sabato 21 settembre 2013

read key : psicologia uomo : Identità urbane: pratiche, progetto, senso dei luoghi

Il tema dell’identità è diventato un tema ricorrente in campo urbanistico e nella pianificazione territoriale, tanto da porlo spesso come obiettivo delle politiche urbane e territoriali. E’ un tema ricorrente nella ricerca scientifica, nei dibattiti pubblici, nelle politiche urbane.
Questo costituisce allo stesso tempo un segnale e un rischio.
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E’ un segnale perché evidenzia il dispiegamento di una serie di processi trasformativi estremamente forti che stanno cambiando radicalmente il volto delle nostre città, fatto che si risente molto nelle città italiane, particolarmente radicate nella propria identità storica e culturale, ma di cui non sono assolutamente immuni molte realtà europee o extraeuropee (Porter, Shaw, eds, 2008). Si tratta sia di trasformazioni estremamente veloci, per lo più legate a grandi interventi pubblici o a grandi operazioni immobiliari e finanziarie, sia di trasformazioni apparentemente più lente, ma che ugualmente determinano un radicale cambiamento non solo urbanistico o territoriale, ma anche sociale e culturale.
Tra le prime, ad esempio, basta ricordare i grandi interventi sulle cosiddette “centralità” a Roma, gli interventi in zona Garibaldi a Milano o gli interventi sulle Spine e per le Olimpiadi invernali a Torino, dove spesso gli interventi e le politiche pubbliche assecondano le grandi operazioni immobiliari. Interventi che, non solo cambiano radicalmente e direttamente il volto della città, ma – come tutti i meccanismi di valorizzazione economica – determinano trasformazioni indirette ancor più radicali, influendo sull’andamento del mercato immobiliare e causando i grandi processi di espulsione della popolazione e di trasformazione sociale (con il connesso, spesso doloroso, fenomeno degli sfratti). Ma gli esempi potrebbero essere tanti.
Tra le trasformazioni apparentemente più lente ricordiamo i grandi processi di gentrification, anche in questo caso fortemente determinati dai meccanismi di valorizzazione economica della città e dal conseguente andamento del mercato immobiliare, ma anche dai cambiamenti nei modelli di vita e di abitare (la ricerca, ad esempio, da parte della media borghesia, di contesti urbani fortemente qualificati e caratterizzati proprio da identità urbane radicate e da un certo contesto di relazioni sociali). Ne sono stati interessati non solo i centri storici, ma anche vaste aree consolidate e fortemente caratterizzate dal punto di vista dell’identità urbana e sociale, come alcuni quartieri operai o i quartieri della prima cintura. Ne sono esempi, a Roma i quartieri San Lorenzo, per un verso, e Pigneto, per l’altro. Ma, sempre con riferimento a Roma, stanno cambiando identità anche i quartieri abusivi (anzi ex-abusivi) di pasoliniana memoria o quelli dove si sono concentrate le lotte per la casa negli anni ’70, ormai diventati quartieri consolidati e riqualificati, impropriamente considerati periferici, luoghi di identità molto forti, “rivendicate” e “difese”.
I problemi legati all’identità esplodono proprio in quei contesti urbani dove “si perde l’identità”, dove le tensioni trasformative sono più forti e si traducono in conflitti accesi. Tant’è che la presenza di importanti e significativi movimenti urbani e la formazione di comitati e associazioni locali sembrano spesso, più che (o non soltanto) l’espressione di un tessuto sociale attivo,  consistente e radicato in culture e dinamiche preesistenti, il segnale di quanto questo tessuto si senta minacciato e reagisca in qualche modo alle trasformazioni che sente sempre più incalzanti e inarrestabili. Ne sono esempi il quartiere San Salvario a Torino, il quartiere Isola a Milano, il rione Monti a Roma, San Berillo e il Quartiere Fiera a Catania, il Quartiere Brancaccio a Palermo, ecc. (Cellamare, Cognetti, 2007).
Allo stesso tempo la questione dell’identità diventa un rischio quando viene posta in termini di conservare/salvaguardare un’identità, di politiche localistiche (che poi danno origine, estremizzando, ad atteggiamenti razzisti e che non accettano le diversità), di disegnare lo sviluppo di un territorio a partire da un’identità predefinita. Mi è capitato in diversi seminari di incontrare studenti che mi chiedevano come sviluppare una pianificazione territoriale sulla base di un’identità, a partire da un’identità storicamente consolidata, al limite di “pianificare un’identità”. E’ chiaro che qui siamo ai limiti di una “pianificazione sociale” che, estremizzando, potrebbe diventare coercitiva. L’identità non si pianifica, anche se è vero che una pianificazione, come una qualsiasi politica pubblica, nel bene o nel male, induce un certo tipo di identità. Ancor più pericolosa è la situazione in cui l’identità è utilizzata in termini strumentali all’interno di processi politici ambigui.
Se, da una parte, è vero che questa è sempre più una “società senza memoria” o che progetta senza memoria (Decandia, 2004), dall’altra è anche vero che i problemi si pongono nel momento in cui si trasforma l’identità in un oggetto che vive di vita propria, in cui si reifica l’identità, estraendola ed astraendola dal processo che la determina. L’identità è infatti l’esito, indefinibile a priori, di un processo evolutivo nel tempo, è essa stessa un processo evolutivo nel tempo,  sia nei termini della sua formazione sia nei termini della sua evoluzione nel tempo. L’identità è il prodotto di una narrazione urbana continua.
Essa quindi, intrinsecamente, non rimane sempre uguale; per sua natura cambia. I problemi si pongono quando queste trasformazioni hanno effetti sociali e culturali stravolgenti per le popolazioni che li vivono, quando queste trasformazioni sono estranianti, eterodirette e guidate esclusivamente da obiettivi economici, quando queste trasformazioni sfuggono a qualsiasi interpretazione critica.

Identità e contesti urbani

La conformazione degli spazi influisce fortemente sull’identità, ma analogamente i processi sociali e culturali conformano gli spazi. Si tratta di un rapporto biunivoco, ben rappresentato da Simmel (1908) che va anche oltre la locuzione “fatti sociali formati nello spazio” (Bagnasco, 1994) che ha poi avuto fortuna in Italia negli anni ’90 ma che ancora interpreta lo spazio come uno “sfondo” o che comunque mantiene separate le due dimensioni, quella spaziale e quella sociale. Simmel interpretava infatti la spazialità come un attributo dei processi sociali, come una proprietà intrinseca dei fenomeni sociali, che non si danno se non spazialmente. In alcune splendide pagine de Lo spazio e gli ordinamenti spaziali della società (1908), Simmel considera lo spazio come una condizione di esistenza delle organizzazioni sociali; non come un fatto oggettuale ma come una proprietà delle società. La definizione dello spazio come a priori logico percettivo, permette di considerare questa dimensione non come qualcosa di cui si fa esperienza, ma come un modo di fare esperienza. Lo spazio non è mai un aspetto oggettivo, ma, come dice Simmel, un’attività dell’anima, contemporaneamente condizione (ciò che limita, vincola) e simbolo (cioè la creatività, la costruzione sociale) dei rapporti tra gli uomini (Mandich, 1996, p. 38), esito quindi di un’ambiguità e di un intreccio: “il rapporto con lo spazio è soltanto da un lato la condizione, dall’altro il simbolo dei rapporti con gli uomini” (Simmel, 1908, p. 580). Lo spazio non è, “di per sé”, una forma, ma produce forme nello strutturare i rapporti di interazione. Le forme spaziali sono quindi quelle configurazioni di relazioni sociali che trovano nello spazio la loro concretizzazione. Le società si configurano spazialmente; in un intreccio inestricabile tra fisicità degli spazi, rappresentazioni sociali, pratiche di vita, immaginari, ecc. (Cellamare, 2008).
Analogamente non è possibile definire in forma deterministica un’identità, così come non è possibile associare in forma deterministica un’identità definita (e bloccata nel tempo) ad un contesto urbano definito.
La città è una città plurale. E’ realtà plurale, per eccellenza. L’identità sociale e urbana che si costituisce localmente è in realtà plurima, esito dell’interazione di soggetti e processi diversi, che sono a loro volta portatori e produttori di identità diverse. L’identità di un contesto urbano, di un “quartiere”, è la stratificazione di identità diverse, comprese sia quelle “prodotte localmente” sia quelle definite o imposte dall’esterno in relazione alle immagini che si hanno di quel contesto.
La stessa idea di “quartiere” viene qui messa in tensione, come alcuni sociologi urbani (Tosi, 2001) tendono a sottolineare. Un “quartiere” non è dato a priori, ma è un grumo di storie, di nodi di reti, di conformazioni spaziali, di pratiche, ecc. con un’identità plurima ed evanescente. Per questo, sebbene esista nel senso comune, non è facilmente identificabile come tale, come entità reificata. Sebbene alcune conformazioni spaziali (il tessuto urbano, le tipologie edilizie prevalenti, le fasi storiche che hanno portato alla sua costruzione, ecc.) possono essere identificate e definite anche chiaramente, e spesso costituiscono il riferimento per la vita degli abitanti o dei suoi frequentatori, un “quartiere” rimane difficile da definire.
Se prendiamo in considerazione il rione Monti, nel centro storico di Roma [fig. 1], e chiediamo a soggetti diversi di individuarlo e perimetrarlo, non otterremo risultati omogenei o coincidenti. E tale diversità non si pone solo tra gli abitanti del rione ed il resto della città, ma anche tra gli abitanti stessi.
L’identità evolutiva dei quartieri è ben studiata e documentata, ad esempio, dai lavori di PeriMetroLab, un laboratorio di studio e ricerca sulle periferie metropolitane dell’Università Bicocca di Milano (Zajczyk et al., 2005; Borlini, Memo, 2008), che sviluppano un’interessante riflessione sulle “traiettorie” dei quartieri; di come, cioè, i quartieri nati con alcune caratteristiche urbane e sociali siano evoluti nel tempo sotto la pressione di fenomeni diversi e tutt’oggi abbiano davanti a sé percorsi differenti in relazione ai processi di valorizzazione, di trasformazione urbana, di pressione sociale, di andamento del mercato immobiliare, di rappresentazioni sociali prodotte, ecc..
Analogamente, gli sforzi di identificare alcuni “quartieri” prevalentemente attraverso parametri di tipo morfologico o funzionale, o al più di frequentazione d’uso, risultano generalmente insoddisfacenti perché semplificano, perdendola, la complessità dei fenomeni, della vita e delle relazioni che portano alla costituzione dei “quartieri” come tali .

Pratiche urbane e senso dei luoghi
Alla stregua della memoria e delle identità storiche, che giocano un ruolo particolarmente importante soprattutto nei contesti urbani storici o consolidati, le pratiche urbane sviluppate nella vita quotidiana non sono meno rilevanti nella formazione delle identità urbane dei diversi contesti della città. Le pratiche urbane, ed in particolare le diverse forme di appropriazione materiale e simbolica degli spazi, sono fattori costitutivi e costruttivi dell’identità. Nella considerazione delle identità urbane dobbiamo cioè tenere in prima considerazione tutti quei processi che caratterizzano la “produzione della città”, pratiche che costituiscono la “scrittura della città” (de Certeau, 1990), e che vanno a definire il “senso dei luoghi” (Cellamare, 2008).
Piazza Madonna de’ Monti, la piazzetta del rione Monti, unico vero spazio pubblico del quartiere, ha assunto un valore particolarmente significativo per quel contesto urbano non solo per il suo valore storico-culturale-architettonico e di ambiente, ma anche per le vicende che l’hanno attraversata, le battaglie che gli abitanti hanno fatto per pedonalizzarla, e le pratiche che la caratterizzano fortemente, diverse a seconda dei soggetti coinvolti e in alcuni casi anche conflittuali [fig. 2]: luogo di incontro e di scambio per gli abitanti, luogo di tutte le principali feste e di tutti i principali eventi pubblici, comprese le assemblee e le discussioni pubbliche, luogo piacevole per i turisti, luogo di ritrovo per molti romani e per chi lavora a Monti e nelle altre aree limitrofe, luogo-immagine del cinema, luogo-immagine della popolanità del rione e del centro storico per gli abitanti di più vecchia data, luogo di riferimento per chi è dovuto andare via, luogo di riferimento per la comunità ucraina (perché qui si trova la parrocchia cristiana ucraina di Roma) che qui si ritrova per le grandi celebrazioni (i battesimi, la Pasqua ortodossa, ecc.) ma anche per incontrarsi e ritrovarsi, luogo di “valorizzazione” per i commercianti, ecc.

Alcune questioni relative al rapporto città-identità-progetto

Identità e pianificazione
Se è vero, come si diceva, che l’identità non si pianifica, è anche vero che la pianificazione così come le politiche urbane incidono fortemente sulla formazione delle identità urbane. Riprendendo alcune considerazioni precedenti, si può notare come il nuovo piano regolatore di Roma, così come alcune leggi regionali e alcune delibere comunali sul commercio, forniscono una serie di indicazioni e inducono una serie di trasformazioni che possono cambiare e cambiano radicalmente l’identità del centro storico. Alcuni cambi di destinazione d’uso in alcuni piani e in alcuni tessuti, la politica dei “salotti di Roma” e le occupazioni di suolo pubblico (Cellamare, 2007; Allegretti, Cellamare, 2008) , la valorizzazione economica degli spazi pubblici, lo sprawl dei bed&breakfast e delle altre forme di accoglienza turistica a basso costo senza criteri e valutazioni di carattere urbanistico, e altre situazioni analoghe hanno determinato una minuta, ma diffusa e consistente trasformazione del centro storico di Roma, di fatto assecondando alcune dinamiche già esistenti e che hanno origini più lontane nel tempo, ma che assumono in questo modo caratteri e portate ben differenti. Per molti attenti osservatori, il centro storico può essere interpretato come un “distretto del turismo e del commercio”, forse il principale a Roma.
Siamo qui di fronte al tradizionale snodo tra politiche conservative e politiche trasformative, che sempre ha attraversato l’urbanistica.
Ad una scala territoriale, questi elementi hanno spesso interessato il dibattito sullo sviluppo locale. Così come negli anni ’70 e ’80 molte ricerche e molte politiche territoriali si sono soffermate e si sono basate sull’idea delle “vocazioni territoriali”, guidate dalle caratteristiche ambientali e dalle identità territoriali.
In questo senso, bisogna usare con attenzione e con prudenza un’idea e uno strumento come lo “statuto dei luoghi” (Magnaghi, 2000) che, se da una parte, rimanda a quegli elementi fortemente caratterizzanti un territorio in termini non solo ambientali e di stratificazioni storiche ma anche di relazioni costitutive nel rapporto tra uomo, società e ambiente, dall’altra rimanda agli interrogativi su chi e come decide quale è l’identità e su come questa dimensione entra nei processi decisionali e nelle scelte di pianificazione. Il tema dell’identità rimanda evidentemente alle forme della democrazia e all’idea di cittadinanza, anche nei suoi risvolti più concreti, dove il coniugare polis e civitas diventa scelte collettive, culture politiche ed economie urbane e territoriali.

Identità e immaginari urbani
Non bisogna sottovalutare le dimensioni immateriali che influiscono sulla formazione delle identità (ed anche sul progetto urbano). In particolare, si deve sottolineare la rilevanza degli immaginari urbani e delle rappresentazioni sociali, sia quelle prodotte localmente nell’ambito delle collettività interessate, sia quelle prodotte in contesti più allargati riguardo ad ambiti specifici. Ovvero, detto in parole più semplici, quello che la città pensa di un certo quartiere, l’idea che spesso il senso comune dà di un certo luogo. Anche qui bisogna considerare come i processi siano piuttosto complessi nel passaggio dalle condizioni esperite alla costruzione di rappresentazioni sociali prodotte localmente, alla formazione di un senso comune, al rapporto con un’immagine definita in un altrove e spesso imposta attraverso i mezzi di comunicazione, anche nella loro evoluzione temporale. Pensiamo a come abbiano pesato le vicende della banda della Magliana nella costruzione degli immaginari legati a quel contesto, o quelle del “gobbo del Quarticciolo” (vere o false che siano, costruite e sostenute dalla stessa collettività locale) rispetto all’immagine che ancora permane di quel quartiere. O ancora l’idea di “popolanità” di cui si fregiano ancora alcuni rioni storici di Roma, come Monti o Trastevere, sebbene attualmente (e non solo attualmente) questa immagine sia molto discutibile o venga filtrata attraverso ben altre dinamiche. Tali immaginari urbani comportano quindi notevoli ambiguità.
Per altri versi, bisogna sottolineare le stigmatizzazioni che hanno subito numerosi quartieri, e soprattutto quelli di edilizia economica e popolare costruiti negli anni ’70 e poi ancora negli anni ’80. Pensiamo a quelli che vengono regolarmente citati come lo ZEN di Palermo (Fava, 2008) o, a Roma, Corviale, Laurentino 38 e Tor Bella Monaca. O analoghi quartieri considerati degradati o malfamati; e che difficilmente possono levarsi di dosso una certa immagine, sia essa giustificata o meno. Non è un caso che, al Corviale di Roma, un importante progetto di riqualificazione, Immaginare Corviale (Gennari Santori, Pietromarchi, a cura di, 2006), abbia posto al centro dell’attenzione, oltre allo studio delle pratiche reali e delle condizioni d’uso del complesso di edilizia residenziale pubblica, proprio gli aspetti legati alla costruzione dell’immagine del quartiere e alla possibilità di pensarlo diversamente o di farlo pensare diversamente a chi non lo vive, anche ai fini di una progettazione degli interventi fisici di riqualificazione. Nell’ambito del progetto è stata attivata una televisione locale, Corviale Network, che – tra le altre cose – aveva lo scopo di far raccontare agli abitanti le situazioni, le condizioni di vita e la rappresentazioni che loro avevano del proprio complesso residenziale, anche al fine di mettere in discussione l’immaginario che la città ha di quel posto. Un indicatore dell’ambiguità di questo immaginario è dato dal fatto che gli abitanti dei quartieri ex-abusivi limitrofi criticano le politiche pubbliche, in quanto ritengono che favoriscano troppo Corviale (proprio perché se ne parla così tanto e ha un certo immaginario associato) in rapporto a quelle che sono invece le loro esigenze e necessità, considerate più gravose che non quelle del quartiere pubblico.
Esistono immaginari associati a quartieri “ghetto” così come immaginari associati alle gated communities o ai quartieri considerati benestanti. E questo influisce significativamente sulla formazione del mercato immobiliare e del valore delle aree e degli immobili. Pensiamo al fatto che negli Stati Uniti gli abitanti di un certo stabile svolgono una selezione sui potenziali nuovi inquilini, valutando se adeguati alle caratteristiche della loro abitazione. Così come, spesso, le persone selezionano il proprio luogo di residenza proprio sulla base della sua “identità urbana”, comprendendo sia gli aspetti materiali e logistici, sia le condizioni sociali e di vita, ma anche evidentemente l’immaginario ed il modello di vita ad esso associati.
Il rione Monti, ad esempio, è particolarmente ambito da una fascia medio-borghese, comprensiva di professionisti ed intellettuali, che cercano in quel quartiere proprio il suo carattere “popolano”, dove la dimensione umana è ancora significativa ed il tessuto sociale sembra tenere; un modello di vita molto ricercato in un mondo dove lo stress e le condizioni di vita ordinaria sembrano cancellare questa dimensione. Salvo determinare, proprio per questo, il cambiamento di quella identità (per la quale peraltro si battono vigorosamente) inducendo un aumento dei valori immobiliari (tra la metà degli anni ’90 e gli inizi del 2000 il costo della casa è passato da 3.000-5.000 €/mq a 10-12.000 €/mq) con gli effetti che ne derivano e che innescano potenziali situazioni di gentrification: sfratti, allontanamento del tessuto sociale tradizionale, chiusura delle botteghe artigiane, aumento degli esercizi pubblici che si possono permettere affitti elevati, aumento dei “tavolini” e della “movida” notturna, ecc., ecc..
Alcuni studiosi (Semi, 2004) ci fanno notare, in proposito, riferendosi alle attività commerciali che caratterizzano alcuni quartieri, come la loro localizzazione sia in un rapporto strettamente biunivoco con l’identità di un quartiere. Anzi, sottolineano come con i prodotti venduti “si venda” anche l’immagine che di quel quartiere si ha.
La città, e quindi la sua identità, è l’esito imprevisto, imprevedibile, eventuale dell’interazione (anche conflittuale) tra pratiche, politiche, immaginari, “idee di città”, vissuti configurati nello spazio (Cellamare, 2008).

Brand urbani e immaginari venduti
Le dimensioni immateriali sono particolarmente rilevanti oggi perché le iniziative immobiliari tendono a vendere non solo un’abitazione, ma anche un vero e proprio modello di abitare e un’identità urbana, o almeno gli immaginari relativi, che spesso non corrispondono poi alla realtà, come possiamo notare in molte espansioni urbane recenti a Roma (ad esempio, Bufalotta-“Porte di Roma”), proposte come altamente qualificate, in termini sia di qualità edilizia ed urbana, sia  di attrezzature e attività commerciali presenti, sia di modelli di vita. Le attività di promozione e marketing urbano costituiscono oggi un motore potente nello sviluppo della città e propongono veri e propri brand urbani. Non che questo non esistesse nel passato, ma la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa ne ha reso particolarmente rilevante la portata. Analogamente, anche le politiche urbane, favorendo alcuni modelli insediativi ed alcune operazioni immobiliari piuttosto che altri influiscono fortemente sugli immaginari urbani. La politica delle “centralità urbane” del Comune di Roma ne è un esempio. Incentrate intorno ad un polo di servizi ed attrezzature di livello urbano e metropolitano e ai complessi residenziali contermini, le centralità, collocate dal nuovo piano regolatore per lo più a cavallo del Grande Raccordo Anulare, dovevano costituire il sistema per realizzare il policentrismo e riqualificare le periferie. In realtà, si è trattato di grosse operazioni finanziarie e immobiliari gravitanti attorno ad un centro commerciale (ed eventuali attrezzature per il tempo libero connesse) che ben poco hanno riqualificato le periferie esistenti, da cui sono separate dai nuovi pesanti sistemi infrastrutturali, dal complesso esteso dei parcheggi e dal carattere di grandi attrezzature e strutture edilizie fuori scala. Inoltre, hanno determinato la morte di gran parte delle attività commerciali al minuto con effetti estremamente negativi sui tessuti sociali di vaste aree urbane. Non solo quindi non è stato raggiunto l’obiettivo, ma anzi se ne sono avuti effetti negativi ed è aumentata la dipendenza. Inoltre, è stato promosso un modello di città apparentemente di più alto livello rispetto ad uno considerato di più basso livello. Città di serie A e città di serie B.
Nella zona di Saxa Rubra, è stato, come noto, realizzato il Centro RAI in occasione dei Mondiali di calcio di Italia ’90 [fig. 3]. L’area era una ex-zona protoindustriale in via di dismissione, intorno alla quale era cresciuta una piccola borgata abusiva composta per lo più da persone immigrate dall’Abruzzo e marginalmente dalle Marche. Una borgata/quartiere dignitosa [fig. 4], costruita di fatto dai suoi stessi abitanti, che viveva delle attività produttive presenti e che percepiva di avere un ruolo all’interno della città. La realizzazione del Centro RAI ha spazzato via le attività produttive preesistenti senza instaurare alcun rapporto costruttivo con la realtà della borgata/quartiere limitrofa di Ponte di Castel Giubileo. Il centro RAI è emblematico di un diverso modello di abitare, fondato su grandi attrezzature che si relazionano a livello sovralocale, in molti casi a scala metropolitana, connesso da grandi sistemi infrastrutturali e dai grandi sistemi di comunicazione (in questa fase di espansione è molto più importante essere “connessi” che non essere “vicini”), cui corrisponde una residenza fatta di villini e complessi residenziali nel verde (privi di spazi pubblici e di una vita collettiva), connessi a grandi attrezzature per il tempo libero e a grandi centri commerciali, e quindi profondamente legati alla mobilità privata su gomma. Nella borgata/quartiere prevale invece la logica della prossimità, con i servizi commerciali al dettaglio, dove le persone si muovono per lo più a piedi su raggi limitati, creando spazi pubblici e luoghi di incontro collettivo. Ovviamente mancano molti servizi ed attrezzature ed anche le grandi infrastrutture, di cui sono avvantaggiati, di fatto li tagliano fuori, isolandoli, dal resto della città. All’interno di questa situazione, e di questa dinamica prevalente, il quartiere/borgata risulta marginalizzato più che nel passato e sente venir meno il proprio ruolo urbano che pure aveva, con l’effetto di risultare e percepirsi più periferia che nel passato. Sebbene il modello di abitare comporti relazioni sociali più intense, un rapporto collaborativo e solidaristico (per non usare la parola abusata di “comunitario”) e maggiori spazi collettivi, gli abitanti si percepiscono “perdenti” rispetto al modello prevalente rappresentato dal Centro RAI. Tale è la situazione, ed il suo peso sull’identità locale, che gli abitanti che chiamavano originariamente quel luogo “Due case” (che erano i due casali residui della campagna romana fondati su precedenti costruzioni romane) e che poi avevano assunto la denominazione di “Ponte di Castel Giubileo” in relazione alla toponomastica del luogo, ora si autodefiniscono “Saxa Rubra” che è invece la denominazione del Centro RAI, estesa alla zona limitrofa.


Identità imposte
Spesso, nelle città, vengono imposti modelli insediativi e abitativi ed idee di città che poi vanno a costituire le identità urbane locali. Lo abbiamo notato per quanto riguarda la città costruita dal mercato, lo possiamo facilmente riconoscere nella città pubblica, costruita dallo Stato. Ancor più evidenti, in questi casi, i modelli e le utopie del moderno che venivano tradotte in edifici e tessuti urbani nell’importante fase degli anni ’70 e ’80 dell’edilizia economica e popolare, e di cui sono un emblema realizzazioni come quella di Corviale a Roma.
In un interessante studio sull’abitare a Milano (AIM, 2006), si fa notare come l’abitare non sia più una scelta, ma sia di fatto molto condizionato dalle situazioni urbane e dalle dinamiche del mercato immobiliare.
Emblematica la situazione al quartiere Librino di Catania, nella periferia sud-ovest della città, tra la città consolidata e l’aeroporto. Quartiere di edilizia economica e popolare pianificato negli anni ’70 e ancora in costruzione e progressivo lento completamento, Librino in realtà è composto di diverse parti, comprendenti non solo l’edilizia pubblica, ma anche quella delle cooperative, oltre ad alcuni nuclei storici, ex casali agricoli (tutto il territorio era precedentemente un vasto agrumeto), ecc.. E’ interessante però proprio la parte pubblica che si sta ancora realizzando sulla base di un piano di Kenzo Tange, che prevedeva (e prevede) la realizzazione di una serie di comparti completamente autonomi, dotati di complessi residenziali intensivi e massivi (torri o grandi edifici in linea di molti piani e ad alta densità abitativa), di un proprio centro commerciale e, nell’ipotesi iniziale, dei servizi necessari. I comparti sono collegati da un sistema viario molto ampio, composto da strade a quattro corsie tracciate esternamente alle aree residenziali e che di fatto costituiscono una sorta di confine/separazione tra i diversi comparti. Infine, tra i comparti si dovevano realizzare alcune spine/cunei verdi, veri e propri parchi pubblici appoggiati ai corsi d’acqua presenti. Si noti che il piano non permette la realizzazione di attività commerciali ai piani terra degli edifici, per lo più realizzati a pilotis o destinati a locali di servizio. Nel complesso ne viene disegnato un modello di abitare che ben poco ha a che vedere con la cultura catanese. Se si considera, poi, che i servizi non sono stati realizzati o completati, salvo alcune scuole (che di fatto costituiscono uno dei pochi luoghi qualificati e collettivi di tutto il quartiere), e che le aree verdi sono ben lontane dall’essere trasformate in aree attrezzate, il quadro che ne risulta è particolarmente desolante. La presenza cospicua della malavita organizzata e dello spaccio della droga sembra una conseguenza quasi scontata ed inevitabile di un tale modello insediativo e abitativo. Ed altrettanto inevitabile la stigmatizzazione, l’identità e l’immaginario urbano che ne derivano e vengono subiti.
È interessante però notare che gli abitanti hanno progressivamente instaurato alcune piccole trasformazioni, oltre ovviamente a numerosi interventi abusivi sull’edilizia residenziale [fig. 5]. In primo luogo, sono stati realizzati alcuni piccoli negozietti, per lo più piccoli spacci alimentari, nelle zone pilotis, o chiudendo abusivamente gli spazi esistenti o trasformando in questo senso alcuni locali di servizio. Intorno a questi piccoli punti di riferimento, luogo di frequentazione a piedi degli abitanti dei caseggiati limitrofi , spesso collocati anche in prossimità dei passaggi pubblici per gli accessi alle parti residenziali, si sono costituiti dei piccoli spazi “attrezzati”. Ovvero spazi dove gli abitanti hanno collocato qualche sedia di plastica (se non addirittura qualche panchina fatiscente) o qualche pianta verde [fig. 6]. Sono questi alcuni “spazi pubblici”, di fatto autocostruiti, ma anche gli unici significativamente presenti. Così come, sempre in autonomia, gli abitanti hanno realizzato in proprio alcuni spazi verdi attrezzati con i giochi per i bambini, in ritagli dei parcheggi o delle aiuole all’interno degli spazi di pertinenza dei complessi abitativi. Sempre in questi spazi di pertinenza sono stati realizzati, in alcuni casi, oltre alle tradizionali ed immancabili cappelline votive, anche orti o gabbie per animali domestici o da pollaio. Vengono qui allevati anche cavallini. Infine, i cunei verdi sono attraversati da sentieri e percorsi battuti che mettono in comunicazione trasversalmente i comparti [fig. 7], evitando l’obbligo all’utilizzazione dell’auto anche solo per andare a trovare parenti e conoscenti che abitano in un comparto limitrofo, o che permettono ai bambini di andare a scuola direttamente a piedi. Si disegna così una geografia di pratiche e comportamenti completamente diversa da quella della città imposta. Una città parallela, diversa dalla città pianificata.
Questo spinge ovviamente a molti interrogativi su come alcuni modelli abitativi e alcune identità emergenti e potenzialmente molto significative e radicate siano soffocati e abbiano difficoltà a consolidarsi ed affermarsi. Le pratiche urbane contengono molta progettualità e potrebbero essere un utile e fondamentale riferimento per qualsiasi progettazione finalizzata alla riqualificazione urbana.

Conclusioni

L’opportunità di una riflessione interdisciplinare ci spinge ad interpretare l’identità in termini di un processo evolutivo, come suo esito “eventuale”, in cui interagiscono componenti ambientali, urbane, sociali e culturali. Abbiamo visto come su questo incidono non solo le componenti legate alla memoria e all’identità storica, ma anche quelle legate alle pratiche urbane, alle forme di appropriazione materiale e simbolica, ai processi di significazione, alle rappresentazioni sociali e agli immaginari collettivi.
Il problema quindi non è (o non è soltanto) la mancanza di identità in sé e per sé, o l’identità minacciata, o la resistenza ai processi di omologazione globale, tutti fenomeni che pure possiamo facilmente riscontrare nei processi di costruzione della città contemporanea, quanto piuttosto la problematicità delle forme di espropriazione della città e della capacità progettuale diffusa nel tessuto sociale.
Se, da una parte, quindi è rischioso pianificare e progettare l’identità, o con l’identità, dall’altra, l’obiettivo che si pone al planning è piuttosto quello di favorire le forme e i processi di appropriazione materiale e simbolica della città, sia in termini partecipativi e di cittadinanza attiva, sia in termini di modalità e pratiche concrete di costruzione della città e di definizione dei luoghi.



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