mercoledì 22 agosto 2012

ILVA COME ETERNIT?

orso castano : ebbene si ILVA come ETERNIT , e come chissa' quante altre realta' industriali che mettono il profitto al primo posto infischiandosene della vita e della salute dei lavoratori e delle persone che vivono in quel contesto. Il problema , in un mondo globalizzato , dove la delocalizzazione per profitto e per vincere la concorrenza . dove lo sfruttamento aumenta sempre di piu', globalizzandosi, come K Marx aveva previsto , va affrontato , e da subito , dai sindacati di tutto il mondo a livello globale. Siamo in forte ritardo , la finanza corre veloce e finanzia speculatori d'ogni sorta e senza peli sullo stomaco che hanno come unico valore e come unica ragion d'essere l'accumulazione del capitale per vincere o morire. E' una sorta di guerra santa in nome dell'accumulazione in cui i vinti sono fuori dai templi del dio danaro come wall street ed altro. Eppure , come diceva Marcuse , oggi la tecnologia e' in grado di sfamare tutti e bene, ma non sfamera' mai la brama di potere e non riuscira' a costruire una nuova identita' umana. Tocchera' alla Politica internazionale , ma sara' una lotta lunga e duraa....
Intervista a Silvana Mossano, che ha seguito tutti gli sviluppi della vicenda di Casale Monferrato
Migliaia di posti di lavoro a rischio e moltissime vite altrettanto a rischio. Operai che scendono in piazza per difendere la loro unica possibilità di reddito e operai che scendono in piazza per difendere il diritto alla salute. Tecnici aziendali che spiegano la possibilità di produrre in modo pulito e scienziati che affermano il contrario. Quello che si sta svolgendo in questi giorni a Taranto è un film già visto per Silvana Mossano, giornalista de ’La Stampa’ che ha seguito la vicenda della Eternit di Casale Monferrato: la fabbrica di amianto chiusa nel 1986 i cui due principali dirigenti sono stati condannati a 16 anni ciascuno perché ritenuti responsabili della morte di 2191 persone. "Di fronte alla cartella clinica di un bambino morto di tumore – racconta la giornalista di Alessandria – un magistrato non può fare altro che intervenire subito". 
Silvana Mossano ha seguito la vicenda della fabbrica di amianto fino alla conclusione giudiziaria senza precedenti che ha visto la condanna dei due proprietari Jean Louis deCartier e Stephan Schmidheiny. E ora, di fronte al dramma della cittadina ionica non vede molte differenze rispetto a quanto accaduto a partire dalla fine degli anni settanta a Casale Monferrato. "E’ una questione di tempi – spiega – adesso la fabbrica è ancora attiva e impiega tantissime persone. E’ chiaro che la paura sia tanta. Ma anche da noi è stato così: nei primi anni ottanta la direzione aziendale aveva già deciso che prima o poi l’attività sarebbe cessata. Lo stabilimento era del 1906 quindi molto obsoleto e troppo costoso daristrutturare e mettere in sicurezza. Inoltre i rischi ambientali non erano più nascondibili. Infatti nel 1986 la fabbrica chiude perché la direzione porta i libri in tribunale. Ma gli operai non sapevano di queste intenzioni e hanno lottato fino alla fine per mantenere il posto di lavoro". Insomma anche nel più ricco Piemonte e in un periodo di crescita economica come gli anni ottanta il ricatto fra posto di lavoro e salute funzionava eccome. "Basti pensare – prosegue Silvana Mossano – che nel 1987, un anno dopo la chiusura, un’azienda francese propose di rilevare la fabbrica e assumere parte dei lavoratori rimasti a casa. In quel momento in molti ci sperarono, nonostante tutto quello che era successo. Il sindaco disse che potevano riaprire a patto che non utilizzassero l’amianto nei processi produttivi. I francesi si rifiutarono e non se ne fece nulla". 
Secondo la giornalista il problema, uguale a Casale Monferrato come a Taranto, è sempre uno: "La gente preferisce credere ai discorsi che fanno le aziende e suonano più o meno così: “Una volta con i vecchi sistemi faceva male ma adesso non più”. In realtà non è mai così e ancora oggi in Brasile si produce amianto con metodi dannosissimi". A Taranto i posti di lavoro a rischio sono davvero tantissimi, si parla di 12mila più indotto, e le organizzazioni dei lavoratori ci stanno andando con i piedi di piombo. E proprio su questo la giornalista che ha seguito il caso Eternit ha qualcosa da dire: "Mi sarei aspettata che i sindacati intervenissero prima. Certo il problema sociale è di una portata enorme ma credo che il diritto alla salute sia ancora più importante di quello al lavoro". Silvana Mossano ci tiene però a specificare meglio questa sua affermazione: "Il lavoro e la vita sono due diritti sanciti dalla Costituzione italiana. Un lavoratore volendo potrebbe anche scegliere di dare la priorità al suo reddito nonostante i danni alle sue condizioni fisiche. Il problema è che queste fabbriche colpiscono tutta la popolazione di un territorio e non solo chi ci lavora dentro. A Casale ci sono ancora oggi persone che muoiono a causa dell’amianto e ancora ce ne saranno perché la malattia ha un’incubazione che può arrivare fino a trent’anni". 
Secondo la giornalista piemontese, quindi, le prospettive per l’Ilva non sono certamente rosee: "Quando emergeranno le indagini epidemiologiche più accurate a molte persone tremeranno i polsi. Il posto di lavoro è sacro e anche la cassa integrazione è una situazione drammatica e insopportabile ma il punto è che da certe diagnosi non si torna indietro. E allora ci si chiede cosa è stato fatto visto che di questo problema si sa da tempo. Evidentemente nulla o non abbastanza. Non è possibile mettere sullo stesso piano il lavoro e la salute. Ho saputo che a Taranto sono stati scoperti casi di bambini affetti da malattie dovute alle emissioni. Anche questa volta si tratta di persone che non hanno nemmeno potuto avere i benefici di uno stipendio e di un lavoro. Hanno semplicemente subito gli effetti devastanti dell’inquinamento". Silvana Mossano si ritrova quindi di fronte allo stesso dramma che lei stessa ha seguito e documentato per anni e prova a immaginare un finale diverso per la situazione di Taranto: "Anche oggi c’è chi dice che investendo per cambiare metodo di produzione non si sarebbe più competitivi con la Cina e i Paesi asiatici. Tutte cose probabilmente vere, ma io vorrei che le persone si trovassero per un momento davanti alla diagnosi di tumore incurabile. Come in un sogno vivido dal quale si risvegliano solo dopo aver provato quella disperazione e quella paura. Allora sì che capirebbero". 

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