domenica 23 maggio 2010

il concetto "ESSERE" e' universale, presente in tutte le lingue? Due testi sul linguaggio

di Armando Massarenti
Davvero l'Essere, come voleva Aristotele, «si dice in molti modi»: anzi lo si è detto, negli ultimi duemila-cinquecento anni, perlomeno in Occidente.in mille disquisizioni logiche, metafisiche, linguistiche, dalla Grecia classica ad Abelardo, dall'inizio della modernità fino allalinguistica, scienza, quest'ultima, che nel Novecento è divenuta un modello propulsivo per le neuroscienze e per le scienze cognitive. Però, il ruolo centrale e le pretese di universalità che l'Essere ha assunto nella tradizione filosofica andrebbero un po' ridimensionate alla luce di questi ultimi sviluppi, proprio a partire dalla grammatica: È una delle conclusioni (non. l'unica, forse'neppure la più importante) cui giunge con il suo lungo ragionamento Andrea Moro, docente di Linguistica generale al San  Raffaele di Milano, uno dei piu' brillanti scienziati che lavorano sul paradigma chomskiano della grammatica generativa, autore di Breve storia del verbo essere. Viaggio al centro della frase, che Adelphi manderà in libreria il 26 maggio. Unlibro in cui confermale suedotìdi divulgatore e, insieme, di innovatore, già espresse ini confini di Babele, n cervello e il mìstefo delle lingue impossibili (Longanesi, 2006), nel quale dimostrava che ci sono limiti precisi entro cui si possono immaginare nuove lingue.Il verbo "essere", sostiene Moro, se forse non è, come disse Bertrand Russell, «una disgrazia per il genere umano», è tutto fuorché un universale linguistico: in molte lingue o non esiste o si manifesta Soloin casi specifici. Oppure lesuefiin-zioni sono vicariaiìe da altri elementi linguistici, come ad esempio i pronomi in ebraico. «Su un campione rappresentativo di 386 lingue, in ben 175, laddove nelle altre compare il verbo essere o unsuoequivalente,nOnsolonpnc'èalcunverbo: non c'è proprio niente. Per intenderci, sono Un-
gueincuiperdire Giovanni è un maestro si dice qualcosacomeGiovanniun maestro». A un estremo troviamo l'italiano e l'inglese, dove il verbo essere è sempre obbligatorio. All'estremo opposto, ci sono il sin/iato (parlato nello Sri Lanka) o il tubu (parlato in Libia) dove non ve n'è traccia alcuna. Insomma, se la competenza linguistica è universale nel genere umano, il nostro amato verbo essere non ne è un ingrediente necessario. Il  libro di Moro, oltre che a presentare argomenti stringentUegatiauna scoperta rivoluzionaria, è il racconto di una storia finora mai raccontata Hpiglio è insieme narrativo e argomentativo, con risvolti che riguardano, oltre che il linguaggio, l'evoluzione e, più in generale, la natura e la struttura della mente umana. Tutto ciò a partire dallo studio di qualcosa di apparentemente innocuo: la frase. Le espressioni con il verbo essere - osserva Moro - sono un'occasione unica per capire l'anatomia della frase, che, in realtà, è l'oggetto linguistico più complesso del linguaggio umano, non condiviso da nessun codice di comunicazione di nessun'altra specie. La frase si compone essenzialmente di due pilastri: il soggetto e il predicato. Il soggetto si identifica con il nome o gruppo nominale che si accompagna con un verbo o gruppo verbale (che può o meno contenere dei complementi). C'è però un terzo ingrediente, decisivo: il tempo, che siesprimenormalmente conia desinenza del verbo: «Paolo causava la rivolta», «Paolo causerà la rivolta», eccetera. Ebbene, il verbo essere è unico nel suo genere perché esprime il tempo in modo autonomo, senza incidere sul predicato. Sé dico: «Paolo era la causa della rivolta», o «Paolo fu la causa della rivolta», eccetera, devo osservare che qui il predicato è «causa (della rivolta)» ejì tempo è semplicemente «era» o «fu». La scoperta di Moro riguarda la nozione di simmetria. Con il verbo essere si possono creare strutture simmetriche dove il nome o gruppo nominale che precede il verbo non è un soggetto ma un predicato! Ad esempio, «la causa della rivolta era Paolo», «la causa della rivolta fu Paolo», eccetera Questo scardina dalle fondamenta il postulato delle lingue umane secondo il quale il nome o gruppo nominale che si trova a sinistra del verbo identifica sempre il soggetto. I verbi che si accompagnano con un nome o un gruppo nominale a destra e uno a sinistra si accordalo sempre con il nome a sinistra: ad esempio, «una ragazza ama un ragazzo», «due ragazze amano un ragazzo» ma non «una ragazza amano due ragazzi». Con il verbo essere si ha invece, sorprendentemente: «La causa è un ragazzo» ma «la causa sono due ragazzi» enon «la causa è due ragazzi». Ciò mostra che il nome che segue il verbo è un soggetto, perché è capace di far scattare l'accordo.
La caduta del postulato del soggetto ha conseguenze enormi sulla struttura della grammatica Si può forse addirittura dire.suggerisce Moro, con una analogia con la storia della geometria, che le grammatiche senza questo postulato, ma ancora coerenti, sono grammatiche "non euclidee". Insomma, è una rivoluzione. Implica anche che non ha più senso usare il verbo essere per esprimere il concetto astratto di Essere? Quando lo si fa, spiega Moro, il verbo funziona un po' come un pronome: sta al posto di tutti i predicati possibili, che si accompagnano con il verbo "essere". Perlomeno nelle lingne che ce l'hanno. Un po' come quando si dice «il fare» e si usa il verbo fare come pronome di tutte le azionipossibili Ma cosisi vedeche il verbo essere non ha alcun significato. E il bello di questa storia è che fu proprio Aristotele, l'autore della Metafisica, a sostenere per primo che il verbo èssere non è affatto un predicato!
• Andrea Moro, «Breve storia del verbo essere. Viaggio al centro della frase», Adelphi, Milano, pagg. 336, € 26,00. In librerìa dal 26 maggio.

Andrea Moro – I Confini di Babele – Timeoutintensiva – Maggio 2008I CONFINI DI BABELE – Andrea Moro
RECENSIONE di Lorenzo Palizzolo
Chiunque abbia toccato con mano l'impossibilità di comunicare col linguaggio – verbale e scritto,
ma anche dei segni – sa che dramma di isolamento vive l'uomo che non può parlare con un altro
uomo. Tale circostanza è ben nota agli operatori della Terapia Intensiva, che spesso si ritrovano al
cospetto di pazienti che devono nuovamente imparare a parlare e a comprendere i simboli della
propria lingua.
Apparentemente scontata questa facoltà dell'uomo è un mistero affascinante e tutt'altro che risolto,
nonostante gli enormi progressi fatti da quando, nel 1861, il neurologo e antropologo PierrePaul
Broca all'esame autoptico eseguito sul cervello di un paziente che aveva presentato gravi disturbi del
linguaggio, evidenziò una lesione in un area cerebrale ben delimitata, localizzata nel lobo frontale
sinistro (oggi conosciuta appunto come Area di Broca), e che senza dubbio era stata la causa del suo
disturbo.
Il linguaggio viene spesso considerato in termini di comunicazione verbale, come un ente che ha la
proprietà, per l'uomo, di informare su altri enti.
É da sottolineare inoltre che per lunghi anni e fino all'inizio degli anni '80 dello scorso secolo si è
cercato do capire il rapporto fra linguaggio e cervello partendo dallo studio di pazienti con lesioni
cerebrali e cercando una correlazione fra sintomatologia e sede anatomica della lesione. Ben altra
cosa è la comprensione dei meccanismi di apprendimento del linguaggio prescindendo
dall'osservazione di eventi patologici.
È ormai un fatto noto che dietro le grandi differenze che separano tutte le lingue, i dialetti e gli
idiomi del mondo, potrebbe celarsi una struttura o una trama comune che le raggruppa tutte: la
cosiddetta Grammatica Universale (GU), ipotizzata dal linguista americano Noam Chomsky circa
mezzo secolo fa. L'esistenza di questa GU rappresenta, davanti alle innumerevoli variazioni delle
circa 7.000 lingue naturali esistenti, la possibile esistenza di regole comuni a tutte le sintassi.
Potrebbe dunque essere necessario chiedersi se esista un limite al numero di lingue e di
grammatiche esistenti. Se sia sempre possibile inventarne di nuove, e se esistano dei limiti a questo
inventare; e ancora se il loro numero sia dunque potenzialmente infinito o se, magari, esistono
lingue che non potremo usare mai. Il testo di Andrea Moro, I Confini di Babele, come egli stesso sostiene, rappresenta il tentativo di portare alla luce una rivoluzione nascosta nella scienza contemporanea: “La scoperta che le grammatiche possibili non sono infinite e che il loro numero è limitato biologicamente” (p. 11).
Il suo viaggio alla ricerca dei confini di Babele nasce dallo stupore per una domanda semplice e
allo stesso tempo profonda, “perché non tutte le grammatiche concepibili sono realizzate nelle
lingue naturali?” (p. 12).Il saggio di Moro può essere considerato una riflessione lucida circa tale argomento e, come sottolineato nella nota introduttiva di Chomsky, un percorso dalle “conseguenze affascinanti che
vanno molto al di là della biolinguistica” (p. 6), valido sia per gli addetti ai lavori quanto per un
lettore interessato senza competenze specifiche.
Il libro è diviso in tre capitoli principali, il primo dei quali, insieme ad una sezione metodologica,
mostra una sintesi dei più importanti risultati degli ultimi cinquant'anni in linguistica, con
particolare attenzione all'ambito della grammatica generativa e ai fenomeni riguardanti il principio
di dipendenza dalla struttura . A ciò segue la descrizione di due esperimenti, ai quali l'Autore ha personalmente preso parte, condotti con l'ausilio delle moderne tecniche di neuroimmagine, ovvero la tomografia ad emissione di positroni (PET) e la risonanza magnetica funzionale (fMRI), grazie alle quali la biolinguistica è oggi in grado di raggiungere nuovi traguardi, potendo, in un certo senso, “osservare il
funzionamento del cervello in vivo”. In breve: risulta possibile individuare le zone sottoposte a un
lavoro rilevando in quella zona l'aumento del flusso ematico.
Andrea Moro ha voluto usufruire dei risultati di tali esperimenti per consolidare l'ipotesi ormai nota
di un area cerebrale dedicata alla sintassi. A tal fine è dedicata la formulazione di grammatiche
impossibili, ovvero grammatiche che non rispettano i principi generali comuni a tutte le sintassi,
come la dipendenza dalla struttura.
Infine Moro conclude il testo con un terzo e ultimo capitolo dove si affronteranno alcuni aspetti
critici della ricerca attuale ed eventuali nuove direzioni, ed il particolare rapporto tra la natura
lineare del codice linguistico, aspetto peculiare delle lingue umane, e la struttura biologica
dell'organismo per quanto riguarda la costruzione di regole grammaticali. È qui, come egli stesso
sostiene, che ci muoveremo “sulle sabbie mobili della speculazione” (p. 221).
Andrea Moro (Pavia, 1962) è professore ordinario di linguistica generale all'Università “VitaSalute”
San Raffaele di Milano. Dottore di ricerca in linguistica, ha fatto studi di perfezionamento
all'Università di Ginevra ed è stato visiting scientist al MIT di Boston. Si occupa di teoria della
sintassi e del rapporto tra cervello e linguaggio. È stato professore associato all'Università di
Bologna e ha tenuto corsi in molti atenei in Europa e negli Stati Uniti. Oltre a vari articoli su riviste
internazionali (tra cui Nature Neuroscience), ha pubblicato due libri: The Raising of Predicates
(Cambridge University Press, 1997) e Dynamic Antisymmetry (MIT Press, 2000).
Del presente volume è in corso la traduzione in inglese per la MIT Press

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