domenica 6 gennaio 2013

Disoccupazione come disagio e opportunità.


orso castano : problema cruciale quello della tecnologia e del lavoro. Martini e Gerardi provano a sfatare l'assioma  "piu' tecnologia = meno lavoro" , assioma fatto proprio anche da Marx. Ragionando sul piano dei bisogni umani , rilevano che questi sono molteplici e mutevoli e che e' impossibile prevederne l'evoluzione , e questo garantirebbe un continuo bisogno di nuovo lavoro e nuove forme di lavoro. Il ragionamento presenta aspetti complessi, perche' questi nuovi bisogni potrebbero essere falsi bisogni, bisogni superflui creati per una concezione dell'uomo come plasmabile da bisogni superflui in cui si identifica per far sopravvivere il sistema e non creare laceranti contraddizioni tra ricchi e poveri, occupati e non occupati. Ma e' anche vero che, come ad esempio nel campo della comunicazione, stiamo assistendo ad una sempre rinnovata ed innovativa modalita' nel comunicare attraverso lìuso di strumenti che rendono e renderanno sempre piu' il mondo un villaggio globale mettendo in condizione di superare distanze enormi in tempo reale ed avvicinando sempre piu' le persone. Problema quindi complesso su cui molte riflesioni andranno fatte in futuro.  


Martini: Di fronte alla disoccupazione oggi il disagio è duplice: c’è ovviamente il disagio di chi è disoccupato, un disagio pesante perché – come già diceva san Tommaso – se uno non può dimostrare chi è nell’azione perde quasi la fiducia in se stesso, e c’è anche un disagio "collettivo", il non sapere che cosa fare nei confronti della disoccupazione, il disagio che nasce da una rassegnazione che bisogna combattere. È la rassegnazione dello sviluppo senza occupazione, secondo la quale lo studente, per quanto studi, è comunque condannato alla disoccupazione. Ed è preoccupante vedere quanto questa idea stia diventando un luogo comune; è oltretutto un’idea falsa, che lascia intravedere non tanto un’analisi della situazione quanto un atteggiamento dell’uomo nei confronti di un dramma. L’uomo che non è capace di affrontare un dramma si rassegna convincendosi che non c’è niente da fare.
Perché è falsa l’idea che siamo condannati allo sviluppo senza occupazione? Su che presupposti si basa questa affermazione? Si basa su un ragionamento di questo tipo: siccome la tecnologia cambia in modo sempre più accelerato e consente di produrre le cose che producevamo prima con meno lavoro rispetto a prima, dobbiamo rassegnarci a produrre senza che l’occupazione si sviluppi. Questa idea si accompagna ad una pseudo-informazione statistica secondo la quale le grandi imprese in Italia da dieci anni a questa parte perdono produzione.
Di fronte alla rassegnazione di uno sviluppo senza occupazione, quali soluzioni si prospettano? Secondo Bertinotti, bisogna prendere il lavoro che c’è e dividerlo per tre; secondo altri quello che conta è produrre, si tratta poi di distribuire il reddito prodotto mantenendo anche chi non ha lavoro. Sono soluzioni sbagliate perché è sbagliato il modo di affrontare il problema: non si riflette sul fatto che mai la tecnologia ha distrutto il lavoro, perché se la tecnologia da una parte distrugge il lavoro, dall’altra apre la possibilità di fare altri lavori. Inoltre si pensa che i bisogni dell’uomo siano dati, mentre invece non è così: il bisogno dell’uomo non è come quello dei castori e delle api, è un bisogno plastico, che prende forma continuamente di fronte alle possibilità. L’uomo ha sempre avuto bisogno di mangiare, ma ha inventato mille modi per mangiare; l’uomo ha sempre avuto bisogno di muoversi, ma ha inventato mille modi per muoversi; l’uomo ha sempre avuto bisogno di comunicare, ma ha inventato mille modi per comunicare... quindi la tecnologia, che rende possibile produrre ciò che si produceva prima con meno lavoro, rende possibile anche dare nuove risposte ai nuovi bisogni.
In realtà, si tratta di come si concepisce l’uomo, se secondo una concezione religiosa che vede l’uomo aperto all’infinito – e un uomo aperto all’infinito è un uomo che sa che non c’è mai la risposta definitiva ai suoi bisogni –, o se secondo una visione atea che vede l’uomo come un elenco di bisogni dati, una volta soddisfatti i quali può sentirsi a posto. Non a caso questa era la previsione di Marx: nel socialismo realizzato, Marx prevede che gli uomini non lavorino più proprio perché la tecnologia riesce a produrre per tutti quello che prima era necessario produrre col lavoro. Liberato dai condizionamenti della proprietà privata, l’uomo non avrà più bisogno di lavorare e tutti avranno secondo il loro bisogno. La profezia è sbagliata perché è sbagliata la concezione del bisogno che ci sta dietro, concezione che non è solo di Marx ma di quasi tutti gli economisti, anche quelli anti-marxisti come Keynes.
Se si concepisce l’uomo come assetato dell’infinito, non ci si rassegna alla disoccupazione, perché si sa che il bisogno da soddisfare è senza fine, nella duplice dimensione del bisogno personale e del bisogno di 5 miliardi di uomini. La tecnologia invece di impiegare 250 persone per verniciare ne impiega una sola: meno male, perché questo significa che le altre 249 possono fare qualche altra cosa. Il problema è che se le nostre istituzioni non sono in grado di favorire un cambiamento rapido per quei 249, l’unica soluzione è di offrire loro il sussidio della disoccupazione. E purtroppo il nostro sistema si è organizzato così: si limita a dare un po’ di soldi ai disoccupati per sopravvivere – indennità di disoccupazione, cassa integrazione, prepensionamento. Ma questo non è più sostenibile, perché ci sono sempre meno soldi e perché il numero di licenziati aumenta sempre di più. E la gente arriva così a pensare che meno bambini nascono meglio è... I nostri giovani assorbono questa idea, che è il nichilismo applicato ad un problema economico. Bisogna assolutamente combattere questo modo di pensare. Come?
Innanzitutto con un’analisi seria che faccia capire che tutto ciò non è necessario; diventa inevitabile se il sistema non mette la gente in condizione di organizzarsi per dare nuove risposte a nuovi bisogni rapidamente, se corporativisticamente si pensa di difendere i lavoratori difendendo dei posti che non ci sono. Inoltre – e spieghiamo anche il titolo di questo nostro incontro – la disoccupazione è abbinata alla opportunità, perché, in tutta la sua drammaticità, il momento della disoccupazione può diventare positivo se si mettono in campo iniziative che utilizzino i soldi che sono a disposizione (anziché distribuire sussidi!) o se si mettono le persone in condizione di riacquistare mezzi e quindi fiducia.
Un’ultima notazione. In una situazione di questo genere la formazione è una condizione essenziale, perché chi fa più fatica oggi non sono i laureati e i diplomati, ma chi non ha nessun titolo di studio. Più basso è il livello di formazione, più difficile è la riconversione della persona; riconvertirsi infatti vuol dire imparare rapidamente una cosa che non si sapeva fare, e impara più rapidamente chi ha una formazione di base che chi non l’ha. Quindi bisogna accentuare la formazione, che implica due aspetti: c’è una formazione di base, che vuol dire acquisire i linguaggi comuni, la capacità di ragionare, di leggere, di scrivere... E poi c’è la formazione che specializza, che permette di acquisire le categorie fondamentali di una materia. È inutile inseguire la specializzazione dell’ultima novità, perché l’ultima novità quando viene insegnata è già vecchia rispetto al mondo produttivo... la formazione deve invece mettere in grado di cogliere la novità.

Gerardi: Presenterò una proposta – pubblicata sul Corriere delle Opere, nel numero di luglio e agosto – che riguarda un piano integrato di formazione lavoro, la cui peculiarità è quella non solo di formare e mettere in attività lavorativa la gente, ma anche di dare una possibilità di permanere in attività più a lungo se le condizioni esterne non permettono di assorbire il personale: di conseguenza è una proposta che si addice particolarmente a situazioni di emergenza occupazionale. È chiaro che ormai in tutta Europa il problema è gravissimo, specialmente dove manchino autentici rapporti di solidarietà. In questo contesto economico, solo soluzioni come quelle di cui hanno parlato i miei colleghi possono avere un risultato concreto. Bisogna escogitare qualcosa fuori dalla norma, come appunto la proposta di cui parlerò.
Il percorso logico che porta a questa proposta è il seguente: siamo in un ambiente economico ostile, quindi dobbiamo cercare di costruire una struttura che dipenda il meno possibile da esso. In casi estremi, su chi possiamo contare? Sui membri stessi del nostro gruppo che lavora, quindi occorre ampliare la gamma di produzione a tutto l’arco del consumo familiare, e far aumentare notevolmente le possibilità di autoconsumo. L’autoconsumo è la chiave: naturalmente, lo scopo della nostra proposta non è costruire comunità di sopravvivenza o di autosostentamento... quello che ci interessa è creare una struttura di formazione nell’ambito dell’attività lavorativa, non in aule ma direttamente.
Il sistema che proponiamo prevede una gamma di produzione e di conseguenza una gamma di formazione. Si può avere una possibilità di rotazione, da una unità produttiva all’altra, e si realizza così questo sistema che sta in piedi da sé, questo centro che produrrà beni e servizi di consumo finale. Essendo una produzione di consumo finale, avrà bisogno di finanziarsi per acquistare il consumo intermedio: l’export sul mercato è difficile, quindi la liquidità per l’acquisto del consumo intermedio proverrà dai lavori socialmente utili che saranno dati in appalto a questo sistema attraverso le varie leggi esistenti. Come fase successiva, si dovranno cercare quelle nicchie di mercato sia di beni che di servizi sui quali si potrà lentamente far sfogare la produzione, senza creare fenomeni di concorrenza sleale. Queste nicchie di mercato sono i luoghi in cui la domanda è parzialmente solvibile, e in cui le imprese non hanno un sufficiente osservatorio per potersi installare: comuni montani, zone che vengono spopolate... bisogna cercare di rivitalizzarli, e attraverso questo sistema vi è proprio la possibilità di recuperare liquidità e quindi di creare una seconda parte della remunerazione.
Si tratta dunque di una struttura minima che permette di formare e di mettere in attività, dando un reddito di base che permetta di partire e di aprirsi a ulteriori possibilità. Questa realtà è un esperimento pilota, che vorremo realizzare nei pressi di Palermo, nel comune di Villabate, cercando di rodare questa procedura sul piano economico: se funzionasse, data la natura piuttosto standard di questa realtà, si potrebbe tentare di fonderla con altri sistemi.

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