mercoledì 8 luglio 2009

come possiamo descrivere e definire lo stress

dalla rivista Psichiatria Oggi della SIP

Il  linguaggio è "specchio dei tempi", come ci ricorda G. Steiner (1) esso "è il mistero che definisce l'uomo, in esso l'identità e la presenza storica del-l'uomo si esplicano in maniera unica. È il linguaggio che separa l'uomo dai codici segnaletici deterministici, dalle disarticolazioni, dai silenzi che abitano la maggior parte dell'essere ...". Nel loro andare e venire, le parole ci dicono chi siamo non meno di quanto riescono ad esprimere nella loro sintassi. Così, mentre decretiamo il declino di vocaboli come "dolore", "passione", "tristezza", "fede" (e "fiducia") , tra le parole che "stanno a cavallo" fra linguaggio specialistico e linguaggio quotidiano, fra scienza e vita, fra condizioni esistenziali e forme psicopatologiche, il termine "stress" detiene oggi un primato d'uso e di "audience", contrastato forse solo dall'altrettanto affermato "disagio" e dall'inflazionata "depressione", che ne fa senza dubbio uno degli specchi favoriti della, e dalla, nostra epoca. L'Osservatorio europeo dei rischi dichiara che lo stress è oggi "in Europa il secondo problema di salute nel mondo del lavoro e causa più della metà delle assenze dall'attività svolta". Derivato dal latino strictus (serrato, compresso), nella lingua inglese il termine stress sta per "spinta, pressione, costrizione", ed è utilizzato in meccanica come "sollecitazione, sforzo, tensione", misura della resistenza delle travi metalliche alle torsioni e alla rottura. Come sappiamo esso è stato introdotto in medicina dal fisiologo H. Selye che nel 1936 lo definisce "la risposta non specifica dell'organismo a ogni richiesta effettuata su di esso" (2), e ne distingue due tipologie: lo stress negativo, o "distress", caratterizzato dall'effetto dannoso sulle difese psicofìsiche indotto dagli stimoli, e lo stress positivo, detto "eustress", che si traduce in un incremento delle capacità di adattamento e di ricerca di raggiungimento degli obiettivi personali. Nell'uso comune la parola "stress" si è caricata delle valenze più negative, ampliando e sfumando il proprio significato fino a divenire facile sinonimo di "malessere", "tensione emotiva", "esaurimento delle energie", "senso di oppressione" e "intolleranza", minacciosa anticamera e al tempo stesso facile giustificazione della eventuale insorgenza di veri e propri disturbi psichici, prevalentemente di tipo ansioso-de-pressivo, ma potenzialmente di ogni forma, anche grave, di sofferenza mentale. Ciò che più colpisce tuttavia non è tanto l'aspecifìcità e l'indeterminatezzaassunte (basti pensare a quanto e per quanto tempo ha riecheggiato il termine "esaurimento", ora meno in auge), quanto piuttosto l'estensione, la diffusione raggiunta dal vocabolo "stress" come veicolo, potremmo quasi dire significante, di uno stato psico-fisico, di un modo di sentirsi e di auto-rappresentarsi. Oggi lo stress è ovunque, della sua insorgenza sono imputati soprattutto i piccoli eventi della vita di tutti i giorni, la lista è pressoché infinita, tutto è un problema, tutto "è stressante". "Combattere lo stress" è la parola d'ordine, che implicitamente trasmette il messaggio di una vita concepita come una lotta senza quartiere contro eventi di cui è necessario svelare il potenziale nocivo per "fronteggiarli" con i mezzi e le tecniche più disparati. Evadere dai ritmi, dagli spazi e dai legami ordinari, scappare via dalla propria vita, e dalle emozioni, è la principale linea di difesa adottata, mentre le nostre passioni, gli interessi, l'impiego del tempo libero vanno trasformandosi in un variegato, ma mai sufficientemente adeguato, campo di cura delle tensioni e insoddisfazioni accumulate. A causa dello stress ci arrabbiarne, siamo nervosi o "depressi", stanchi e insofferenti, incapaci di dare il meglio di noi, invecchiarne più rapidamente, ci ammaliamo. Naturalmente non è in discussione qui il ruolo patogeno di una condizione di stress, dove il raggiungimento di un "punto critico" determina l'innesco di alterazioni che possono sfociare in una vasta gamma di sintomi e/o vere e proprie malattie somatiche, o in forme conclamate di sofferenza psichica. La clinica e la neurobiologia ci confermano le strette correlazioni esistenti fra stress e disturbi d'ansia, ed è altresì noto che in tutte queste condizioni l'intreccio fra ambiente, personalità, emozioni e substrato organico determina "soglie" percettive e sensibilità ai diversi stimoli estremamente soggettive. La variabilità individuale, che al tempo stesso può tradursi nella prevalenza generale di una tonalità piuttosto che un'altra, caratterizza altresì la coloritura emotiva della reazione di stress, non necessariamente o prevalentemente orientata nel senso di una astenia, di una ipotimia o del sentimento doloroso di attesa e di pericolo tipico dell'ansia. Lo stress di cui parliamo, che soffriamo oggi, non pare effettivamente assimilabile tout court a una risposta ansiosa. Nello stato di "tensione" che la parola esprime sono non di rado ravvisabili i segni di una insoddisfazione marcata, di una accesa, e sovente rabbiosa reattività, di un senso diffuso di frustrazione. Giungere a un "punto critico" oltre il quale lo stress diventa nocivo implica il presupposto di uno "sforzo" che precede e determina lo stato di stress e dunque dovremo chiederci cos'è che produce questa sensazione di sforzo e di fatica di fronte a stimoli anche banali. La sociologia contemporanea, sempre più declinata nei termini di una psicosociologia che si espone al fraintendimento di un sapere omnicomprensivo dei meccanismi di funzionamento mentale, ci offre una analisi delle trasformazioni intervenute nel nostro assetto socio-culturale che nell'individualismo esasperato, nella rincorsa al benessere, nella globalizzazione, nel predominio di una tecnica ormai sfuggita al nostro controllo, nel declino dei valori e dei legami comunitari, nonché nel dilagante consumismo, individua lo sfondo matriciale di una "società dell'incertezza"(3) caratterizzata da narcisismo. solitudine, dipendenza, paure "postmoderne" e fragilità identitarie. Tali speculazioni contribuiscono indubbiamente, in misura diversa, alla costruzione di un "affresco" fedele della nostra condizione e alla messa in luce delle criticità con cui dobbiamo confrontarci. Tuttavia non è possibile considerare esaustiva una interpretazione causale che a una rapida e, per così dire, ecologicamente svantaggiosa evoluzione della nostra società conferisca un "potere stressante" che parrebbe senza precedenti. Incertezza sul futuro, precarietà, malattie, cui potremmo aggiungere guerre, minore aspettativa di durata della vita, maggiore povertà, ritmi di lavoro ora considerati inaccettabili, hanno caratterizzato un passato in cui è difficile affermare che le condizioni di vita fossero migliori, e tuttora caratterizzano le condizioni di vita in molte parti del mondo, eppure sia nella nostra storia che in molti Paesi poveri non vi sono grandi tracce di questa fatica che ci opprime, del "logorio della vita moderna" di cui tanto soffriamo. Se quindi è fondamentale indagare quelle peculiarità del nostro mondo che possono rendere ragione di tale fenomeno, gli interrogativi non possono che investire anche quel!' altro mondo che è l'intrapsichico, salvo il rischio di avvitarci in risposte che finiscono col risolversi in formule tautologiche o, peggio ancora, in una grande cassa di risonanza delle angosce e delle insicurezze individuali e collettive. La domanda posta inizialmente può essere pertanto riformulata partendo dalla prospettiva di una vulnerabilità soggettiva, per coglierne poi alcune possibili articolazioni con le forme del nostro tempo. Nel poliedrico interfaccia fra dentro e fuori, ancora memori dei nostri avi, affiora il dubbio di una accresciuta "debolezza del carattere", di una ridotta capacità a far fronte agli eventi e tollerare quella "tensione" che è comunque sempre insita al rapporto fra le parti, qualunque esse siano. In un certo senso è senz'altro vero che stiamo cambiando, insieme al nostro mondo, o quantome-no stanno cambiando i modi in cui ci rapportiamo "all'esterno" e anche a noi stessi. Gli interrogativi fondamentali intorno ai quali si è sempre strutturato e si struttura il campo delle tensioni ruotano fondamentalmente intorno alle domande "cosa voglio?" e "chi sono?". La seconda, in verità, ha cominciato a imporsi in tempi relativamente recenti. Come opportunamente sottolinea C. Taylor (4), il "problema dell'identità" nasce con la modernità, con la "scoperta" della pluralità e della dialogicità costitutiva di una identità personale costantemente impegnata in una negoziazione con gli altri, e con sé, mai conclusa. Vorrei qui sottolineare questo "con sé", poiché al di là dello svuotamento dei valori e della realtà "mobile e fluida" (5) in cui siamo immersi, la "molteplicità degli Io" (6), la "liquefazione delle identità", si gioca nella complessa rete delle dinamiche psichiche non meno che nella somma dei ruoli sociali cui si aderisce nel processo di costruzione dell'identità stessa. Questa "fluidificazione", esterna e interna, ci porta a ripensare anche l'idea di "forza dell'Io". Introdotto da Freud e sviluppato soprattutto negli scritti degli ultimi anni, senza peraltro trovare mai una piena sistematizzazione. Tale concetto, di cui viene particolarmente sottolineata la preminenza nel percorso di guarigione (7), è sostanzialmente assimilabile a quello di un Io maturo in grado di sostenere un continuo riequilibrio fra pulsioni istintuali, esigenze superegoiche e stimoli esterni. La "forza" si configura pertanto come la capacità di mantenere attiva questa istanza di mediazione attraverso l'adozione di meccanismi di difesa che consentano quella plasticità, quella capacità di adattamento che è propria della normalità. Attualmente in psichiatria il concetto di forza dell'Io è stato in buona parte sostituito da quello di "resilienza", intesa come indice della "capacità umana di affrontare esperienze negative sviluppando competenze per un adattamento alle richieste dell'ambiente" (8). Come spesso accade nel nostro ambito l'abbandono di concezioni classiche a favore di altre considerate più operative (e qui potrebbe aprirsi un lungo discorso sul tipo di "operatività" di cui si parla), non solo non appare giustificato dalla effettiva obsolescenza delle prime rispetto alle seconde, ma si traduce di fatto in un impoverimento dell'analisi psicopatologica. Gli elementi costitutivi del concetto di resilienza includono infatti una serie di caratteristiche personologiche che vanno "dall'indipendenza, l'iniziativa e la creatività", fino alla "fiducia in sé, la capacità di reprimere gli affetti negativi e di esprimere emozioni positive" (9), il cui "apprendimento" si basa su strategie di "coping", in una impostazione che privilegia il livello della rielaborazione cognitiva, eludendo in buona parte la problematica delle dinamiche psichiche sottese. Per contro, la rimessa in discussione del concetto di identità, il passaggio a livello teorico-concettuale dall'Io al Sé, richiede inevitabilmente una revisione delle interdipendenti definizioni di maturità e forza della persona. Il concetto di Sé, pur nella diversità delle formulazioni proposte dai modelli teorici di funzionamento mentale che vi fanno riferimento, introduce una visione dei processi maturativi centrata sulla matrice relazionale delle polarità interno/esterno, differenziazione/individuazione, identità/autorappresentazione. Dalla "coesione del Sé" (10), alla "diffusione di identità" (11), fino alla prospettiva evoluzionistica della "continuità del Sé" (12), il consolidamento della struttura di personalità, la maggiore o minore debolezza e vulnerabilità e quindi il nucleo del processo adattativo, si declina più in termini di integrazione, fluidità e stabilità della organizzazione interna che non di modulazione della pulsionalità. L'ipotesi avanzata di una ridotta resistenza agli stressar nella società contemporanea ci riporta dunque sul terreno dei meccanismi che regolano le nostre risposte emotive, le nostre capacità di adattamento, le difese. Come acutamente osserva S. Argentieri in merito alla confinante questione delle "nuove paure", "...le tappe dello sviluppo non possono mutare nell'arco di due o tre generazioni. .. ciò che muta in relazione ai contesti storici e culturali è il senso che assumono le varie paure e il modo in cui si tenta di farvi fronte, (...). Ciò che si modifica sono semmai i meccanismi di difesa" (13). Nella clinica sono sempre più numerose e importanti le evidenze sia della diversa espressività fenomenica che possono assumere i disturbi, è emblematico in tal senso l'approdo dell'ansia al panico, sia delle trasformazioni che stanno investendo il nostro assetto ulteriore con un incremento ormai esponenziale di disturbi del comportamentoche interessano inoltre particolarmentel le fasce di età più giovanili. Da un punto di vista psicopatologico un minimo comune denominatore di tante differentii condizioni potrebbe essere individuato! proprio nella ricorrenza e nella rilevanza che in tali quadri assumono meccanismi di difesa primitivi, tipici dei livelli di funzionamento mentale più gravemente disturbati (14). Rifacendoci alla distinzione effettuata da A. Freud, parrebbe esserci oggi una prevalenza degli! stati di "restrizione dell'Io" rispetto a forme di difesa nevrotiche basate sulla inibizione degli impulsi. Tale "spostamento" verso l'utilizzo di difese più immature non riguarda peraltro soltanto il casi di conclamata patologia mentale, ma è rintracciabile anche nella cosiddetta! normalità della nostra vita, dove un paradigmatico esempio ci è efficacemente illustrato sempre da Simona Argentieri nella sua analisi dell'ambiguità come atteggiamento mentale e relazionale sorretto da meccanismi di microscissione e di "non integrazione come difesa". In psichiatria questo slittamento riattualizza la riflessione sui confini e la definizione stessa della "dimensionalità psicotica", mentre in ambito psicoanalitico ha certamente contribuito alla crescente focalizzazione! sugli stadi più precoci dello sviluppo psichico. In una lettura effettuata alla luce dell'influenza esercitata dal contesto culturale sul nostro psichismo, mi limito a evidenziare che il ricorso a meccanismi di difesa primitivi costituisce una delle cause fondamentali di debolezza dell'Io (15), nonché della compromissione della "regolazione affettiva" (16) intesa come capacità di modulare gli stati affettivi e mentalizzarli, e risponde alle! angosce più profonde di destrutturazione e disintegrazione del Sé, alle minacce di perdita e separazione. Sia i modelli psicodinamici dell'approccio evolutivo che i risultati delle neuroscienze riconoscono la centralità delle esperienze! della prima infanzia per lo sviluppo dei! meccanismi psicologici che regolano ili funzionamento mentale nell'adulto, e quindi della organizzazione di difese più o meno mature. Tuttavia gli studi sull'impatto neurona-l le degli eventi ambientali stanno con-l fermando che esso determina, sì, risposte differenti a seconda dello stadio dello sviluppo in cui si verifica, ma il cervello va incontro a trasformazioni che si estrinsecano in gradi diversi di vulnerabilità e resistenza nell'arco di tutta la! vita (17), coerentemente con l'osservazione che il raggiungimento di un determinato livello evolutivo delle difese non esclude il ritorno, in determinate condizioni, all'utilizzo di forme di funzionamento mentale più primitive. Pertanto se è legittimo ipotizzare che i sostanziali cambiamenti intervenuti nella nostra epoca nello stile educativo e nelle funzioni genitoriali stiano favorendo determinati pattern evolutivi dello psichismo che inducono un uso più massiccio o per tempi protratti delle difese più arcaiche, non è altresì infondato supporre che anche in età già adulta il significato attribuito alle variabili esterne, sempre culturalmente codificato, condizioni la scelta, più o meno consapevole, di determinati meccanismi di adattamento, che in quanto tali possono anche assumere valenze patologiche. Sul versante delle dinamiche intrapsichiche e interpersonali tutto ciò si traduce nella esigenza di una revisione e di una più puntuale definizione dei concetti di "difesa", e delle dizioni di "stile, modalità, organizzazione, comportamento, strategie" applicate al termine "difensivo", sovente usate in maniera interscambiabile, ma rapportabili a livelli di significazione e di funzionamento differenti. Dal lato invece delle interazioni con l'ambiente una premessa fondamentale a qualsiasi ipotesi esplicativa mi pare efficacemente espressa da M. Auge quando afferma che "spesso noi procediamo sostanzializzando la cultura come totalità per dedurnepoi la realtà degli individui che vi si riferiscono. Rischiarilo dì attenuare allo stesso tempo il carattere aperto e problematico della cultura, il quale dipende in gran parte dalla tensione esistente fra le domande del singolo e gli schemi culturali che, essendo i soli a permettere di rispondervi, vincolano e informano le risposte" (18). Proprio in questa tensione dialettica fra i due poli della domanda e della risposta è a mio avviso riconducibile lo statuto ontologicamente conflittuale della natura umana, mentre il variare del tipo di domanda e delle risposte rende ragione della configurazione di vulnerabilità antropologicamente determinate. Un po' come dire che la domanda condiziona il tipo di risposta difensiva. Che cosa è cambiato, dunque, nelle nostre domande, quali aspettative e voragini ha dischiuso la modernità? Una via, certamente non l'unica né la principale, che può forse offrire qualche spunto di riflessione è quella che nel travagliato percorso della nostra identità e dei nostri desideri coglie uno dei tratti più salienti della contemporaneità. Il confronto è sempre quello fra fantasia e realtà, desideri e limiti, ma ogni epoca e ogni società ne ridisegnano i contorni. I conflitti sono sempre vivi, ma gli attori non sono più gli stessi, come pure le coordinate spazio-temporali in cui si muovono. Quel che si è dilatato, ciò che in un certo senso il XX secolo ci ha consegnato con la sua apertura alla pluralità del soggetto e' innanzitutto lo spazio del desiderio. Una libido che non è più solo istintuale, che non si confronta più con una istanza super-egoica normativa per infrangere i vincoli repressivi della società, ormai decisamente fiaccata, ma che piuttosto, in una società che ha ampliato a dismisura il campo del possibile, si contende ora con immagini idealizzate di sé le fantasie, e le angosce, di superamento di ogni limite, sia esso imposto dalla sessualità, dalla morte o dalla identità personale. La realtà stessa, del resto, è avanzata, allargando gli orizzonti e trascinando con sé il senso del limite, sotto la spinta di quelle forze dell'Io, paragonate da Freud a "un esercito in marcia verso un obiettivo", di cui le difese costituiscono l'avanguardia. "La società globale appare sempre più dominata dal desiderio e dalla sua proliferazione", scrive F. Ciaramelli (19), una voce dal coro che denuncia l'entropizzazione, sostenuta dall'individualismo, di un desiderio ripiegato sul senso autoreferenziale del consumo e del possesso, a scapito della dimensione creativa della protensione verso l'inafferrabile basata su una carica affettiva, ormai spenta. È il tema, imperversante, del narcisismo che dilaga, assurto al rango di peccato originale, ma leggibile, almeno in parte, anche in chiave di dinamiche difensive, al crocevia tra risposte adatta-tive e psicopatologia. Se l'inafferrabile non è più concepito, l'inafferrato acquista uno straordinario potere frustrante e destabilizzante. "ilpeso del possibile" (20), dell'illusione del "tutto è possibile", a livello intrapsichico si traduce nel peso dell'impossibile, dell'incapacità soggettiva, attacca l'immagine di sé, promuovendo una nuova tipologia di conflitti, che investono essenzialmente la sfera dell'auto-rappresentazione e pertanto mobilitano il sistema difensivo più direttamente implicato nella regolazione dell'autostima e nella integrazione degli affetti, quello per l'appunto delle difese cosiddette primitive. Il desiderio (e con esso la tensione alla sua realizzazione), perde la funzione di significante del sé, rinuncia allo specchio interno dei sentimenti e delle passioni, di questo resta solo il potenziale minaccioso della sua carica destabilizzante e disgregante, le vetrine del mondo fanno da specchio. Lo snodo fra il "chi sono" e il "che cosa voglio" si incrina, fino a potersi spezzare del tutto. Anche il "consumo, dunque sono", sul versante intrapsichico è piuttosto un "consumo, dunque non sono...", dove il verbo essere svolge una funzione ausiliare: non sono costretto a scegliere, a confrontarmi, a sentire,... al limite, neanche a pensare. In definitiva, allora, la nostra forza e le nostre debolezze sono sicuramente rapportabili al contesto in cui viviamo. ma la capacità di adattamento si gioca sugli equilibri che riusciamo a creare fra desideri, paure e salvaguardia di sé tanto quanto sul confronto col mondo esterno. Stress è una parola che ormai può significare tutto o niente, molte diverse condizioni psicologiche e nessuna in particolare, tante differenti patologie o soltanto il timore di contrarne, o anche il nostro oscillare tra l'essere tutto o niente. Il tragitto che dal "punto critico" sfocia in una condizione di malattia è tutto sommato relativamente noto, ma quel tratto di strada che va da noi al momento di rottura degli equilibri, la possibilità di allungarne i tempi di percorrenza, in definitiva il nostro grado di resistenza, la forza, dipende molto dal significato, concreto e simbolico, che attribuiamo ai fattori esterni e dal modo di rapportarci ad essi. In ogni caso a livello psichico la partita si gioca sul piano delle difese: ciò da cui, rivolti all'esterno, ci difendiamo, definisce al contempo ciò che di noi stessi difendiamo, quello che vogliamo essere, e che vogliamo trasmettere, come valori e come imprinting biologico, alle generazioni future. Può essere il nostro senso di continuità, la nostra immagine, o le nostre passioni. Decostruire il senso dello stress, restituirgli la ricchezza dei vocaboli, delle emozioni, delle tensioni che racchiude, è determinante per il nostro benessere soggettivo, ma può servire anche a riavvicinarci al mondo che viviamo, a riappropriarcene. Si tende in genere a scordare che, a livello psichico, la vera grande rivoluzione non è stata tanto quella della società tecnologica, quanto piuttosto la straordinaria apertura che la decostruzione del soggetto unitario ha dispiegato. Nella consapevolezza della molteplicità di ciascuno di noi abbiamo maturato non solo conflitti, fragilità, smarrimento, angosce, ma anche una potente spinta propulsiva ali'ampliamento degli orizzonti, al divenire di una società che non ci sovrasta certo per realizzazione di intenti, ma semmai per la vastità delle problematiche e delle sfide, talora inedite, che si sono profilate. Technè è in ogni caso il prodotto di questa spinta, viene e resta dopo di noi. È ancora Prometeo a portare la fiamma, e a pagarne le conseguenze, ed è a lui quindi che dobbiamo rivolgerci in primis. L'approfondimento delle dinamiche psichiche che si accompagnano ai cambiamenti della società è il necessario completamento dell'analisi condotta dalle scienze sociali. Lo stress sta nell'intersezione fra soggetto e mondo, tra la singolarità e la molteplicità, fra i bisogni e i desideri, nella dimensione individuale e collettiva delle difese. Identificare i meccanismi che regolano le tensioni, le paure, le aspettative, la definizione di se stessi, vuoi dire permetterne la rielaborazione, valorizzando processi di adattamento creativi e non mortiferi alla realtà, consente di salvaguardare la nostra integrità ideo-affettiva e i valori in cui crediamo, due facce della stessa medaglia. Decostruire il significato del termine "stress " significa anche contribuire alla decostruzione di quell'immagine a tinte fosche di noi che ci viene incessantemente riproposta nella tendenza dominante a un catastrofismo senza possibilità di scampo. Significa anche, nelle parole di P. Rossi, riconoscere "che si possa continuare a vivere con una sopportabile dose di angoscia" (21). Certo, non senza tensione. 1. Steiner G. (2001), Linguaggio e silenzio, Garzanti. 2. Selye H. ( 1936). A syndrome produced by diverse nocuous agent, in: Nature, n.138, 1936. 3. Baumann Z. (1999), La società dell'incertezza, II Mulino. 4. Taylor C. (1994), II disagio della modernità, Laterza. 5. Baumann Z. (2000), Modernità liquida, Laterza. 6. Horowitz M.J. Kernberg O.F, Weinshel E.M. (a cura di), (1998), Struttura e cambiamento psichico, Franco Angeli. 7. Freud S. (1937). In: Opere, voi. XI, Bo-ringhieri

....etc.

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