lunedì 15 novembre 2010

la "solidarieta'" esiste ancora ed in che misura? stralci da un articolo di "psichiatri oggi"

di P.L.Scapicchio........La Bibbia ci narra che quando Dio chiese a Caino dove fosse Abele, Caino negando di saperlo rispose irato con un'altra domanda: "Sono forse il custode di mio fratello?". Emmanuel Lévinas afferma che quella rabbiosa domanda di Caino è all'origine di ogni immoralità e su questa domanda Zygmunt Bauman (8) poggia una delle sue straordinarie analisi, quella sulla progressiva individualizzazione della società contemporanea e sui sentimenti di insicurezza e di paura che ne derivano per i singoli individui. Le società in cui viviamo sono sempre più caratterizzate, secondo Bauman, dalla scomparsa della vecchia arte di costruire e mantenere legami sociali, dal declino dell'uomo come essere "pubblico", dall'abbandono dell'uomo sofferente al suo ineluttabile destino, dal culto disperato del corpo e dell'efficienza competitiva come difesa da questo abbandono e dalla conseguente emarginazione sociale. Tutto ciò, benché sia riconducibile, come ho già ricordato, a fattori strutturali propri della nostra civiltà, viene vissuto come esperienza squisitamente individuale e non genera una spinta a promuovere soluzioni collettive e partecipate. Una società di individui è, di fatto, una società di solitudini; in essa la domanda di Caino trova un senso solo allorché si manifesta come presa di distanza, come negazione della responsabilità della morte di Abele. E, non sembri un paradosso, è irrilevante a quel punto che la morte di Abele sia avvenuta proprio per mano di Caino. Essere Caino o essere implicitamente suoi compiici per il silenzio ed il distacco che manifestiamo rispetto alla sorte di Abele, non cambia i termini del problema sul piano etico. In questo senso, l'affermazione di Lévinas è drammaticamente vera. Ma come fanno miliardi di individui a comportarsi come Caino senza esserlo? Come si può, in altre parole, essere fratricidi senza essere in concreto capaci di commettere un omicidio? Il bellissimo ed inquietante saggio di Stanley Cohen Stati di negazione - la rimozione del dolore nella società contemporanea (9) ha dato una risposta convincente. Sotto i nostri occhi scorrono sofferenze ed orrori senza che il nostro cervello, registrandoli, provochi reazioni adeguate alla loro drammaticità. Chiudere gli occhi, abbassare lo sguardo, far finta di niente, voltarsi dall'altra parte, alzare le spalle, mettere la testa sotto la sabbia: sono numerosi i modi di dire comuni che indicano l'incapacità o il rifiuto di guardare in faccia la realtà della sofferenza altrui e che sembrano diventati l'unica modalità di comportamento che sappiamo opporre all'osservazione di realtà scomode e dolorose. La parola rimozione, impropriamente usata nella traduzione italiana del sottotitolo, è un termine freudiano ben noto in psichiatria; un meccanismo di difesa che però non rende conto delle intenzioni dell'Autore, che ha infatti usato il termine diniego. Ossia un rifiuto di riconoscere o mettere a fuoco una realtà traumatizzante che viene lasciata lì, in un angolo della coscienza, senza destare reazioni congrue dal punto di vista intellettuale. Rimuovere, di fatto, significa non sapere. È come cancellare un ricordo, che può riaffiorare solo in particolari situazioni emotive; relegare fuori dalla coscienza, nell'inconscio, elementi psicologici sgradevoli per evitare intense reazioni ansiose o spostarli su altri contenuti simbolici capaci di mascherarli. Il diniego invece mantiene intatta la mia conoscenza attuale ma, semplicemente, non mi fa più alcun effetto che scompaiano tutti gli ebrei della mia città o che ogni mese muoiano sotto i miei occhi migliaia di bambini per fame, malattie evitabili o esplosione di conflitti etnici. È così, e basta. Sono forse il custode di mio fratello? Naturalmente una giusta esigenza morale non può trasformarsi in moralismo. Saremo pure "voyeurs delle sofferenze altrui", ma se reagissimo con l'indignazione e l'attivismo eticamente corretti ad ogni atrocità o ingiustizia che osserviamo, scrive Cohen, non saremmo più in grado di vivere la nostra vita. La sua analisi si sviluppa in modo esemplare, soprattutto nei confronti del potere politico ed economico, ma a noi interessa ora capire se può esserci un modo per uscire dal relativismo morale che il diniego della solitudine dell'anziano (come esito di un abbandono e come fonte di un'inesauribile sofferenza) provoca in chi la osserva. Secondo Cohen opporsi ad una posizione culturalmente dominante significa entrare a far parte di una minoranza scomoda e frustrata, spesso addirittura rischiosa. Perché allora opporsi a meccanismi cosi' radicati  di diniego?Per altruismo, ci dice Cohen, e sembra una risposta davvero banale. Ma dietro la banalità apparente del termine il sociologo ed il filosofo scoprono montagne di significati importanti e differenziati. Alla luce dei quali il Buon Samaritano, prototipo ed icona dell'altruismo, è per complessità semantica paragonabile ad un essere vivente monocellulare. L'altruismo, scrive ancora Cohen, è un'anomalia della teoria della scelta razionale, perché non esige e non si attende una ricompensa. Nasce da una particolare ottica cognitiva che possiamo identificare in un senso del sé come parte di un'umanità comune, che non ha nulla a che vedere con astratte priorità morali o politiche. Questa ottica non è solo alla base delle azioni compiute dagli Schindler o dai Perlasca ma è anche alla base dell'evoluzione di tutti i sistemi di welfare, nati nel secolo scorso con intenti economici strumentali all'affermazione del capitalismo, ed oggi totalmente privi di tale supporto razionale. E proprio riguardo al futuro del welfare state Bauman nota: "Siamo franchi, non c'è nessuna buona ragione per cui dovremmo essere i custodi di nostro fratello, aver cura di lui, essere morali; e in una società orientata all'utile i poveri e gli inattivi, privi di scopo e di funzione, non possono contare su prove razionali del loro diritto alla felicità. Sì, ammettiamolo, non c'è alcunché di ragionevole nell'assumersi la responsabilità, nel prendersi cura degli altri e nell'essere morali". C'è dunque una strana sintonia fra i due Autori. Strana perché si colloca, partendo da contesti di indagine affatto diversi e lontani, nella medesima posizione concettuale: affrontare la sofferenza dei più fragili fra gli uomini, essere con l'altro indipendentemente da ogni "buona ragione" per farlo, è possibile solò in virtù di una forte spinta etica. Purtroppo non possiamo più dare per scontato che questa forte spinta etica possa essere parte dello Spirito del tempo. Ci ricorda Luigi Zoja nel suo recente, inquietante libro La morte del prossimo, che quando nel Levitico ( 19.18) è scritto Ama il prossimo tuo come te stesso, la cultura religiosa ebraica identifica il prossimo in modo molto semplice: la persona che vedi, senti, puoi toccare. Ossia l'altro che ti sta vicino. La novità del Cristianesimo, generosissima ma astratta, è stata il trasformare in prossimo anche l'abitante più lontano della terra. Zoja, che non è un sociologo ma uno psicanalista junghiano, scrive un libro, per me psichiatra di lungo corso, struggente. Un libro in cui è scritto: "E il prossimo? Nel mondo pre-tecnologico la vicinanza era fondamentale. Ora domina la lontananza, il rapporto mediato e mediatico. Il comandamento giudaico-cristiano si svuota. Questa tendenza si sal- da con l'indifferenza per il vicino prodotta dalla globalizzazione, dalla civiltà di massa e dalla scomparsa dei valori tradizionali. Siamo alla soglia di un territorio radicalmente nuovo. Dove la vecchia morale non è più possibile per mancanza di oggetto". (10) Beninteso l'amore cristiano non è il riferimento del libro di Zoja. E solo il simbolo di un'esistenza in cui la vicinanza ' comportava di necessità l'ingresso nella dimensione etica che abbiamo menzionata. L'anziano solo è vittima non soltanto di eventi che lo assalgono dall'esterno e che abbiamo ricordato; ma soprattutto di uno scontro lacerante tra memoria e nostalgia che modifica profondamente la sua struttura dell'Io e lo rende sempre meno accessibile ah"autenticità dell'incontro, al-l'Io-Tu. Per questo motivo le nostre politiche di welfare, orientale dalla teoria dei bisogni, appaiono lontane dall" obiettivo-solitudine. Aiutare l'anziano solo a stabilire nuove e soddisfacenti dinamiche d'incontro e di coesistenza significa invece aderire al suo desiderio, intervenire sulla memoria del Sé, ricostruendo in tal modo un'identità capace di fruire dei nuovi contesti sociali possibili. I nostri Servizi sociali tesi a creare a priori aggregazioni, contatti, presenze organizzative, sono simulacri della Noità e scorrono in superficie, senza riuscire neppure a sfiorare l'essenza della solitudine del soggetto assistito. Ogni solitudine vive infatti una sua specifica sofferenza ed è su questa che occorre preliminarmente intervenire per rendere possibile la soluzione degli specifici problemi esistenziali che la alimentano. Occorre cioè ristabilire, psicologicamente, le premesse dell'incontro; ricostruire su nuove basi, nel nuovo e sfavorevole contesto sociale, le condizioni relazionali che diano all'Io-Tu un significato derivante dal qui-ora e non da astratte comparazioni a standard di vita predefìniti erga omnes, e nei quali nessun anziano può ritrovarsi perché fanno parte di un mondo che non c'è più. In una società individualizzata che ha perduto ogni riferimento autenticamente (e non fittiziamente) comunitario, poco o nulla coinvolta dai grandi temi della sofferenza (che tende a denegare o al massimo ad affrontare con oboli aspecifici e frettolosi), l'anziano deve trovare un nuovo significato dell'esistere e non può farlo se lo lasciamo senza risposte di fronte alla sua solitudine. O, peggio ancora, se gli forniamo risposte mistificanti che nulla mutano della sua interiorità. La relazione psicoterapeutica è qui proposta come un incontro antropologico compiuto, come una chiave di lettura che crei nuovi spazi di identità per il soggetto e che lo prepari ad accogliere la povertà segue a pag. 10 di un mondo che non ha più l'umanesimo nel suo divenire. Ha scritto Davide Sparti nel suo volume L'importanza di essere umani - Etica del riconoscimento (11), un libro di straordinaria e commovente intelligenza, che quando cadiamo vittime dell'impulso all'elusione, quando ad esempio ci neghiamo la possibilità di cogliere la tristezza in un volto (e così non la accogliamo ), noi "abbandoniamo" la nostra umanità, la dimensione espressiva della forma di vita a cui siamo stati iniziati. Ed è proprio perché si danno situazioni in cui lasciamo dietro di noi la nostra umanità, continua Sparti, che la nostra responsabilità verso gli altri viene legata al nostro essere sensibili e "responsivi" verso di loro, cioè alla nostra capacità di rispondere alla presenza altrui come presenza umana. È la stessa conclusione a cui giunge Bauman: "È la secolare decisione di assumerci la responsabilità della nostra responsabilità, la decisione di misurare la qualità di una società sulla qualità dei suoi standard etici, che oggi proponiamo". Se su questo dunque ci interroghiamo, la solitudine dell' anziano nella società attuale non rappresenterà un destino ineluttabile e ci riconosceremo serenamente nella frase che Jacques Lacan scrisse riprendendo Hegel: "II desiderio del- l'uomo trova il suo senso nel desiderio dell'altro".

Nessun commento: