sabato 13 dicembre 2014

QUELLI CHE INIZIARONO CON LA FLESSIBILITA'

ORSO CASTANO :stupisce di questi politici la distanza dai bisogni di chi lavora o e' disoccupato, la superficialita' con cui affrontano problemi seri -enormi-la vita di milioni di persone , senza aver fatto bene i conti, senza sapere  (o forse fanno finta)  se ci sono i fondi per fare certe cose, senza discutere preventivamente  con chi e' vicino o rappresenta chi suda e sta male. L'arroganza e' dasvvero diffusa tra i politici, la loro supponenza completa il quadro. Il loro narcisismo e' odioso. Purtroppo questi sono i personaggi che occupano ghli scranni piou' alti dello stato . Ma non e' un caso che avvenga. Dietro di loro c'e' la logica e c'e' il medesimo potere del Piano Marshall , che pure non impedi' lo sviluppo di un'industria Europea e di un'economia europea robusta. Ma oggi le cose sono cambiate e certe posizioni , se non discusse , se non elaborate con chi poi ne sopportera' il peso , diventano, o rischiano di diventare, macigni che schiacciano.


da "L'ESPRESSO"..............Insomma, per Treu, professore di diritto del lavoro, «è vero che anche le aziende più grandi dicono  che l’art. 18 non è un grosso problema, ma è anche vero che aziende più fragili possono avere dei problemi, legati soprattutto all’incertezza». E possono avere «una paura blu», quando assumono, perché si chiedono: «Se questo è un rompiscatole e lo devo poi licenziare, come faccio?». Con la riforma staranno più tranquilli, «sapendo che, al massimo, gli costa un po’ di denaro, con l’indennizzo».


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Certo «servono investimenti», ma la via presa del governo è quella giusta. Anche sul demansionamento,
 pardon, «sulla mobilità interna»: «Non parliamo di demansionamento» puntualizza Treu, «che dà un’immagine fosca della vicenda». «Cambiare mansione all’interno di un’azienda, permettendo all’impresa di affrontare un mondo mutevole» per il professore, con un po’ di accortezza, «può non esser una cosa negativa».

Su una cosa, Treu chiede però attenzione: «a Poletti e Renzi dico: dobbiamo riuscire a dare gli ammortizzatori universali, non come in Danimarca ma almeno come in Austria». Quanto serve? «Si può cominciare con due miliardi». E poi, ovviamente, bisogna ridurre i contratti precari. Perché il problema «non è la nostra riforma ma la legge Biagi». E così si dovrebbe scendere «a cinque contratti», voucher compresi.


Professore, in questi giorni viene ripreso l’intervento di Massimo D’Alema al congresso dei Ds, quello contro Sergio Cofferati…
«Quanti anni son passati? Era del 2000?»

Del 1997.
«Ma la dialettica con il sindacato è andata avanti per anni. Ricordiamo, siccome Renzi è un po’ il nuovo Blair, che ci fu anche una lettera, scritta a quattro mani da D’Alema e  Tony Blair, sempre in polemica con Cofferati. Perché già allora lo scontro era sulla flessibilità».

Ecco, e fa bene Renzi a riprendere quella via, di scontro con la Cgil?
«Renzi fa bene a cercare di modernizzare le regole: il suo obiettivo non è certo lo scontro col sindacato. È il sindacato che si chiude, se pensa che con l’art. 18 finisca ogni margine di accordo. Ma mi sembra che non tutti i sindacati abbiano assunto questo atteggiamento e che la Cisl e la Uil abbiano detto che se sul piatto ci sono più tutele per gli altri, si può discutere, si può vedere».  

Senta ma com’è possibile che un video del 1997 sia ancora attuale?
«È attuale per il rapporto con il sindacato, ma non siamo sempre lì, il mercato del lavoro non è più lì. Lo stesso articolo 18 è già cambiato, ed è cambiata l’età pensionabile, forse persino troppo».

L’art. 18 è cambiato, esattamente, riformato da Elsa Fornero. Perché cambiarlo ancora, depotenziandolo ulteriormente?
«Perché la Fornero ha ridotto non poco l’art. 18 ma con una scrittura molto complicata, che ha in realtà aumentato l’incertezza. Ecco perché se uno invece stabilisce che, salvo i casi di discriminazione, si danno soli i soldi, si sta più tranquilli».

Però Matteo Renzi, due anni fa, sosteneva di  non conoscere un solo imprenditore che dicesse di non assumere per colpa dell’articolo 18. Quale Renzi ha ragione, quello di oggi o quello della campagna per le primarie nel 2012?
«Come sempre, nella vita, dipende. È vero che anche le aziende più grandi dicono che l’art. 18 non è un grosso problema, ma è anche vero che aziende più fragili possono avere dei problemi, legati soprattutto all’incertezza ed hanno una paura blu, quando assumono, perché si chiedono: “Se questo è un rompiscatole e lo devo poi
 licenziare, come faccio?”. Sapendo che, al massimo, gli costa un po’ di denaro, con l’indennizzo, stanno sicuramente più tranquilli. Una cosa però la direi a Poletti e Renzi: dobbiamo riuscire a dare più ammortizzatori, non dico come in Danimarca ma almeno come in Austria»

Dice così perché nutre dei dubbi?
«No, no, io non ho dubbi, perché mi pare che si siano tutti impegnati, però è certo che si dice sempre non si trovano i soldi, e senza soldi certo non fai politiche attive per il lavoro né ammortizzatori»

Senta, ma quanto costa la flexsecurity, il sistema di ammortizzatori che dovrebbe esser la contropartita rispetto alla diminuzione delle garanzie? Glielo chiedo perché dal governo, Marianna Madia ha detto che le risorse necessarie «non sono ancora state quantificate con esattezza».
«Guardi io non tiro fuori numeri dal cilindro, e trovare i soldi è sempre difficile, ma senza pretendere di fare come la Danimarca, non ci servono dieci miliardi. I calcoli che fa Filippo Taddei (il responsabile economia del Pd, ndr), dicono che si può cominciare con un paio di miliardi. Non è una cifra impossibile, se pensa che negli ultimi tre anni abbiamo speso 7 miliardi in casse integrazioni in deroga, spesso per salvare, imprese moribonde».

Cosa si garantirebbe con due miliardi?
«Con due miliardi si estende l’indennità di disoccupazione a chi resta fuori dalla riforma Fornero. Si risponde cioè a circa 900 mila persone, co.co.pro e co.co.co.».

Il sistema che avete in mente si basa tutto sull’assunto che chi perde il lavoro ne possa trovare un altro velocemente, senza gravare troppo sugli ammortizzatori. In un momento di crisi, quando lavoro non se ne crea, non rischia di essere un boomerang?
«La premessa di tutto il discorso è infatti che ci siano politiche di sviluppo, come dice sempre il ministro Padoan. E poi, attenzione, nonostante la crisi ci sono migliaia di posti non presi perché non c’è mobilità sul territorio nazionale e perché sono pagati male. In Germania i centri per l’impiego buttano giù dal letto il disoccupato e gli dicono di andare lì, anche lontano. Serviranno investimenti e servirà stare addosso ai lavoratori: il sistema si basa sul fatto che chi perde il lavoro accetti poi le offerte che arrivano».

Il pacchetto Treu è indicato come l’inizio del precariato in Italia. Cosa non ha funzionato?
«Ma quale inizio del precariato! Il lavoro interinale era fuorilegge e noi abbiamo fatto una primissima riforma, necessaria, che ha riguardato meno dell’un per cento dei lavoratori con una modalità che oggi, salvo i più ideologici, tutti accettano, riconoscendo che ci sono agenzie di lavoro interinale serie, e che lavorare lì è meglio che passare, soli, da un datore di lavoro all’altro lavoro».

Non si pente di nulla?

«Non mi pento di nulla, no. Il problema è stato aver fatto troppi tipi di contratti dopo, con la legge Biagi».

Ed eccoci così all’altro nodo della riforma. Con l’alleato Angelino Alfano, c’è uno scontro in atto sulla diminuzione del numero di contratti atipici, una volta introdotto il contratto a  tutele crescenti. Secondo lei quali e quanti contratti bisognerebbe eliminare?
«Nella legge delega c’è un chiaro riferimento alla necessità di rivedere i contratti. Per farlo basterebbe chiedere alle aziende quelli che usano di più. Io l’ho fatto, lo faccio spesso. Potrebbero restarne cinque: l’indeterminato, il contratto a termine, il part-time, un contratto di tipo parasubordinato, a metà tra il lavoro dipendete e l’autonomo - che è il più complicato, quello spesso abusato - e poi, come ultimo, per i  piccoli lavori tipo quello accessorio o a chiamata, o per piccoli lavori part-time, che i tedeschi risolvono con i mini job, i voucher».

L’ultimo punto critico è il demansionamento. Il governo vuole metter mano anche alle norme sulla mobilità interna alle aziende...
«Sì, ma non parliamo di demansionamento, che dà un’immagine fosca della vicenda. Cambiare mansione all’interno di un’azienda, permettendo all’impresa di affrontare un mondo mutevole, può non esser una cosa negativa. Non è detto che la mansione debba esser peggiore e non è detto che non possa rappresentare un momento di crescita, con la dovuta formazione».

Però potrebbe accadere.
«Certo, potrebbe, ma anche in quel caso non è detto che sia una tragedia se si farà in modo che ogni intervento serva a far funzionare meglio l’azienda e non a mortificare il lavoratore, ma le mansioni di una volta non ci sono più e i compiti, anche per via delle tecnologie, sono molto cambiati. Guardi: è uno strumento anche più importante della flessibilità in uscita, e non è un caso che in Germania ne abbiano abbondato».

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