti per evitare il peggio. Il tentativo di rendere mute le nostre voci è fallito. Almeno quello.Non ho bisogno di slides per illustrare a voi i determinanti della tempesta perfetta che ha colpito duramente la tenuta del Servizio sanitario Nazionale, sottoponendolo ad erosioni strutturali, premesse per un suo sfaldamento, ed ipotecando anche pezzi importanti della nostra vita professionale:

-la crisi economica, che ha fatto irrompere prepotentemente sulla scena il tema della sostenibilità, ancorchè spesso usata come alibi per operazioni politiche, malamente travestite da opzioni tecniche, di apertura alla intermediazione finanziaria ed assicurativa;
- lo spostamento dell’asse della politica sanitaria verso le Regioni, con il corteo di conflitti istituzionali, piani di rientro e commissariamenti, che ormai interessano quasi la metà della popolazione, LEA non garantiti ma eventuali in molte aree, diseguaglianze nella esigibilità del diritto alla salute, migrazione sanitaria;
-il dissolversi dei partiti tradizionali, in preda ad una colossale crisi di fiducia e consenso, che hanno cancellato la sanità dalla loro agenda ed abdicato al ruolo di paladini del SSN, anche se la Commissione Affari sociali della Camera ha di recente riconosciuto che “il SSN è un valore insostituibile”;

- la confusione conflittuale di identità professionali, vecchie e nuove;

- la perdita di valore del lavoro nel sistema sanitario, con CCNL mutilati e bloccati sine die per via legislativa, e del lavoro pubblico in genere, assimilato tout court a spesa improduttiva e parassitaria;

- il collasso del sistema della formazione medica chiuso in un cul de sac che lo trasforma in una fabbrica di disoccupati e priva la sanità del necessario turnover e della possibilità di trasmettere competenze professionali essenziali;

- la crescita del contenzioso legale che toglie serenità al sistema della cure;

Il nostro sistema sanitario sta perdendo pezzi di accessibilità, equità e qualità, e quindi di consenso tra i cittadini, come dimostrano i rapporti annuali che puntualmente segnalano anche la crescita numerica delle fasce di popolazione a rischio povertà per impreviste spese sanitarie e di quelle che non accedono alle cure per difficoltà economiche (11 milioni di cittadini). Il come ed il perché è riassumibile in tre parole: definanziamento, decentramento e decapitalizzazione.

1) Il de finanziamento della sanità pubblica, che la Corte dei Conti quantifica in 31 miliardi dal 2010 al 2014, complessivamente più della Grecia, della Spagna, dell’Irlanda, nonostante il nostro quadro macroeconomico decisamente migliore produce un progressivo processo di asfissia che sfibra il sistema, riduce i servizi ai cittadini e porta al taglio di tutto quello che costa, compresi i diritti, anzi proprio a partire dai diritti, dei cittadini e del lavoro. Il servizio sanitario cambia volto e pelle avviandosi a diventare un sistema povero per i poveri, il più grande ammortizzatore sociale esistente. Non vogliono perdere una buona occasione quelli che si oppongono allo stato sociale. Si taglia dove è più facile, non riuscendo a farlo dove è più utile. ”Contenendo la spesa per ogni singolo fattore produttivo e contraendo gli investimenti in tecnologie e rinnovo delle infrastrutture, la sanità pubblica migliora i conti nel breve periodo ma a discapito della performance presente e futura tanto che in alcune regioni si fa concreto il rischio dell’undertreatment” (OASI,2013).
Oggi solo 10 Regioni garantiscono i LEA, la forma normativa della garanzia della eguaglianza del cittadino di fronte al diritto alla salute che è diritto della persona, altre sono in difficoltà, da cui tentano di uscire con la solita formula delle 3T, più tasse, più ticket, più tagli. Essere curati secondo i bisogni costituisce un limite etico, civile e sociale oggi fortemente minacciato e, da qualche parte, già travalicato.

Continua a prevalere una visione della sanità come pura voce di costo nei bilanci pubblici, malgrado una spesa per cittadino inferiore del 40% a quella dei nostri vicini europei, bersaglio preferito di tutte le manovre economiche, vero bancomat della stato, facile da usare come una volta la benzina, cui attingere prioritariamente nelle crisi della finanza pubblica, a dispetto della sua capacità di garantire equità e coesione sociale, soprattutto nei periodi di crisi economica.
Si dimentica troppo spesso che welfarevuol dire scuola pubblica, sanità pubblica, assistenza, previdenza ed anche sostegno alle imprese e al lavoro nei passaggi più critici dei cicli economici. E che nei paesi nei quali i servizi sanitari e l’istruzione sono privati, il costo per i cittadini è molto più elevato e per molti strati sociali insostenibile. I sacrifici ci hanno evitato un default finanziario, ma i milioni di disoccupati costituiti da giovani alla ricerca di prima occupazione (circa il 46%, con discriminazioni di genere) e da cinquantenni espulsi dal lavoro, lo scivolamento verso le soglie di povertà di oltre 8 milioni di cittadini (dati ISTAT 2012), le fughe all’estero di competenze ed intelligenze, la consunzione di servizi sanitari ed assistenziali, ci dicono che una parte rilevante della nostra società sta ancora vicino al baratro. Questi fenomeni, insieme con la coartazione del perimetro dei diritti in campo sanitario ed il cedimento del sistema di tutele, rappresentano un mix tale da mettere a rischio la coesione sociale e la solidarietà tra ceti e generazioni, rendendo altissima, quasi parossistica, come gli umori variabili del corpo elettorale dimostrano, la sfiducia dei cittadini nella democrazia rappresentativa e nelle istituzioni che la interpretano.
Nella sanità italiana il tema della in-sostenibilità economica è accompagnato da un diffuso convincimento, vicino al calcolo politico, della incontrollabilità della dinamica della spesa e da un malcelato auspicio di una netta apertura ai mercati assicurativi, data la impossibilità di un aggravio della pressione fiscale. Da tempo, segnali premonitori, movimenti carsici e messaggi politici, più o meno espliciti, parlano di costruire, sull’abbandono della solidarietà fiscale, la sanita per i ricchi, prefigurando lo smantellamento del sistema universalistico o, la versione soft, di un universalismo selettivo. La sanità italiana non è, però, il pozzo nero e senza fondo che molti si ostinano a descrivere. Lo dicono innanzitutto i dati. L’Italia è il paese dell’OECD dove la tutela della salute assorbe la minore spesa globale, sia pro capite che in relazione al PIL, associata a risultati di salute non inferiori, ed in diversi aspetti anche migliori, un paradosso di cui dovremmo essere orgogliosi. Questo si chiama fare le nozze con i fichi secchi! Occorre respingere al mittente la falsa alternativa tra aumento di tasse e calo di servizi, il che tra l’altro è esattamente quanto sta oggi accadendo simultaneamente alla sanità pubblica, tra ticket giunti al 3% della spesa totale ed impennate di addizionali IRPEF. Nessun settore pubblico o privato ha costi pari a 7 punti di PIL ed un valore della filiera della salute pari a 12, rappresentando inoltre il più grande insediamento di culture ed innovazioni tecnico-professionali. Non un lusso che non possiamo permetterci, come molti vorrebbero far credere, mentre possiamo spendere miliardi in armi da guerra in assenza di guerra, e ogni anno 7 miliardi in più della Germania per l’esercito e 7 corpi di polizia, ma uno strumento di tutela di un bene fondamentale ed anche un volano per la ripresa economica. Un euro investito in sanità ne attiva 3 nei settori collegati.
La lotta agli sprechi, che certo non mancano ma che se la ridono di tagli lineari, deve servire a garantire i necessari investimenti per mantenere i livelli quali-quantitativi raggiunti e non “entrare in rotta di collisione con le finalità proprie del sistema” (tutela della salute)”, come affermato dalla stessa Corte dei Conti.

Il definanziamento ha colpito pesantemente soprattutto il sistema ospedaliero. Gli ospedali sono diventati delle quinte teatrali per categorie impoverite, anche numericamente, fino a livelli organizzativi che non riescono a fare di un ospedale un ospedale. Restringere la rete concentrando le competenze e le tecnologie in modo da assicurare la migliore risposta in un definito ambito territoriale è una operazione che non basterà se nello stesso tempo non cambia la organizzazione del lavoro dentro e fuori l’ospedale, anche per rispondere alla transizione demografica ed epidemiologica. Occorre delineare chiaramente il percorso politico, organizzativo e culturale capace di individuare il necessario equilibrio ospedale-territorio, attraverso strategie chiare per una efficace messa a sistema di diverse modalità assistenziali. Ripensando il ruolo e la organizzazione delle strutture per acuti in una ottica di sistema, insieme, non prima né dopo, con quella delle cure primarie, in una logica di rete, capace di spostare l’attenzione dalla singola prestazione al percorso di cura e di assicurare la presa in carico del paziente, facilitando la relazione tra le diverse famiglie professionali. “Sincronizzando la riorganizzazione degli ospedali con lo sviluppo di modelli consolidati di cure primarie “ (Cartabellotta), nonché la definizione di regole e contenuti dei rapporti di lavoro.

Gli ospedali hanno perso in 10 anni oltre 70.000 posti letto, con conseguente crollo del rapporto con gli abitanti sotto la media europea, un disastro annunciato per le liste di attesa, per i Pronto Soccorso trasformati in veri reparti di ricovero inappropriati, insicuri e spesso non dignitosi, per i cittadini la cui domanda di salute è destinata a rimanere elusa. La mancanza di un contestuale e coerente investimento in assistenza residenziale o domiciliare e di una riforma organica delle cure primarie, da tutti promessa e da nessuno realizzata, mutila il sistema sanitario di parti essenziali. Ma a determinare le condizioni di sovraffollamento dei PS, la sindrome da forno manzoniano, è la prevalenza di cittadini con età media molto avanzata e polipatologie, insieme con la carenza di posti letto per il ricovero che provocano il fenomeno degli ingorghi di barelle, e non solo, per lo “stazionamento” dei pazienti nelle aeree destinate al trattamento delle urgenze. Per “salvare il PS”, occorre ridefinire i percorsi assistenziali ma anche investire sugli ospedali. La politica di soli tagli, particolarmente grave nelle regioni sottoposte a piani di rientro, ma non estranea alle altre regioni, rappresenta la prima causa delle criticità dei PS, come sottolineato anche dalla Commissione Sanità del Senato. Senza dimenticare il drammatico problema delle carenze di organico, medico ed infermieristico, ed il dilagare del precariato. L’ospedale è diventato un luogo dove è difficile entrare ma ancora più difficile uscire.

La stessa valorizzazione della prevenzione primaria rischia, per parte sua, di ridursi a puro slogan se non si chiarisce quanto lo Stato è disposto a sacrificare per ridurre i comportamenti a rischio nel doppio ruolo di gabelliere e curante.

Impoverire la sanità pubblica, screditarla, svuotarla di competenze professionali ed innovazioni tecnologiche, significa però condannarla a non reggere la onda d’urto della crisi e ad essere spazzata via, a scapito del grado di civiltà dell’ intero paese. Nessuno come noi vede limiti, difetti, inefficienze e anche clientele e malaffare che inquinano il mondo della sanità.” Ma occorre evitare pregiudizi, ideologismi, aneddoti portati a sistema, luoghi comuni strumentalizzati da interessi che vedono la sanità come un mercato, in cui gli utili sono privati, i costi pubblici, i diritti delle persone un optional e il valore del lavoro e della responsabilità una variabile da saldare al massimo ribasso”(Lusenti). La lotta agli sprechi, compresi quelli legati alla corruzione ed alla invadenza pervasiva della politica, su cui i cultori della non sostenibilità semplicemente sorvolano, non può rimanere ai margini di una discussione sulla sanità che, per sua natura, interroga la democrazia.

2) FEDERALISMO – L’attuale contesto del SSN è ancora in fase di trasformazione nel rapporto tra stato e regioni e tra regioni ed autonomie locali, ma sono palesi le ambiguità della legislazione concorrente ed il fallimento di un federalismo imperfetto, spesso di abbandono, che aumenta le diseguaglianze tra cittadini di diverse aree geografiche, certo esistenti anche prima, e declina un diritto uno e indivisibile in 21 modi diversi. Il che, tra l’altro, cambia radicalmente lo spazio e le prospettive dei diritti di cittadinanza, che cessano di essere un bene pubblico nazionale per assumere una valenza locale, trasformando la appartenenza locale nella fonte primaria del diritto sulle risorse.

La presenza di più sistemi sanitari a diversa efficacia e sicurezza comporta una perdita complessiva di coesione sociale, un progressivo smantellamento di garanzie formali e sostanziali, una accentuazione degli squilibri tra Regioni più ricche e più povere, le quali ultime si trovano a scegliere tra sviluppo economico e spesa sanitaria, poste di fronte alla alternativa tra ridurre la assistenza sanitaria o aumentare i tributi propri, in un contesto fortemente sperequato come quello italiano ove il medesimo sforzo fiscale genera un saldo benefici costi assai diverso. Alla soluzione federalista si associa una accentuazione dei meccanismi competitivi di mercato o quasi mercato, considerando l’interesse delle Regioni a politiche tese a reclutare domanda su aree più ampie di quelle normalmente servite, generando chiare forme di migrazione sanitaria, eo a mettere dogane sanitarie per impedire forme di reclutamento dei propri cittadini da parte di regioni meglio dotate. Il fenomeno inarrestabile della mobilità sanitaria contribuisce ad aggravare la situazione economica delle Regioni del Sud, la cui sanità non può essere letta solo come patologia del nord. Anzi, Sud e Nord sono diventati così lontani da far ritenere che non c’è una terapia che possa andare bene per entrambe le realtà.

Nel mondo, i paesi caratterizzati da federalismo politico spendono per la sanità di più rispetto a quelli non federali, al netto del rischio di irresponsabilità della spesa per la vicinanza ai luoghi ove si crea consenso elettorale.

Un prodotto paradossale del federalismo è un neo centralismo regionale, che ha cambiato la geografia istituzionale con la riduzione del numero delle aziende e l’imporsi di un gigantismo istituzionale, che rende sempre più corta, e più stretta, la catena di comando. Complice anche la crisi economica, il federalismo ha favorito l’affermarsi di un modello gerarchico centrato su una diarchia tra Assessore e/ o Presidente e Direttori Generali, che concerta la politica sanitaria, e le carriere, tra pochi soggetti, tagliando fuori le autonomie locali, con la vista corta degli appuntamenti elettorali. Per quanto riguarda la organizzazione del lavoro ha preso quota la attrazione fatale verso modelli di derivazione industriale, privi di evidenza di una maggiore efficacia ed efficienza, propri della azienda manifatturiera e non della azienda di servizi. La Toyota ha in Italia più ammiratori della propria organizzazione che acquirenti delle sue auto.

Difficile, quindi, non concordare sulla necessità di “un nuovo equilibrio” che ridefinisca i confini dei ruoli e degli assetti istituzionali, e le oscillazioni del pendolo, tra stato, regioni, aziende e comuni. Un equilibrio che, però, va trovato anche tra tutti gli attori del sistema, perché il problema è anche “come” i poteri vengono esercitati. Le attuali forme di governo negano ogni genere di partecipazione ed interlocuzione attraverso la esclusione e marginalizzazione delle componenti professionali. Se la complessità del nostro lavoro non tollera unilateralismi decisionali, verticismi, e forme più o meno dissimulate di autoritarismo, la domanda cui rispondere anche con la modifica del titolo V è come si decide e come si governa in sanità. L’ idea di un “governo multilivello” permette di distinguere, anche dentro una logica “federale”, le competenze generali del governo centrale da quelle specifiche e locali del governo regionale, ridefinendo anche il ruolo degli enti intermedi quali i comuni, o, perché no, le nuove città metropolitane, in materia di produzione e tutela della salute. Per dare maggiore protezione alla unitarietà del SSN in un contesto federalista e minimizzare i rischi, occorre certo assicurarne la rispondenza ai principi fondamentali di globalità, universalità, accessibilità, ma anche mantenere verticali, nell’ ambito di una competenza unitaria, alcuni elementi fondamentali. Non solo la definizione dei LEA, ma lo stato giuridico del personale, un meccanismo di perequazione finanziaria gestito dallo Stato, i requisiti di accreditamento di strutture e professionisti, la individuazione di livelli essenziali organizzativi omogenei, le competenze delle professioni, la garanzia degli accordi contrattuali e convenzionali, sviluppando una politica regionale orientata al miglioramento dei servizi e alla composizione non conflittuale tra le diverse componenti del sistema.

Questo significa rivedere il modello aziendale concepito e organizzato a partecipazione professionale e responsabilità sociale assente, per realizzare un management diffuso, aperto alle domande della società. E pensare a luoghi nuovi rispetto allo stesso Consiglio Superiore di Sanità ormai appaltato ad una istituzione terza, in cui il lavoro, le professioni, l’operatività del SSN abbiano voce nei confronti delle scelte di politica sanitaria, sul modello di un “professional board” oppure di un consiglio sanitario nazionale, già previsto dalla L.833. Lo stesso disegno del governo clinico non potrà compiutamente realizzarsi se non si sviluppa un sistema di sistemi che promuove e verifica ex ante una sorta di Livelli Essenziali di Qualità e Sicurezza delle prestazioni sanitarie e sociosanitarie rese ai cittadini, affidato ad una vera e propria cabina di regia nazionale, soggetto terzo, dal punto di vista istituzionale, tra Stato e Regioni.

Attualmente il dibattito sulle implicazioni del federalismo sotto il profilo della equità e della giustizia distributiva ha ancora scarsa rilevanza, e le decisioni emergono da un compromesso in cui il finanziamento è il solo valore in gioco. Ma forti sono i rischi per l’ integrazione sociale e la unità nazionale derivanti da un sistema in cui i cittadini non condividono più gli stessi principi di giustizia sociale in un ambito rilevante come quello della salute.

Le Regioni hanno oggi, e verosimilmente avranno domani, il potere, ma è necessaria una politica per un progetto di servizio sanitario federale ed una idea federale di salute. La questione ancora aperta è chi, come, con che cosa si definisce la identità pubblica di un sistema sanitario regionalizzato, il suo governo e le sue politiche rispetto al diritto alla salute, cui restituire una dimensione nazionale.

3) La decapitalizzazione è l’impoverimento, anche numerico, del capitale umano, del capitale professionale, che nei sistemi complessi è la risorsa più costosa ma anche più preziosa. Tanto che i sistemi economici classici continuano a considerarla il fattore principale di sviluppo e produttività, secondo la ” la teoria del capitale umano” che meritò un premio Nobel ai suoi autori. Continua a prevalere nelle aziende sanitarie una cultura gestionale dell’efficienza che riduce i medici ed i dirigenti sanitari a macchine esperte ma banali ed anonime, ignorando la solitudine e la sofferenza professionale, civile e sociale, cui questi sono costretti nel reggere di fronte ai cittadini la forbice tra crescita della domanda di salute e riduzione delle risorse a disposizione. Il costo del personale dipendente è stato il vero prezzo pagato per l’equilibrio dei conti, tanto che l’analisi della spesa per funzioni dimostra dal 2010 al 2012 un suo calo del 3%, con una ulteriore diminuzione dell’1,1% nel 2013, mentre, nello stesso periodo, la spesa per la medicina generale cresceva di 1,9% e quella della specialistica convenzionata del 4,2%. L’attacco al sindacato è stata un effetto collaterale. Non a caso sono stati presi di mira i due strumenti che regolano il rapporto tra datori di lavoro e lavoratori fin dall’ ‘800, cioè CCNL e sindacati. A nulla vale ricordare che dietro il successo del Modello Chrysler c’è lo Stato e gli accordi con il sindacato.

La involuzione recessiva della sanità pubblica porta tagli anche a chi opera in nome e per conto dello stato, tutti i giorni e tutte le notti, a difesa di un bene tutelato dalla Costituzione. Non è solo il blocco di contratti e convenzioni, che inchioda al 2010 il valore nominale degli stipendi e comporta una perdita di potere di acquisto del 20%, maggiore per i giovani medici – che pagano da medici la colpa di essere giovani-, non è solo la mutilazione continua di contratti in vigore, operata da ogni legge, alla faccia della privatizzazione del rapporto di lavoro. Il peggio è la mortificazione del ruolo professionale e l’imbarbarimento delle condizioni di lavoro, che sono molto peggiorate nell’ultimo decennio. Milioni di ore di lavoro non pagate, ritmi e carichi di lavoro che mettono a rischio la sicurezza delle cure, ignorati da riforme delle pensioni che non considerano la diversa fatica dei differenti lavori, costringendo le donne della sanità, impegnate in turni notturni e festivi, ad andare in quiescenza dopo rispetto a donne impegnate in settori privati con lavori meno stressanti, un abuso di contratti atipici diventati ormai sacche di precariato stabile. Fino al punto di chiederci di lavorare di più senza retribuzione e senza riconoscimento di ruolo. Qui nasce il dilagare della medicina difensiva, la riduzione degli spazi di umanizzazione, la compressione dei tempi di relazione che sono tempi di cura, una caduta dei livelli di sicurezza delle cure per operatori e cittadini. La austerity del blocco retributivo è peggio anche dei tagli lineari perché, comunicando che le possibilità di crescita economica sono solo al di fuori del sistema pubblico, produce disincentivi che lo impoveriscono. Il blocco del turnover, assoluto e lineare, non solo chiude le porte ad una intera generazione di giovani, respinta o precarizzata dopo 11-12 anni di formazione, lasciando al palo le loro speranze per una occupazione consona al lungo periodo formativo, ma impedisce, in molte parti del Paese, di garantire i LEA. L’invecchiamento delle categorie professionali non è ininfluente sulla efficacia e sulla efficienza. Non è possibile mantenere un sistema di tutela della salute equo, solidale ed universalistico, se le professioni del Servizio Sanitario vengono sconfitte nei loro valori etici e deontologici, marginalizzate a macchina banale nelle organizzazioni sanitarie. Il disagio crescente dei professionisti e la crisi di fiducia dei cittadini nella affidabilità del sistema sanitario rappresentano minacce in grado di erodere uno straordinario patrimonio civile e tecnico professionale del nostro paese. La sostenibilità del servizio sanitario passa anche per la valorizzazione e la responsabilità dei suoi professionisti.

PATTO DELLA SALUTE

Il patto della salute in corso di firma rischia di rappresentare, in tale contesto, una occasione perduta. Se Stato e Regioni non aprono linee di confronto e di credito con i professionisti, i risultati saranno prevedibilmente limitati ad un progetto contabile e rivendicativo di quanto le manovre hanno ingiustamente sottratto al sistema sanitario, chiuso in una visione fideistica dell’attuale modello di governance, magari con il risanamento dei debiti delle aziende a carico delle tasche dei cittadini. Una politica “per” la salute in grado di reggere di fronte alla ambizione dichiarata di costruire la sanità del prossimo decennio, dovrà, prima o poi, affrontare il passaggio per la cruna dell’ago del rapporto con i professionisti. E parlare di livelli essenziali organizzativi delle strutture insieme con la definizione di livelli essenziali di assistenza, essendo ormai evidente la asimmetria tra ciò che si deve fare e ciò che si può fare. La medicina ospedaliera aspetta dai tempi di Mariotti e Donat Cattin parametri organizzativi capaci di garantire efficacia e sicurezza delle cure in coerenza con le risorse economiche, tecnologiche ed umane disponibili. In una ottica di sistema che sia capace di guardare insieme e raccordare quello che accade prima, durante e dopo l’ospedale.

Né l’agenda del Patto può affrontare le problematiche del personale, che del SSN rappresenta la principale, e più costosa risorsa, nel vuoto di uno spazio contrattuale che sia strumento di cambiamento e di riconciliazione della dimensione organizzativa con quella del lavoro. I medici italiani stanno pagando un contributo economico non indifferente alla crisi economico-finanziaria del Paese, con retribuzioni e sviluppi di carriere bloccate, riduzioni massicce del turn over e conseguente aumento dei carichi di lavoro, ed alla stessa sostenibilità del Servizio Sanitario pubblico in questi tempi aridi. Basti pensare alla difficoltà di reggere riorganizzazioni a getto continuo, che spesso inseguono il risparmio contingente richiesto dalla manovra di turno senza configurare assetti affidabili per un arco ragionevole di tempo, ed al rischio civile, penale e patrimoniale insito in un esercizio professionale colpevolmente privo di una idonea definizione di colpa medica e sanitaria, e che opera in organizzazioni che sempre meno si permettono interventi per garantire al meglio la sicurezza delle strutture, dei processi clinico assistenziali e degli operatori stessi.

Senza un nuovo compromesso sociale tra Stato e Medici la sanità pubblica continuerà a rincorrere di manovra in manovra, di patto in patto, le ragioni della propria sopravvivenza acuendo il disagio dei cittadini.

FORMAZIONE MEDICA

La formazione medica è diventata una vera emergenza nazionale che non si può affrontare senza mettere in discussione il monopolio della Università. Che, in tutte le Regioni – vero filo unificante del Paese -, di qualunque colore politico, si comporta, ed è autorizzata a comportarsi, come variabile indipendente, sostanzialmente al riparo da tagli ed estranea ad ogni progetto di riorganizzazione, priva di limiti e di obblighi sociali, subordinando le necessità assistenziali a quelle didattiche, vere o presunte, fermi restando per il SSN tutti gli obblighi connessi al finanziamento. Alla fine i ruoli istituzionali appaiono confusi e sovrapposti, sotto le pressioni di un mondo che si assegna una alterità assoluta, nella quale intravede il solo modo di sopravvivere, che si ritiene e vuole essere “a parte”, sciolto da ogni legge, ordine, regole, confidando sul pensiero debole della politica. Il sistema formativo pre-laurea, nonostante sforzi apprezzabili, sconta ritardi di competenze professionali agibili in un sistema sanitario ed in una società in continua evoluzione, e quello post- laurea va sempre più strutturandosi come un collo di bottiglia nel quale restano prigionieri migliaia di neolaureati in medicina e chirurgia che non avranno accesso alla formazione specialistica e a quella di medicina generale, requisiti legislativi per operare in conto e per conto del SSN: confinati quindi ai margini della quasi totalità del mercato del lavoro. In una sorta di riserva indiana a bassa qualificazione professionale nella quale pescheranno soggetti interessati a sviluppare attività sanitarie concorrenziali con il pubblico a costi più bassi, anche dilatando le offerte della cosiddetta medicina dei desideri. La previsione del titolo di specializzazione come requisito per l’accesso al SSN ha allungato enormemente il periodo formativo, ritardando l’accesso al lavoro dei Medici con tutte le conseguenze, previdenziali e di carriera, del caso. La eccessiva lunghezza di tale percorso, nella quasi totalità lontano anche dal garantire gli obiettivi professionalizzanti previsti dalla UE, rende inutilmente penalizzante per i medici che completano la propria formazione in Italia, il mantenimento dell’obbligo della specializzazione per accedere alla dirigenza medica del SSN. Una alternativa alla possibilità di inserimento immediato del neolaureato nei posti vacanti del SSN, laddove è, dai vigenti contratti, considerato come “medico in formazione” per i primi 5 anni, potrebbe essere rappresentata dal considerare il secondo triennio come contratto di formazione lavoro da svolgere nelle strutture del SSN con compiti e retribuzione, diretta ed indiretta, contrattualizzati.

CRISI PROFESSIONALE

In questo difficile contesto i medici si trovano nel punto, forse, di maggiore crisi professionale ed identitaria della loro storia. Non più assolutizzati, come fino agli inizi del secolo scorso, sospesi tra una formazione infinita ed una sempre più incerta collocazione, non godono come categoria di buona salute, tra immagini caricaturali, divisioni interne, ed atteggiamenti da nobiltà decaduta in una realtà cambiata a passi da gigante. Crisi, più che di un ruolo, di un lavoro, che comunque, anche se cambiano i tempi – e le economie -, mantiene intatta la sua complessità. Vicino come è a temi cruciali dell’esistenza: la vita, la morte, la malattia e la sofferenza, la responsabilità, elementi che già di per sé rendono questa professione per molti versi unica ed insostituibile, a dispetto di tentativi di ridimensionamento, prossima alle persone, nelle corsie degli ospedali, negli ambulatori, nelle case dove vivono, nei luoghi dove lavorano.

Alla base di questa crisi c’è, forse, uno sfuocamento di un mestiere che conserva tutta la sua bellezza, oggetto ancora di timore, talvolta di invidia, se tanti non medici parlano e scrivono di quello che dovremmo fare, dettandoci tempi e agende. Mentre, da parte nostra, facciamo fatica a capire come e quanto sia cambiato un lavoro che permea tutta la nostra esistenza, e soprattutto come cambierà ancora, anche grazie alla rimozione che noi stessi abbiamo compiuto in questi decenni delle sue ragioni e della sua natura.

Oggi, a differenza che nelle generazioni precedenti, non è il progresso tecnologico a comandare il gioco, ma sono i luoghi delle cure a trasformarsi fino a scomparire, lasciando sullo sfondo i curanti( e, ancor peggio, i curati). Una moltitudine di protagonisti mutuati da altri mondi, economia, scienze ingegneristiche, politica continuano a parlarci di tagli con linguaggi estranei alla nostra quotidianità usando parole anglosassoni che hanno smarrito ogni contenuto. Fino a dettarci l’imperativo “adapt or die”. Non c’è spazio per le sofferenze che siamo chiamati a vedere, diagnosticare, com-patire, talvolta guarire.

RIPARTIRE DAL LAVORO

Dovremo ripartire dal lavoro che, per dirla con Ivan Cavicchi, “come fattore di cambiamento è stato completamente dimenticato ed è diventato il vero nemico da abbattere(tagli lineari, blocco contrattazione, peggioramento delle condizioni economiche e organizzative)”, messo in secondo piano rispetto al contenitore (organizzazione, salario, contratti, ecc). E ripensarlo, ricostruendo la autonomia perduta nel leggere e decidere le necessità del paziente “ Al netto di tutto, dell’orario, del salario, della carriera”. Come Anna Rosa Buttarelli ci ricorda,“Deve mantenere l’autorità sul lavoro chi il lavoro lo fa, non chi campa sul lavoro altrui. Chi svolge il lavoro conosce la qualità, il valore, le competenze e le esperienze che servono per svolgerlo al meglio”.

Il sapere di chi il lavoro lo fa è superiore a tutto, e ri-definisce anche la rappresentanza. Dobbiamo, noi che facciamo, far sentire tutta l’autorevolezza e il peso dei corpi pensanti che lo compiono. Vite spese a prendersi cura di corpi ed emozioni non sono paragonabili a tanti altri lavori.

Oggi non è difficile cogliere la lacerazione del rapporto tra professionisti ed istituzioni sanitarie, sempre più arroccati in due universi, diversi e distinti, di valori e di vocazioni che una cultura aziendalista di matrice manifatturiera, importata in sanità, non è riuscita a saldare o quantomeno a far convergere in modo efficace. Questo profondo disagio del lavoro medico e sanitario, privo di risposte efficaci, definisce un contesto che rende più difficile affrontare la spinta delle innovazioni culturali, organizzative e gestionali che hanno una loro ragione non eludibile e una loro forza non comprimibile: questi cambiamenti, per loro natura, aggiungono ulteriori incertezze. Eppure, bisogna ritornare, dopo decenni, a ridiscutere il fondamento di quest’arte che è modernamente andato perso, e con esso la relazione, e con questa la rappresentanza. Sembra paradossale in questo momento storico, ma è di questo che bisogna tornare a parlare tra noi, vecchi e giovani, uomini e donne: di formazione, di complessità, di incertezza (i tre viatici di Edgar Morin: il pensare bene, la strategia, la scommessa, che suonano estremamente attuali e pertinenti) per riprendere il cammino che ci possa condurre alla ragione dell’identità e del futuro della più antica professione di cura.

Ed il nostro lavoro reclama un diverso valore, anche salariale, come contropartita di un cambiamento, diverse collocazioni giuridiche e diversi modelli organizzativi che riportino i medici, e non chi governa il sistema, a decidere sulle necessità del malato.

I LEA siamo noi, e le nostre abilità e competenze, che spesso fanno la differenza tra vita e morte, tra malattia e salute, sono un pre-requisito del rilancio del Servizio Sanitario pubblico e nazionale e del suo incremento di efficacia ed efficienza, anche contro la logica anti ospedaliera imperante. Una logica che sta dominando da tempo programmi e strategie politiche, istituzionali, professionali e accademiche, rispetto alla quale manteniamo un atteggiamento a metà tra il fastidio e il fatalismo. Quasi assuefatti all’idea che tutto il bene risieda ormai fuori dalle mura ospedaliere e tutto il male all’interno, abbiamo subìto progressive operazioni di smantellamento o ridimensionamento della rete nosocomiale, sempre in fiduciosa attesa di una parallela costruzione di una rete alternativa e complementare. Il che non è avvenuto, anche perché è più facile trasferire risorse che funzioni.

Il Congresso è la occasione per analizzare e discutere (e decidere), con la mente libera di ri-pensare con audacia, il nostro ruolo sindacale, giuridico-contrattuale e professionale.

UNO STATO GIURIDICO ADEGUATO AI PROFESSIONISTI

Indubbiamente, dopo il processo di aziendalizzazione, medici e dirigenti sanitari, all’interno delle Aziende sanitarie, si sentono poco amati, controllati, vincolati alle norme che disciplinano l’organizzazione e ne fissano i livelli di subordinazione, limitando, non di rado, la stessa autonomia clinica. Si è rafforzata la tentazione di chiamarsi fuori per dedicarsi alla purezza della professione, lasciando che sia qualcun altro a pensare alla gestione. Di qui la insofferenza per una qualifica dirigenziale vissuta come etichetta priva di contenuti, di qui l’inseguimento di una netta separazione di percorsi di carriera tra professionali e gestionali, di qui la sottovalutazione della vera posta in gioco rispetto alle le nuove professioni sanitarie.

Nella società moderna, però, per avere un peso occorre imparare a gestire ed accettare un ruolo, anche di ordinatore della spesa, perché la stessa autonomia professionale oggi è minacciata dalla crescita di altre professioni che aspirano a propri Ordini e, curiosamente, a quel ruolo dirigenziale che molti fra noi vorrebbero abbandonare. Il guaio è che siamo chiamati ad impersonare un profilo di dirigente, cui è collegata una dimensione professionale ed una di responsabilità nella gestione delle risorse, senza forme di partecipazione ai modelli organizzativi ed operativi aziendali. Tramontata la attesa quasi messianica di un provvedimento legislativo che risolvesse questa contraddizione, creando le premesse per l’affermarsi del governo clinico, il problema che abbiamo ancora di fronte è in sostanza quello di progettare un nuovo sistema che ricostruendo i valori di appartenenza alla professione privilegi le risorse sociali nei confronti dei valori economici, superando la dicotomia tra sviluppo dei temi professionali e l’attuale modello organizzativo nel quale il professionista è spinto ad identificarsi se vuole progredire nella carriera.

Lo stato giuridico del medico ospedaliero, e del dirigente sanitario per le diverse peculiarità professionali, costituisce un ossimoro peculiare: dipendente, per collocazione all’interno del pubblico impiego, e dirigente, sia per la natura intrinseca di interprete dei bisogni di salute dei cittadini, sia per il trasferimento di delega della proprietà nella gestione di risorse anche ingenti. In tutti, sia pure con grado e intensità differente, sono presenti i due ruoli, essendo la responsabilità gestionale insita in ogni atto per la valenza delle risorse impiegate e comportando ogni scelta clinica una decisione etica ed economica di cui il medico è responsabile. Non per ignorare le ragioni della spesa e della economia ma per affrontarle in modo non subalterno e non subordinato.

Nella morsa della crisi e dell’attacco ai sindacati ed al CCNL, l’ossimoro disegnato dal dlgs 229/99 mostra tutti i suoi limiti, ed occorre avviare una riflessione. Il punto da cui partire per chiederci se il rapporto di lavoro pubblico dipendente può essere il modello per una azienda di servizi, è il fatto che ci troviamo sempre più stretti nel contenitore del pubblico impiego, che penalizza i medici ed i dirigenti sanitari e non è coerente con la loro natura professionale, la specificità e la delicatezza dell’attività che essi svolgono all’interno delle strutture sanitarie. In un vicolo cieco, senza prospettive ed uscita di sicurezza. All’interno del SSN siamo considerati essenzialmente dei dipendenti, al massimo dei quadri, cui è affidato un incarico professionale, piuttosto che professionisti che lavorano per lo Stato. Occorre una riscrittura del lavoro medico e sanitario che ridisegni modelli di organizzazione e gestione all’interno dei quali recuperare un ruolo professionale che risponda coerentemente a tutte le specifiche caratteristiche della professione e del suo compito primario, che è la tutela della salute dei cittadini. Oggi si riscontra una forte disaffezione nei confronti del proprio posto di lavoro. Manca uno spirito di appartenenza ed una condivisione di valori, complice anche la incertezza cognitiva sui percorsi strategici, la scarsa trasparenza nella gestione delle risorse, la irrilevanza cui le categorie professionali sono tenute dalla prosopopea di una certa cultura aziendalista che pensa di potere costruire maxi aziende con mini professionisti. Ed anche la invadenza pervasiva della politica in cerca di occasioni per le proprie sorti elettorali. Occorre riflettere su questa situazione senza illudersi sulla esistenza di scorciatoie, quale potrebbe apparire la semplice separazione dei percorsi di carriera. La riflessione, certo, è ancora acerba e sappiamo, con certezza, solo ciò che non vogliamo.

La questione dello stato giuridico di Medici e dirigenti sanitari dipendenti è collegata alla necessità di ripensare l’attuale modello di governance, di fatto un potere monocratico su cose e persone, e quindi i rapporti tra contenuto e contenitore. Sapendo che chi non rivendica responsabilità ed autonomia nell’esercizio di un ruolo accetta di essere gestito, senza alcun potere negoziale nei confronti del management e senza forme di partecipazione ai modelli organizzativi ed operativi aziendali. Occorre cominciare dai meccanismi di progressione di carriera per realizzare una ri-collocazione all’interno della organizzazione che ci faccia riconoscere non come parte del “problema” quanto della soluzione. Inutile, perciò, adattarci alle necessità aziendali tirandoci fuori dai codici etici e deontologici.

La Categoria speciale inseguita vanamente nel passato non è l’unica via di uscita, ammesso che sia possibile porre altri 114.000 professionisti come categoria speciale, ed accettabile la rinuncia ad organizzazioni, strumenti, prerogative di carattere sindacale a fronte di benefici incerti.

Altra soluzione potrebbe essere quella di professionisti che lavorano per il Pubblico in un rapporto di convenzione.Anche qui, c’è un problema di numeri ma soprattutto di come conciliare uno status di libero professionista con l’affidamento di risorse umane, tecnologiche, economiche anche ingenti.

Una soluzione più realistica potrebbe essere insistere e rivisitare, su presupposti diversi e più coerenti con la natura peculiare del sistema di tutela della salute dei cittadini, il carattere di “dirigenza speciale” delineato dall’art.15 del vituperato Dlgs 229/99. Si tratta allora di rivedere ed accentuare fortemente il carattere “speciale” della dirigenza del S.S.N., rafforzandone in termini certi l’autonomia sia nel profilo professionale che gestionale che rendono peculiare la “funzione” sanitaria, dando contenuti e riconoscimenti alle singole posizioni e certezza alle azioni professionali specifiche, anche attraverso il supporto di modifiche legislative.

Le categorie dei medici dipendenti e della dirigenza sanitaria oggi sono unite nel denunciare un diffuso disagio ed una crescente insofferenza verso il modello aziendale che ha mostrato e mostra costantemente la sua assoluta inadeguatezza.

RUOLO PROFESSIONALE

Uno spettro si aggira da anni nella sanità italiana, la “questione medica”, esorcizzata ma non risolta, malgrado il tentativo di normalizzare la categoria con un attacco massiccio a tutto campo. Il disagio professionale è reale e richiede risposte, perché va progressivamente accentuandosi con il rischio di degenerare in un processo di delegittimazione. La discussione sul disagio medico e sulla crisi della identità professionale sembra, però, giunta nelle secche. Forse dovremmo smettere di chiedere alle scienze umane risposte che attengono alla politica, che riguardano l’essere e fare il medico, ammesso che esista ancora il medico e non i medici come fenotipi della stessa malattia, in cerca del lettino dello psicoanalista dove raccontare ed ascoltare di quanto eravamo forti e di come siamo caduti in basso.

La questione non è nuova, se di “disagio della professione medica” parla il rapporto dell’alto commissariato per la sanità pubblica del 1947 e di “crisi della identità professionale” Cesare Frugoni nel 1957, ma oggi esasperata da diversi fattori convergenti:

1) La solitudine del medico a decidere del destino dei malati, abbandonato da una politica che riduce le risorse ma non dice cosa fare, in prima linea a mettere la faccia per reggere una domanda crescente e complessa con risorse decrescenti, facilmente esposti alla delegittimazione sociale ed alla crescita del contenzioso civile e penale.

Con l’atto medico reso più fragile, costretto tra codici diversi e non di rado conflittuali, senza che sia chiaro il primato di ciascuno e le relazioni tra di loro, come il caso Stamina dimostra.

2) La crescita del contenzioso, legata al cambiamento della società ed alle sue ripercussioni nel mondo sanitario. La trasformazione del “paziente” in “mostro esigente” e diffidente, la perdita del ruolo sociale del medico insieme con la crisi della dominanza professionale, hanno portato alla fine della “libertà medica” intesa come potere, quasi sacrale, di assumere ogni decisione in solitudine per il bene del paziente. Il terreno dell’errore medico è diventato così l’oggetto principale di periodiche cadute di immagine del SSN e di consenso verso i suoi professionisti. Ridotta ai minimi termini la fiducia dei pazienti, in grande risalto ed in prima pagina gli eventi avversi, scarsi i riconoscimenti sociali, la professione si scopre indifesa di fronte alla diffusa convinzione che il progresso scientifico-tecnologico garantisca sicurezza di guarigione o azzeramento dei rischi, che rimangono spesso non prevedibili e non prevenibili, e che tutto sia riducibile ad errore. Ed esposta ad una disinvolta pressione mediatica che fa passare il medico da indagato a imputato a condannato, prima che il processo si sia aperto. Con gravi conseguenze: l’inquinamento della relazione medico-paziente, l’adozione di procedure difensive da parte di professionisti, la crescita dei costi diretti ed indiretti.

Ma nella pagina excel delle riforme al mese non è dato vedere il mese della legge sulla responsabilità professionale.

Oggi è mutata anche la natura dei possibili errori e dei relativi profili di responsabilità con l’emergere di errori spesso latenti ove il fattore umano rappresenta l’ultimo anello di una catena di difetti del sistema.

Servono nuovi strumenti legislativi, quali il passaggio ad un sistema assicurativo no fault, sul modello francese e scandinavo, svincolato dalla necessità di provare le responsabilità; un diverso inquadramento penale della responsabilità medica, riscrivendo le norme sulla colpa, considerato che l’Italia, insieme al Messico e alla Polonia, pone l’errore medico nell’ambito penale, senza distinguere tra un atto medico ed un’aggressione, il riconoscimento dell’innegabile peculiarità della professione medica e delle caratteristiche di specificità ed interesse sociale dell’ atto medico, nonché delle crescenti difficoltà del contesto in cui esso oggi si realizza, la visione del fenomeno come parte costitutiva dei LEA la cui responsabilità ricade in capo agli stessi soggetti cui la Costituzione pone l’obbligo di garantirli a tutti i cittadini del Paese.


3) L’avanzare delle nuove professioni sanitarie che erodono i tradizionali ambiti di esercizio della professione medica e di modelli organizzativi derivati dalla industria automobilistica ed adottati anche se privi di evidenze di una maggiore efficienza o efficacia. Il tank shifting risponde alla tentazione forte di un uso opportunistico delle competenze per una prospettiva di sanita low cost, usata contro di noi. Il bisogno di ridefinire gli ambiti di cura e di assistenza attraverso lo sviluppo delle competenze e delle responsabilità delle professioni sanitarie non può essere un’operazione a senso unico, realizzata fuggendo trasparenti percorsi legislativi, uno dei frutti del federalismo che balcanizza anche le competenze professionali, essendo necessario un chiaro rapporto di ruoli e di responsabilità di tutti gli operatori che assicurano la erogazione dei LEA. Nè può essere sottovalutato il pericolo di vedere nel processo clinico assistenziale finalizzato al bene-essere del malato solo una sommatoria di autonomie professionali, senza individuare una figura cui ricondurre la responsabilità unitaria del percorso ed il compito di risolvere l’eventuale conflitto tra le autonomie. In questa complessità, da più parti si pensa che possa costituire una efficace barriera la definizione per via legislativa dell’atto medico, ricondotto alla mera declaratoria delle competenze tecnico operative oggetto di esercizio esclusivo. Ma “Esso è più compiutamente definito da quell’insieme complesso di ruoli, funzioni e responsabilità, comunque rilevanti e centrali nelle mutevoli transazioni tra medicina e società, che in sanità da tempo sono chiamate a corrispondere ai nuovi paradigmi della malattia, della salute, della cronicità, della equità, della qualità, della sicurezza, della sostenibilità etica ed economica della rivoluzione tecnologica e scientifica, della soddisfazione dei bisogni dei cittadini nel rispetto della loro autonomia” (Bianco). L’atto medico non è assorbibile in un atto sanitario per la sua specificità, fondata su conoscenze e competenze acquisite in una formazione universitaria di base e specialistica che complessivamente varia dai 10 ai 13 anni, ed il suo essere funzionale, non per una vetusta lettura gerarchica e piramidale dei processi clinico assistenziali, a garantire una governance unitaria, efficiente ed efficace della loro complessità multiprofessionale e multidisciplinare ed il conseguimento della loro finalità. Ma non è dai contenuti amministrativi che si possono fare derivare le professioniche non possono essere indipendenti dalle capacità cognitive dell’operatore per cui è preferibile spostare l’attenzione e la discussione dall’atto(compiti burocratici, profili, mansioni) all’agente, “colui che lavora e che è definito da contesti, che garantirà che tutto quello che lo ha definito sarà in ogni atto che compie”.

4) Il conflitto tra organizzazione e professione

Diversi osservatori ritengono che la malattia principale del nostro SSN si chiami governance.

La cornice legislativa degli assetti gestionali del SSN (Dlgs 502/92-Dlgs 229/99, L 3/2001), non ha, in questi anni, né scoraggiato né impedito la possibilità per i decisori politici di invadere la sfera gestionale della sanità. La cascata delle responsabilità nel governo della sanità si è spesso tradotta in una rigida catena di comando che ha piegato alle esigenze della politica quelle della gestione. A partire dalle procedure di individuazione dei Direttori Generali delle Aziende Sanitarie e di selezione dei Direttori di struttura complessa, che hanno reso possibile il ramificarsi di interessi clientelari e spartitori nei confronti del management tecnico professionale, ai quali è stato subordinato il riconoscimento del merito e delle competenze professionali, in una inquietante solitudine e fragilità verso il potere politico che sceglie e valuta con totale discrezionalità, cui certo non porrà rimedio un albo nazionale, ancorchè costituito con criteri selettivi.

Oggi la mission principale, se non unica, delle Aziende sanitarie, è il governo dei costi di produzione attraverso un puro meccanismo di controllo dei fattori di produzione, medici e dirigenti sanitari compresi, senza, peraltro, essere riuscite, come il disastro dei conti dimostra, neanche a raggiungere l’obiettivo principale per il quale erano nate. La complessità del mondo sanitario non può, però, essere governata con i soli strumenti della cultura aziendale, anche ove questi venissero utilizzati al meglio, cosa che in verità è accaduta raramente. Una politica di efficienza e ottimizzazione dei costi richiede modifiche delle procedure cliniche e quindi del comportamento professionale, che non possono essere affidate ai puri meccanismi di efficienza gestionale. Occorre valorizzare la applicazione di conoscenze e valori professionali di diretta derivazione clinica, abbandonando la invadenza e la prosopopea di una certa cultura manageriale che tutto riduce a fattore produttivo, per non eludere il nodo del reclutamento di saperi e competenze professionali sul vero obiettivo di “promuovere, mantenere e recuperare la salute fisica e psichica della popolazione”.

Alla idea di governo clinico, che riconosce la centralità del ruolo delle professioni all’interno delle Aziende Sanitarie, è possibile affidare quanto la tradizionale cultura aziendalista ha dimostrato di non poter compiutamente provvedere, e cioè la garanzia delle finalità etiche, civili e tecnico-professionali del servizio, nel rispetto delle compatibilità economico finanziarie, reclutando tutti i professionisti, medici e non, all’ obiettivo di invertire le curve di caduta della qualità e del consenso sociale e della contestuale crescita dei costi. Il riconoscimento e il rispetto di una sfera decisionale fondata su una loro sostanziale autonomia tecnico professionale deve tradursi nella individuazione di organismi professionali che orientino e supportino il management aziendale nelle scelte tecniche, e di procedure di selezione e verifica delle carriere meno discrezionali ed autoritarie, alleggerendo l’insopportabile deriva burocratica verso la quale è oggi sospinta la pratica dell’ appropriatezza clinica. Un diverso equilibrio, o meglio l’integrazione delle competenze e dei poteri nelle aziende sanitarie, quello politico, quello manageriale e quello tecnico professionale è oggi questione centrale e soprattutto cruciale nel vincere (o perdere) le due sfide più grandi per il nostro sistema sanitario e cioè quella del consenso dei cittadini e quella della sua sostenibilità economica nella salvaguardia dell’universalismo e dell’equità.

Non basteranno a vincere queste sfide pur necessarie iniezioni di meritocrazia o la messa in discussione del mitico rapporto fiduciario. Le aziende sanitarie sono diventate OGM e la malattia di cui soffrono è genetica.

Il management, per allineare le prestazioni alle risorse sempre più limitate, interpreta e governa i processi clinico-assistenziali secondo l’unica cultura di cui dispone, quella dell’ottimizzazione dei costi diretti ed indiretti dei fattori di produzione. Esso programma le attività in ragione dei minori costi preventivabili, riconduce i processi clinico assistenziali ad una sequenza di atti e procedure, nei quali i professionisti vengono assunti quali meri fattori produttivi; orienta la valutazione degli esiti prioritariamente sulla misura del consumo delle risorse, rendendo flessibili e trasferibili funzioni e competenze, delimita gli ambiti di autonomia e discrezionalità nelle scelte dei professionisti. Questa logica poggia su una visione della governance delle organizzazioni sanitarie in cui le Regioni, strette da vincoli economici, non intendono modificare la catena di comando delle decisioni, comprese quelle che entrano nel core delle pratiche professionali e della selezione del merito e delle competenze. La discrezionalità connessa al principio del rapporto fiduciario, la natura monocratica del management aziendale, la subalternità dell’autonomia tecnico-professionale alle ragioni della gestione economicistica che esse rivendicano, è il paradigma unico e immutabile, quasi un valore indisponibile. Questo pensiero unico, fortemente strutturato, è tenacemente protetto nella architetturanormativa dell’azienda sanitaria, e della Regione divenuta quasi una corporation. Ed è questo il punto da mettere in discussione, non certo con la sola costituzione di albi, che peraltro esistono già in alcune regioni, sia pure formati per titoli e colloquio, ma recuperando l’idea del governo clinico che mantiene le sue buone ragioni anche se ha perso forza, agibilità e concretezza, in una inerzia legislativa che ha indebolito potenzialità e deluso speranze. Rimane per noi evidente la necessità di un sostanziale cambio di paradigma culturale, politico e sociale che, a garanzia di un servizio sanitario universalistico, equo, efficace e solidale, definisca un nuovo Patto con la Professione Medica in una nuova cornice culturale, giuridica, amministrativa, civile e sociale.

RUOLO SINDACALE

In queste settimane la Associazione è stata impegnata in una nuova fase congressuale, in cui con la sostanziale tenuta degli iscritti, rispetto al 2010, ad onta di una incipiente gobba demografica e di una crisi della rappresentanza comune a tutte le organizzazioni, ed alle famiglie politiche, nasce un nuovo soggetto sindacale che con la storica sigla Anaao Assomed mira a rappresentare, mediante l’adozione di politiche inclusive e multiprofessionali, diversi soggetti professionali che vivono la stessa organizzazione del lavoro negli stessi spazi fisici e con le stesse regole, a prescindere dalla qualifica e dallo stato giuridico. Sia per meglio rispondere alle nuove norme che regolano la contrattazione nel pubblico impiego sia per accettare la sfida e la responsabilità di rappresentare il lavoro in sanità in tutte le forme in cui oggi viene declinato, per continuare ad essere il più forte sindacato anche nelle nuove aree contrattuali disegnate dalla L.150/2010.

Questa trasformazione, anche in presenza di parametri vitali ancora soddisfacenti, è stata reso necessario dai cambiamenti degli ultimi anni perché quando cambia il contesto, per le organizzazioni, cambiare non è più una scelta, ma una necessità. Spendendosi dal lato delle soluzioni piuttosto che indulgere alle nostalgie dei tempi passati.

Credo nessuno dubiti della profondità delle trasformazioni che investono le categorie professionali che vogliamo rappresentare ed il Servizio Sanitario Nazionale in cui viviamo, e gli stessi luoghi fisici del nostro lavoro.

Oggi le nuove forme di aggregazione professionale e sociale, l’esplodere dei contratti atipici così diversi dal rassicurante tempo indeterminato cui eravamo abituati, il collasso del sistema formativo con 25.000 medici allo sbando, la nuova composizione dei tavoli contrattuali richiedono una svolta coraggiosa per riallineare la nostra organizza­zione ai mutamenti in atto. Per di più, appare interrotta la stessa linearità del percorso studio-lavoro che ha caratterizzato le generazioni precedenti. L’ospedale non è più la meta agognata né il punto di arrivo di una storia naturale del “fare il medico”, di un lungo percorso formativo. Complici il peggioramento delle condizioni di lavoro, e delle retribuzioni, nonché il fallimento della programmazione dei fabbisogni formativi specialistici, in alcune discipline cominciano a diffondersi forme di lavoro anche di tipo collegiale, nelle quali i medici rifuggono lo status di dipendente per muoversi come autonomi cottimisti di lusso.

Non esistono più le rendite di posizione, e non è più considerata scontata la effettiva capacità delle organizzazioni sindacali di rappresentare in maniera adeguata il lavoro nelle molteplici forme in cui viene declinato.

L’onda lunga della crisi di consenso e di fiducia verso le istituzioni ha ormai raggiunto anche il sindacato e la sua capacità di rappresentanza. Sparare contro il sindacato è diventato una moda, una variante della retorica anti-casta.



Costantino Troise, Segretario Nazionale Anaao Assomed