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a Corriere della sera.it VENEZIA – Se non avete mai sentito parlare di «nanomedicina», se vi sembra un termine troppo complesso per capire di cosa si tratta e che riguarda qualcosa che arriverà solo in un lontano futuro, sappiate che le nanotecnologie già vi circondano nella vita di tutti i giorni: occhiali, computer, navigatori, telefoni cellulari e cosmetici sono alcuni dei moltissimi campi di applicazione, a cui si aggiunge la medicina, e in particolare l’oncologia. Per capirne di più è bene sapere, innanzitutto, che un nanometro equivale a un miliardesimo di metro, la grandezza con cui si misurano gli atomi e le molecole. Difficile immaginare qualcosa di così piccolo, eppure è su questa scala che lavorano i biologi, chimici e fisici che si occupano di nanotecnologie, creando in ambito medico materiali, strumenti e sistemi farmacologici talmente piccoli da poter interagire con le cellule. In particolare, queste tecnologie ultrapiccole vengono sperimentate in oncologia su due fronti: primo, per individuare la malattia il più presto possibile; secondo, per cercare di portare dentro alle cellule cancerose i farmaci, in modo che siano efficaci al massimo contro il tumore e tossici il minimo possibile per i tessuti sani.
SONO GIA’ UNA REALTA’ - «Sia ben chiaro, però, che non stiamo parlando di terapie o strumenti che avremo fra chissà quanti anni – sottolinea Mauro Ferrari, ricercatore friulano considerato il padre della nanomedicina, oggi presidente del Methodist Hospital Research Institute di Houston in Texas (Usa) -. I primi farmaci nanotech, fra cui la doxorubicina liposomiale (ancora oggi impiegata per curare tumori di seno e ovaio, sarcomi di Kaposi e neoplasie pediatriche), sono stati approvati quasi 20 anni fa, oggi sono circa una dozzina quelli già in clinica e molti sono poi quelli allo studio dei ricercatori. Alcuni ancora in fase di laboratorio e lontani dal letto del paziente, altri più vicini alla sperimentazione sui malati. Anche per la radioterapia sono già in atto grandi cambiamenti: si possono usare dei nanovettori (appositamente creati in laboratorio) che portano a destinazione solo nell’organo e nelle cellule malate delle particelle che vengono poi “scaldate” dall’esterno con radiazioni non dannose per l’organismo, come il laser. Con il calore i dei nanovettori si aprono, come mine che esplodono, rilasciando l’energia che brucia il tumore, risparmiando del tutto le parti sane. Una tecnica già in uso in Germania, all’ospedale Charité di Berlino, contro il glioblastoma cerebrale, usando nanoparticelle di ossido di ferro irradiate con energia magnetica».
COME NEI VIDEOGAMES - Ma perché il futuro della lotta ai tumori deve passare proprio dalle minuscole misure «nano»? «Visto che parliamo di una guerra – spiega Ferrari – bisogna sapere che il nostro nemico, il cancro, è molto astuto: le cellule cancerose, infatti, sono più “forti” di quelle sane. Diciamo, per semplificare, che sono spesso impermeabili e che sono capaci non solo di moltiplicarsi, ma anche di acquisire modi per “resistere” agli attacchi delle cure. Motivo per cui spesso accade, purtroppo, che una terapia dopo un po’ non faccia più effetto. Per aggirare questo ostacolo ci siamo inventati l’oncofisica del trasporto, ovvero la scienza che studia come il cancro si difende dagli attacchi esterni. Sfruttando le conoscenze che ne derivano stiamo creando dei “trasportatori” ( in nanovettori, appunto) efficaci, che sappiano cioè superare le linee nemiche (ovvero entrare dentro le cellule malate) e restarci il tempo necessario per “sganciare le bombe”, radiazioni o farmaci che siano». E, come nei videogames di guerra, c’è ulteriore difficoltà da superare: siccome le barriere che il cancro crea per difendersi dagli assalti esterni sono tante, diverse e mutevoli, bisogna armarsi di trasportatori differenti a seconda delle situazioni.
I PROSSIMI PASSI DELLA RICERCA - E qui facciamo un passo in là verso il futuro dei laboratori di ricerca: l’idea c’è, ma serve il tempo per realizzarla. «Stiamo studiando dei vettori multi-stadio che per ora hanno dato risultati promettenti sulle cavie – aggiunge Ferrari -. L’obiettivo è trovare e colpire le metastasi e per farlo dobbiamo usare aerei, sommergibili, navi, truppe di terra, seguendo il principio usato dalla Nasa per atterrare sulla luna: servono diversi componenti per le diverse parti del viaggio. In pratica è una semplice iniezione endovena di un farmaco diluito, ma la medicina è composta da vari “pezzi”: la portaerei atterra sui vasi sanguigni vicini al tumore, sgancia aerei “intelligenti” che penetrano nei vasi e riconoscono le cellule malate, lanciando a loro volta le bombe solo su queste ultime». In fase avanzata di sperimentazione ci sono anche delle nanoghiandole, piccole capsule da impiantare sottopelle e controllabili a distanza, che imitano l’attività delle ghiandole naturalmente presenti nel corpo umano. Così come quelle endocrine, ad esempio la tiroide, producono ormoni, le nanoghiandole rilasciano quantità minime di farmaci, anche per molti mesi, diluendo la dose (e anche gli effetti collaterali) nel tempo.
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