sabato 17 maggio 2014

read key : post colonialismo e nazionalismo :Michel Foucault ,Jaques Derrida , psicoanalisi lacaniana

orso castano : sorprende che nelle riflessioni sul pos-colonialismo ed il successivo frequente nazionalismo , vengano usati gli scritti e le riflessioni di pensatori come  Michel Foucault ,Jaques Derrida, Lacan , Franz Fanon, Bill  Ascroft, ecc. L'ipotesi di un ibridismo culturale da parte dei colonizzatori e dei colonizzati, appare non futile e, forse, spiega , almeno in parte certe mode e certe diffusioni di ibridismi culturali "indiani" , "cinesi" , "giapponesi" e via discorrendo. Siamo lontani dalla ricostruzione e della maturazione  , su questa base , di un'autonomia culturale ed operativa alternativa alle modalita' di produzione culturale-scientifica dei colonizzatori, che vengono sistematicamente imtati ancora oggi. L'articolo e' bello ed interessante

d’indagine critica: il primo, inaugurato da Orientalism di Edward Said nel 1978 ed ispirato alla teoria del discorso di Michel Foucault, si fonda sulla interpretazione del colonialismo come formazione discorsivaalimentato dalle istituzioni materiali dell’Impero; il secondo filone affonda nel pensiero decostruzionista e, come chiarisce Gayatri C. Spivak (traduttrice inglese dell’opera di Jaques Derrida) nell’intervista del 1990 pubblicata col titolo The Post-colonial Critic, definisce il discorso coloniale come il prodotto retorico degli assiomi imperialistici che attengono in particolare alle questioni di razza e di genere; il terzo filone, il cui fondamento va ricercato nella psicoanalisi lacaniana che Homi K. Bhabha rilancia in The Location of Culture del 1994, è caratterizzato da una analisi della formazione del soggetto coloniale e dei processi di ibridazione nei quali colonizzati e colonizzatori sono coinvolti. Le tre direzioni seguite dagli studi (post)coloniali, storicistica, decostruzionista e psicoanalitica, pur convergendo sull’oggetto dell’investigazione, si diversificano al momento della sua definizione e della valutazione delle funzioni soggettive che qualificano la relazione coloniale. Il volume più rappresentativo del dibattito postcolonialistico, The Post-Colonial Question di Iain Chambers e Lidia Curti, (1996) compie il meritevole tentativo di unificare i tre ambiti di ricerca, mettendo insieme punti di vista e prospettive diverse, e interrogandosi sul modo in cui il nostro tempo affronta la questione cruciale dell’alterità e della differenza.
L’accento sul tema coloniale caratterizza fortemente le indagini del rapporto identitario tra i soggetti che si contrappongono sullo scenario internazionale dell’Impero. Colonizzati e colonizzatori si fronteggiano, per la loro diversità come per i diversi gradi di assimilazione culturale possibilmente raggiunti, in quanto polarità di culture il cui conflitto viene regolato prevalentemente dalla forza militare ed economica del paese dominante. Nel merito del confronto interculturale, gli studi (post)coloniali manifestano due distinte impostazioni ideologiche, che possono definirsi rispettivamente integrazionistiche e anti-umanitaristiche. Pertanto, laddove Edward Said, Homi K. Bhabha, Dianne Sachk Macleod ed altri costruiscono il soggetto coloniale negli interstizi di una relazione fondamentalmente manichea, Benita Parry, Elleke Bohemer e Ania Loomba, per ricordare solo gli studiosi più conosciuti, seguendo le tracce dLes damnés de la terredi Frantz Fanon (1961) e di The Post-Modern Condition di Jean-Francois Lyotard (1979), sottolineano il bisogno di emancipazione del colonizzato dalla cultura del colonizzatore e dai suoi effetti sociali e psicologici.
Per il fatto che si occupano in prevalenza della complessa questione dell’alterità, gli studi (post)coloniali incrociano spesso quelli femministi soprattutto nel terreno di convergenza delle problematiche razziali e di genere. Come osserva Bill Ashcroft, colonialismo e patriarcalismo si generano nella medesima formazione sociale e generano, a loro volta, unità ontologiche che sistemano armonicamente i discorsi sulla razza e quelli sulla femminilità (Ashcroft 1998). Tra gli studi più rappresentativi del dibattito indotto dalle coincidenze col femminismo vanno ricordati, insieme a quelli pionieristici della Spivak, l’analisi della condizione doppiamente subalterna della donna colonizzata proposta da T. Trinh Minh-ha in Woman, Native, Other (1989) e lo studio di poco successivo in cui Chandra Talpade Mohanty proietta quella condizione sullo scenario dell’espansionismo economico (Mohanty 1991). I due studiosi sottolineano con forza la questione della doppia subordinazione della donna colonizzata, fonte del suo epistemologico silenzio e della paradossale costituzione della sua istintività nativista.................................Nel 1983 Benedict Anderson rilancia su Imagined Communities  (1983) la definizione della nazione come unico spazio geoculturale del progresso e dell’emancipazione. Ad Anderson fanno eco sia Ngugi Wa Thiong’o e Benita Parry, per i quali il nazionalismo costituisce l’obiettivo più evoluto ed avanzato delle lotte di liberazione, sia Tom Nairn che considera la nazione una forma momentanea di assestamento della contraddizione coloniale. Comune a tutti è, in ogni caso, la consapevolezza del legame stretto tra nazionalismo e colonialismo, e del rilievo che tale legame assume nella caratterizzazione delle lotte di liberazione nazionale. In continuità con le posizioni di Julia Kristeva e Tzvetan Todorov sulle strette relazioni tra razzismo e spirito nazionalistico, David Lloyd (1993), Partha Chatterjee (1993) e Robert J. C. Young (1995) considerano il nazionalismo una potente costruzione retorica, una rete di postulati su cui, come essi scrivono, si fonda la nazione europea e lo stereotipo della sua superiorità culturale. Le moderne nazioni postcoloniali, a detta di questi studiosi, somiglierebbero ad una seconda copia della grande nazione europea e, in questo modo, rappresenterebbero gli spazi più adatti alla realizzazione dei suoi propositi economici, sociali e culturali. Pertanto, sostiene Chatterjee, la comunità autonoma ed autoregolata già prospettata da Indira Gandhi nel corso della battaglia indipendentista in India, rappresenterebbe la sola alternativa alla nazione postcoloniale e, quindi, al dominio indiretto dei paesi occidentali...................Come scrive Loomba in Colonialism/Postcolonialism (1998), diventa ogni giorno più evidente la formazione di un canone postcoloniale, politicamente connotato dal terzomondismo liberale e dall’ibridismo riformista. Non si tratterebbe, tuttavia, di un canone che si costituisce nei contesti marginali delle diverse letterature postcoloniali; piuttosto, sostiene coraggiosamente Loomba, esso appare come un modello statico e uniforme costituito all’interno delle istituzioni e degli apparati culturali dell’Occidente (accademia, editoria, media, premi letterari e via dicendo), a cui lo scrittore accede in seguito alla preventiva cancellazione della propria tradizione.
La critica agli studi (post)coloniali rientra in parte nella più generale critica al postmodernismo mossa da numerosi intellettuali della statura di Fredric Jameson, Étienne Balibar, Terry Eagleton e Aijaz Ahmad. Essi accusano i teorici del postcolonialismo di promuovere nei fatti l’episteme occidentale oltre i confini europei e nordamericani: così, il debito che Said riconosce a Foucault è riscontrabile nell’impianto stesso della sua teoria orientalistica; allo stesso modo, il femminismo decostruttivista di Spivak, accusa Rashmi Bhatnagar, va a collocarsi in ultima istanza nel grande alveo del liberalismo occidentale; analogamente, il realismo magico di Rushdie o di Okri non è altro che un pastiche tardoromantico piuttosto che, come vorrebbe H. K. Bhabha, il linguaggio del mondo postcoloniale emergente.................Più incisive sono le critiche alle scelte metodologiche, particolarmente in considerazione della contraddittorietà che marca il rapporto tra l’oggetto storico totalizzante (il colonialismo, appunto) e la soggettività interstiziale del colonizzato; una contraddittorietà che, investendo la rappresentazione della subalternità e della rottura emancipatrice, rende impossibile il confronto tra la prassi internamente manichea del colonialismo e il discorso sulla civilizzazione. A fronte di tale contraddittorietà, la concezione della storia che traspare dagli studi (post)coloniali viene inficiata dal disconoscimento delle storie frammentarie e frammentate delle colonie, identificate in virtù del loro adeguamento ad una ipotetica storia universale parametrizzata sulle costanti culturali del paese colonizzatore.

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