giovedì 30 giugno 2011

mare nostrum : la storia di oggi e' figlia di quella di ieri . L'homo mediterraneus e' la storia della civilta' occidentale. Deve essere recuperata se vogliamo trasformare uno specchio d'acqua in una fonte di civilta'!

Danilo Zolo
L'atlantismo contemporaneo, figlio legittimo di una strategia imperiale, segna una crescente subordinazione politica e militare dell'Europa nei confronti degli Stati Uniti, al cui ombrello nucleare e satellitare gli europei continuano a delegare la propria sicurezza anche dopo la scomparsa del pericolo sovietico. Superato il bipolarismo, la NATO si è convertita in un apparato bellico di portata globale ed è stata utilizzata dagli Stati Uniti per tre finalità strategiche: anzitutto per accerchiare la Russia, arruolando nelle proprie fila un numero crescente di paesi dell'Est europeo da agganciare al baluardo atlantico della Turchia. In secondo luogo, la NATO è stata usata per coinvolgere l'Europa nelle 'guerre umanitarie' nei Balcani e in Afghanistan, in modo da scoraggiare i suoi timidi tentativi di dotarsi di una struttura militare autonoma. Last but not least, la NATO ha consentito agli Stati Uniti di tenere sotto il proprio presidio politico e militare l'area mediterranea, escludendone l'Europa. A quest'ultimo obiettivo obbedisce in particolare il disegno strategico intitolato Broader Middle East and North Africa Initiative (BMNA), varato dall'amministrazione Bush nel giugno 2004 e subito accolto dalla NATO. A favore della "modernizzazione" del mondo islamico e in nome dei "valori universali della dignità umana, della democrazia, dello sviluppo economico e della giustizia sociale" gli Stati Uniti intendono porre sotto il proprio controllo l'intera area che va dalla Mauritania e dal Marocco - dove hanno interessi petroliferi e già dispongono di numerose basi militari - all'Afghanistan e al Pakistan, passando per il Medio Oriente e i paesi del Golfo persico. Isrdunque il caso di chiedersi in che senso, in nome di quali valori e di quali interessi comuni l'Europaaele è pensato come l'architrave di questa strategia 'atlantica' e anti-mediterranea, mentre la questione palestinese resta del tutto emarginata. Com'è naturale, la pressione politica nei confronti del mondo arabo viene accompagnata da iniziative economiche, che si sommano agli ingenti finanziamenti di cui godono da tempo paesi arabi 'moderati' come l'Egitto e la Giordania. Per questo fine è stato avviato, in parallelo a quello del Broader Middle East, un altro progetto, il Middle East Partnership Initiative (MEPI, che prevede finanziamenti per 40 milioni di dollari destinati alle associazioni e ai mezzi di comunicazione di massa, chiamati pudicamente "organi di diplomazia pubblica", favorevoli agli Stati Uniti.. È  può continuare a far parte dell'Occidente e non debba invece puntare su una sua crescente autonomia, su una sua nuova centralità geopolitica come "grande spazio" (Großraum), ispirandosi, come ha suggerito Schmitt, alla concezione originaria della "dottrina Monroe". Si tratterebbe di un'Europa radicata nella sua millenaria cultura, nelle sua radici mediterranee, nella sua capacità di un approccio non fondamentalista ai problemi del dialogo fra le civiltà e della pace mondiale. Non è chiaro perché l'atlantismo dovrebbe essere il destino irreversibile dell'Europa e del Mediterraneo.
Alain de Benoist
A partire dalla seconda guerra mondiale, le relazioni tra Europa e mondo arabo si sono inscritte nella logica della potenza strategica degli Stati Uniti.
Sembra che gli Europei abbiano lasciato agli Americani la gestione del conflitto israelo-palestinese. Poiché la stabilità del mondo mediterraneo dipende fondamentalmente dalla risoluzione di questo conflitto, a Suo parere quale soluzione è possibile? Uno «Stato palestinese» come lo vorrebbe la comunità internazionale ma di cui Israele non vuole ovviamente sentire parlare? Uno Stato unico per ambedue i popoli come suggeriva Martin Buber che però Israele vuole ancora meno?
Danilo ZoloUna condizione essenziale per il recupero dell'unità del Mediterraneo e per la pacificazione del Medio Oriente (e del mondo) è senza dubbio la soluzione della questione palestinese. E questa soluzione ha a sua volta come condizione il superamento della ideologia sionista. L'intera vicenda dell'invasione ebraica della Palestina e della autoproclamazione dello Stato di Israele ruota attorno ad una operazione ideologica che si è incarnata in una strategia politica di lungo periodo: la negazione dell'esistenza del popolo palestinese e quindi la piena disponibilità delle sue terre all'occupazione da parte di Israele. La negazione dell'esistenza di un popolo nella terra dove si intendeva installare lo Stato ebraico è lo stigma coloniale che caratterizza sin dalle sue origini il movimento sionista: un movimento del resto strettamente legato alle potenze coloniali europee e da esse sostenuto in varie forme. Dopo aver a lungo progettato di costituire in Argentina, in Sudafrica o a Cipro la sede dello Stato ebraico, la scelta del movimento sionista cadde sulla Palestina non solo e non tanto per ragioni religiose, quanto perché si sosteneva, assieme a Israel Zangwill, che la Palestina era "una terra senza popolo per un popolo senza terra". Ed è in nome di questa logica coloniale che nel 1948 iniziò l'esodo forzato di grandi masse di palestinesi - non meno di settecentomila - anche grazie al terrorismo praticato da organizzazioni sioniste radicali come la Banda Stern e l'Irgun Zwai Leumi, celebre per aver raso al suolo il villaggio di Deir Yassin e sterminato i suoi 300 abitanti. Ma la 'liberazione' dei territori palestinesi - chiamata dagli israeliani 'guerra di indipendenza' - fu opera soprattutto dell'esercito israeliano, l'Haganah, per volontà dei suoi generali e dei leader sionisti che intendevano espandere i confini dello Stato ben oltre quelli indicati dalle Nazioni Unite. Nel 1949, alla fine della guerra arabo-israeliana, Israele occupava infatti non il 56% dei territori della Palestina mandataria, ma oltre il 78%. Questo accertamento storico - che dissolve i miti e gli stereotipi del nazionalismo sionista e presenta in nuova luce l'intera vicenda dei rifugiati palestinesi - è il clamoroso risultato delle indagini storiografiche compiute da un folto gruppo di 'nuovi storici' israeliani che hanno potuto disporre, a partire dalla fine degli anni settanta, dei documenti degli Archivi di Stato. Ha preso così avvio in Israele, attorno alle università di Beer Sheva e di Haifa, una vera e propria scuola storiografica - ma anche archeologica, antropologica e sociologica - che critica il sionismo e propone una rilancio 'post-sionista' della politica di Israele. Gli esponenti 'revisionisti' più noti sono Avi Shlaim, Simha Flapan, Beny Morris, Tom Segev e soprattutto Ilan Pappe, che si è spinto sino a parlare di "pulizia etnica del 1948". Secondo Pappe la 'pulizia etnica' è stata varata dal governo israeliano, guidato da Ben-Gurion, nel marzo del 1948, con un piano preciso e articolato, il Piano Dalet, di "de-arabizzazione della Palestina". E da allora, egli sostiene, l'epurazione non si è più fermata. La situazione attuale vede ormai l'intero popolo palestinese disperso, oppresso, umiliato, ridotto in povertà e fatto oggetto di una violenza spietata che Israele ritiene proporzionata agli attentati terroristici che ha subito nel corso della prima e della seconda Intifada. Se già alla fine del 1948 Israele occupava il 78% della Palestina mandataria, oggi, dopo la Guerra dei 6 giorni, la occupa al 100%, avendo invaso i territori rimasti ai palestinesi e avendo annesso anche Gerusalemme. L'epurazione etnica è stata via via accompagnata dalla espropriazione delle terre, dalla demolizione di migliaia di case palestinesi, dalla cancellazione di interi villaggi, dall'intrusione di imponenti strutture urbane nell'area di Gerusalemme araba e di Nazaret, dall'abbattimento di centinaia di migliaia di olivi e di alberi da frutta. Ma è soprattutto la vicenda degli insediamenti coloniali nei territori occupati a fornire la prova del buon fondamento dell'interpretazione 'colonialista' del sionismo proposta da Edward Said.

Come spiegare altrimenti il fatto che, dopo aver conquistato il 78% del territorio della Palestina storica, dopo aver annesso Gerusalemme est ed avervi insediato non meno di 180 mila cittadini ebrei, lo Stato di Israele si è impegnato in una progressiva colonizzazione anche di quell'esiguo 22% rimasto ai palestinesi, e già sotto occupazione militare? Come è noto, a partire dal 1968, per iniziativa dei governi sia laburisti che di destra, Israele ha confiscato circa il 52% del territorio della Cisgiordania e vi ha insediato oltre 200 colonie, mentre nella popolatissima e poverissima striscia di Gaza ha confiscato il 32% del territorio, istallandovi circa 30 colonie. Dopo lo sgombero unilaterale della striscia di Gaza, voluto nel 2005 da Sharon, oggi non meno di 400 mila coloni risiedono nei territori occupati della West Bank. Vivono in residenze blindate, collegate fra loro e con il territorio dello Stato israeliano attraverso una rete di strade (le famigerate by-pass routes), interdette ai palestinesi, che segmentano e lacerano i territori occupati. Per tacere delle centinaia di checkpoints, della depredazione delle risorse idriche, della carcerazione o uccisione 'mirata' di leader politici, del milione e mezzo di persone che a Gaza vivono in condizioni disperate, come ha provato, con una analisi agghiacciante, Sara Roy. E a tutto questo, per volontà di Sharon, si è aggiunta la 'barriera di sicurezza' che ha rinchiuso le comunità palestinesi della Cisgiordania in prigioni a cielo aperto. A questo punto, come tentare di risolvere la 'questione della Palestina'? Come riportare la pace fra Israele e il popolo palestinese e, più in generale, fra arabi ed ebrei? Ciò che si può sostenere con sicurezza, assieme a Martin Buber, Edward Said e Ilan Pappe e all'intera scuola dei 'nuovi storici' israeliani, è che il peccato originale dello Stato di Israele è il suo carattere sionista. Il sionismo, grazie al sostegno militare ed economico - tre miliardi di dollari all'anno - degli Stati Uniti e all'omertà dell'Europa, ha fatto dello Stato di Israele una sorta di 'cuneo atlantico' nel cuore del Mediterraneo, ha lacerato la continuità umana, politica e culturale della sua sponda orientale, ha cancellato l'identità di un popolo mediterraneo, trasformandolo in una massa di rifugiati, di epurati e di oppressi. Per questo la 'questione della Palestina' è una questione mediterranea e la soluzione non può essere cercata se non nella direzione del 'post-sionismo'. E questo non può che significare, anzitutto, come auspicava Martin Buber, l'abbandono del carattere etnocratico dello Stato israeliano, la sua piena secolarizzazione e democratizzazione. E comporta, ancora con Buber, l'abbandono dell'idea dei 'due Stati per due popoli', quello ebraico e quello islamico, l'uno giustapposto all'altro. L'idea che oggi sia ancora possibile la formazione di uno Stato palestinese è patetica illusione o crudele impostura, nonostante il suo grande valore simbolico, le giuste aspettative della maggioranza dei palestinesi e il suo pieno fondamento nel diritto internazionale. Gli effetti della discriminazione etnica sono ormai irreversibili: mai uno Stato palestinese degno del nome sorgerà sulle rovine di Gaza e della Cisgiordania. La sola prospettiva, altamente problematica ma senza alternative, è quella di uno Stato israelo-palestinese 'post-sionista', laico ed egualitario, che riconosca eguali diritti a tutti i suoi cittadini.
Alain de Benoist
In libri recenti, Târiq al-Bishrî e Hamadi Redissi dimostrano benissimo come il contatto con l'Occidente abbia prodotto nel mondo islamico un vero «trauma della modernità» (sadmat al-hadatha). Fino alla metà degli anni 1960, le elite arabe e del Vicino-Oriente avevano scommesso tutto sulla modernità forzata. L'impresa è fallita e il fondamentalismo l'ha sostituita. Allo stesso tempo, vediamo chiaramente che la critica alla modernità da parte dei fondamentalisti contiene una fascinazione per essa che non si osa esprimere apertamente. Sapendo che la «modernizzazione» è l'adozione simultanea della società di mercato, dell'ideologia dei diritti umani, dell'individualismo occidentale, della democrazia liberale e dello «Stato di diritto», come vede i rapporti del Sud con la modernità? Cosa pensa dell'atteggiamento di quelli che, giudicando la modernizzazione una necessità, sostengono che il modello occidentale debba essere esportato nel mondo arabo-musulmano?
Danilo Zolo
Ci sono autori che identificano tout court i processi di globalizzazione con la diffusione della modernità occidentale. Fra questi ci sono filosofi e sociologi europei, come Jürgen Habermas, Ralf Dahrendorf, Antony Giddens, Ulrich Beck, per i quali il problema cruciale del nostro tempo non è quello del dialogo e del reciproco rispetto fra le diverse civiltà e culture del pianeta. Il problema principale è l'unificazione del mondo attorno ai valori dell'Occidente, assunti come universali o come universalizzabili. Ciò che si trova oltre il cerchio della modernità occidentale è arretratezza economica, oscurantismo, fanatismo, oppressione. In opposizione a questo punto di vista, per quanto riguarda un possibile dialogo fra l'Europa e la cultura islamica, centrale è il tema del rapporto fra Islam e modernità. Va sottolineato anzitutto che questo rapporto ha tormentato il mondo arabo-islamico sin dagli inizi dell'Ottocento, a partire dalla vittoriosa spedizione di Napoleone Bonaparte in Egitto. La dolorosa esperienza della 'scoperta dell'altro' come potente e come vincitore si è rietuta più volte nel corso dell'era coloniale fra Ottocento e Novecento e ancor di più nella seconda metà del secolo scorso, a causa delle 'umiliazioni' che l'Occidente, direttamente o tramite lo Stato israeliano, ha inflitto al mondo arabo: anzitutto la sconfitta subita nel 1949 da parte delle armate israeliane e, nel 1967, la completa occupazione dei territori palestinesi a conclusione della Guerra dei sei giorni; poi è intervenuto il trauma della guerra del Golfo del 1991 - una sconfitta che Fatema Mernissi ha posto in particolare rilievo -, e infine l'aggressione anglo-americana contro l'Iraq del marzo 2003. Come hanno sostenuto Târiq al-Bishrî e Hamadi Redissi, il 'trauma della modernità' è una lesione che continua a 'destrutturare' e a lacerare il mondo islamico. È quella che Samir Kassir, prima di essere assassinato, aveva chiamato 'la sindrome delmalheur arabe', l'infelicità degli arabi. Le aggressioni coloniali e postcoloniali che i paesi arabi hanno subito, assieme all'oppressione politica ed economica che ne è seguita, hanno introdotto una profonda 'divisione' entro la maggior parte delle istituzioni intellettuali, educative, politiche ed economiche del mondo arabo. L'assoluta superiorità degli invasori, in materia di scienza, tecnica, organizzazione politica e normazione giuridica, ha costretto gli arabi a imparare dai loro nemici e a seguirne le regole. Ciò li ha posti in una situazione paradossale: resistere con tutti i mezzi alle potenze coloniali e nello stesso tempo imitarle per tentare di dare efficacia alla resistenza e di sconfiggerle. Questo ha aperto una profonda frattura nei valori di riferimento della società islamica, divisa fra la fedeltà alla tradizione coranica, da una parte, e la necessità, dall'altra, di 'apprendere dai nemici', allontanandosi da quella tradizione. La frattura ha generato una sorta di schizofrenia che non riguarda soltanto i rapporti sociali all'interno del mondo arabo-islamico, ma che molto spesso colpisce anche le coscienze individuali, tese fra due possibili modelli di esperienza fra loro in larga misura incompatibili.
Alain de Benoist
el vostro libro, Franco Cassano accenna all'opposizione tra due tipi di uomini, che Arnold J. Toynbee descriveva come «Erodiani» e «Zeloti». Gli Erodiani sono quelli che prendono l'Altro come modello e che, sempiterni seguaci e collaboratori, si mettono dalla parte del più forte. Sarebbero oggi gli atlantisti e gli occidentofili. Gli Zeloti sono invece quelli che difendono la loro identità ma in un modo convulso e contratto. Sarebbero oggi i fondamentalisti musulmani. Si può spezzare questa dualità infernale? Sfuggire alla dicotomia «Jihad vs. McWorld»? L'Occidente è capace, secondo Lei, di combattere con efficacia il fondamentalismo islamico senza perdere il suo proprio fondamentalismo che riduce qualsiasi intreccio sociale alla logica di un mercato                   dove tutto nel mondo può essere acquistato?
Danilo Zolo
L'Occidente non può opporsi al fondamentalismo islamico senza prima rinunciare al suo fondamentalismo, che è, essenzialmente, il fondamentalismo del mercato, del profitto, della produzione e del consumo, sostenuto con la forza del potere militare e in dispregio del diritto internazionale. Se è così, la via della pace nel Mediterraneo e nel Medio Oriente passa per la capacità della 'vecchia Europa' di recuperare i suoi valori originari, a cominciare dalla riaffermazione del diritto e delle istituzioni internazionali e della necessità del dialogo e della cooperazione con le altre culture e civiltà, anzitutto con il mondo islamico e quello cinese-confuciano. E la pace internazionale dipende, almeno in parte, dalla capacità dell'Europa di svolgere una funzione di equilibrio strategico in un mondo che tenta di liberarsi dall'unilateralismo imperiale degli Stati Uniti e di darsi un assetto multipolare e policentrico. Si potrebbe sostenere che l'ordine mondiale dipenderà dalla capacità dell'Europa di essere 'europea' e cioè sempre meno atlantica e sempre meno occidentale: un'Europa orientata a svolgere un ruolo autonomo nel medio Oriente e nell'Oriente asiatico. L'emergere di grandi potenze regionali come l'India e la Cina rischia altrimenti di fare del Pacifico il nuovo epicentro egemonico del mondo, emarginando ancora una volta l'Europa, il Mediterraneo e i loro valori. La realizzazione di un mondo meno spietato e violento passa dunque, molto probabilmente, (anche) per una strategia euromediterranea che sia capace di fermare il progetto imperiale 'oceanico' e di aprire una breccia nella compattezza dello schieramento manicheo che oggi divide il mondo: da una parte alcune grandi potenze occidentali che si ritengono portatrici di valori assoluti e legittimate a usare la violenza per tutelarli e diffonderli, e, dall'altra parte, i paesi islamici dove le armate 'cristiane' possono impunemente fare strage di decine di migliaia di persone innocenti e decidere l'impiccagione dei nemici aggrediti e sconfitti. Nella sua attuale subordinazione atlantica l'Europa, dimentica delle sue radici mediterranee, subisce una grave amputazione, che è all'origine della sua incapacità autocritica, della sua debolezza identitaria, della sua impotenza come attore politico internazionale. L'Europa è costretta a pensarsi come 'Vecchia Europa', e cioè come una fase superata dello sviluppo storico che ha portato all'affermazione della civiltà occidentale. E in questa prospettiva, salvo la sua arretratezza politica e militare, l'Europa tende a identificarsi con gli Stati Uniti e a condividerne la peculiare concezione della modernità', con al centro l'individualismo estremo, la pulsione acquisitiva, la competizione, l'efficienza produttiva e la crescita economica, con l'inevitabile corollario della devastazione dell'ambiente.
Alain de Benoist
Il vostro libro si chiama L'alternativa mediterranea. In che senso (e rispetto a cosa) il Mediterraneo costituisce un'alternativa nel mondo odierno? A quali condizioni essa si potrebbe realizzare?

Danilo ZoloL'unità, l'originalità e la grandezza civile del 'pluriverso' mediterraneo sono un patrimonio storico e politico che oggi rischia di essere cancellato, sopraffatto com'è da strategie 'oceaniche' - universalistiche e 'monoteistiche' - che minacciano non solo la convivenza fra i popoli mediterranei, ma anche l'ordine e la pace internazionale. Per 'alternativa mediterranea' si può dunque intendere il tentativo di resistere, facendo leva su un recupero della tradizione e dei valori mediterranei, alla deriva universalistica e 'monoteistica' che viene dall'Occidente estremo - gli Stati Uniti d'America - e si abbatte con violenza sul vecchio mondo. L''alternativa' è denunciare e contrastare il fondamentalismo neo-imperiale - aggressivo e bellicista - che si propone di recidere ogni rapporto fra le due rive del Mediterraneo, subordinando l'Europa allo spazio atlantico e sottoponendo il mondo arabo-islamico ad una crescente pressione politica, economica e militare. È il caso di aggiungere che l'idea di una 'alternativa mediterranea' che qui è stata tratteggiata si ispira alla scuola di Algeri e alla lezione braudeliana non solo per il rifiuto di ogni riferimento unilaterale e apologetico alla tradizione romana e cristiano-cattolica, ma anche per la diffidenza 'realista' verso una visione nostalgica o romantica del Mediterraneo. La mitologia dell'età dell'oro greco-romana finisce per applicare il paradigma 'orientalista' al Mediterraneo stesso, facendone un prezioso fossile della protostoria occidentale, senza prospettive se non quelle del piccolo cabotaggio turistico-commerciale. Predrag Matvejević non ha torto quando insiste nel denunciare il passatismo retrospettivo di molta letteratura mediterranea, che sembra riferirsi agli antichi splendori imperiali - o alla dolcezza del clima, o ai paesaggi pittoreschi - come alle sole possibili fonti della propria legittimazione intellettuale, e non ha energie per concepire un progetto innovativo. L''alternativa mediterranea' che viene qui proposta vorrebbe valorizzare, piuttosto, la cultura del limes, dei molti Dei, delle molte lingue e delle molte civiltà, del 'mare fra le terre' estraneo alla dimensione monista, cosmopolitica e 'umanitaria' delle potenze oceaniche. Resta tuttavia una condizione essenziale perché il progetto di revisione e di rilancio della cooperazione mediterranea possa avere un minimo successo: è necessaria un'incisiva trasformazione del rapporto fra il processo di unificazione dell'Europa, la sua appartenenza all'emisfero occidentale e le sue radici mediterranee. Oggi l'Europa, nella percezione diffusa degli europei e non solo nella ideologia dei neocon statunitensi, è la periferia sud-orientale dello spazio atlantico, mentre il centro è saldamente ancorato alla Statua della libertà. L'Europa unita ha oggi una popolazione che è più del doppio di quella statunitense ed è quattro volte quella del Giappone. È la prima potenza commerciale del mondo e il suo Prodotto interno lordo è pari a un quarto del Prodotto interno lordo mondiale. Ma sul piano politico e militare l'Europa è inesistente: è semplicemente la frontiera che separa l'emisfero occidentale dall'oriente asiatico e dal mondo islamico. E l'Europa è sempre più in ritardo sul quadrante di una storia contemporanea che l'energia distruttiva e innovativa del 'nuovo mondo' americano ha spinto verso una mutazione continua. Ed è naturale che l'ideologia politica e militare dell''atlantismo' continui a raccogliere forti consensi in Europa, soprattutto nell'area anglosassone e nell'Est europeo, che hanno avuto deboli interazioni con le culture fiorite sulle sponde del Mediterraneo, quella arabo-islamica in particolare.

*Fonte:  Éléments, 129 (Été 2008), pp. 26-32. Traduzione delle domande dal francese all'italiano a cura di Benoît Challand.

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