giovedì 31 maggio 2012

da la Repubblica.it nuovo art.18


LA SCHEDA

Articolo 18, ecco la nuova formula  nata dall'accordo governo-partiti

Dopo le dure polemiche tra Palazzo Chigi e sindacati, con il Pd a difendere il diritto al reintegro previsto dalla Statuto dei lavoratori, il vertice di martedì a Palazzo Giustiniani 1ha portato a un accordo che reintroduce la possibilità di rientrare al lavoro se i motivi oggettivi addotti dall'azienda fossero "manifestamente insussistenti".

TUTTE LE MISURE DELLA RIFORMA SUL LAVORO 2

Ecco il quadro completo delle modifiche all'articolo 18 che saranno previste nell'articolo 14 (il testo 3) del disegno di legge di riforma del mercato del lavoro. Rimane in vigore la soglia dei 15 dipendenti, sotto la quale l'articolo 18 non si applica.

COM’È OGGICOME SARÀ
Licenziamento individuale per motivi economici *Il licenziamento individuale per motivi economici, riconosciuti come validi, è già previstoe non dà diritto né al reintegro né all’indennizzo.Non cambia
- applicabile fino a 4 dipendenti nell’arco di 120 giorni
Se il giudice ritiene non valido il motivo economico addotto dall’azienda, può decidere il reintegro del lavoratore. Sarà il dipendente, nel caso, a scegliere in alternativa l’indennizzo.Se il giudice ritiene non valido il motivo economico addotto dall’azienda, dovrà decidere per l’indennizzo economico, che sarà tra le 12 e le 24 mensilità in base alle dimensioni dell’azienda, dell’anzianità del lavoratore e del comportamento delle parti nella fase di conciliazione.
L'unico caso in cui il lavoratore avrebbe diritto al reintegro è se il giudice trovasse che i motivi addotti dall'azienda sono "manifestamente insussistenti"


L'onere della prova è a carico dell'azienda. Se il giudice valuta che le motivazioni economiche nascondo motivi discriminatori o disciplinari, si ricadrà nei casi qui di seguito.Non cambia

Licenziamento per motivi disciplinariSe il giudice riconosce validi motivi disciplinari, non scatta né il reintegro né l’indennizzoNon cambia
Come per i licenziamenti per motivo economico, il giudice che ritiene non valido il motivo disciplinare addotto dall’azienda, può decidere il reintegro del lavoratore. Sarà il dipendente, nel caso, a scegliere in alternativa l’indennizzo. Di fatto, oggi non esiste differenzaIl giudice avrà di fronte due alternative:
1. se il fatto imputato al lavoratore non sussiste, o non è stato commesso dal lavoratore o se è un motivo punibile con una sanzione conservativa (secondo i contratti di settore), allora deciderà per il reintegro, in aggiunta al pagamento della retribuzione per tutto il periodo tra il licenziamento e il reintegro stesso.
2. in tutti gli altri casi di motivo ingiustificato ci sarà l’indennizzo, che lo stesso giudice stabilirà tra le 12 e le 24 mensilità in base alle dimensioni dell’azienda, dell’anzianità del lavoratore e del comportamento delle parti

Licenziamento per motivi discriminatoriSe il giudice non riconosce la discriminazione, il licenziamento resta validoNon cambia
 - Si applica anche alle aziende con meno di 15 dipendentiIl lavoratore può impugnare il licenziamento e deve dimostrare davanti al giudice che è stato discriminatorio. Se il giudice ritiene fondato il ricorso, annulla il licenziamento e reintegra il lavoratore. Il lavoratore può decidere di optare per un indennizzo di 15 mensilità.Non cambia

* Questo tipo di licenziamenti prevederà una procedura di conciliazione presso la Direzione territoriale del lavoro. Se il tentativo fallisce entro 20 giorni, il datore di lavoro comunica il licenziamento. A quel punto il dipendente potrà la possibilità di ricorrere in tribunale
(05 aprile 2012)




Il parerare di Camusso


Roma, 31 mag. - (Adnkronso) - ''Il disegno di legge e' squilibrato. Non interviene sufficientemente nel contrasto alla precarieta', ha delle soluzioni sugli ammortizzatori che contrastano e che contrasteranno con la dimensione della crisi e con la gestione che ci sono dei problemi. E quindi contienueremo le nostre iniziative, siamo in presidio davanti al Senato, per provare a modificare il provvedimento alla Camera''. Ad affermarlo e' il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, in merito alla riforma del lavoro, a margine dell'Assemblea di Banca d'Italia.



LICENZIAMENTO – REINTEGRAZIONE NEL POSTO DI LAVORO (ordinamento attuale che potrebbe essere trasformato)

Questione 1
Cosa può fare un lavoratore qualora, disposta la reintegrazione da parte del giudice a seguito dell'accertamento della illegittimità del licenziamento inflittogli, non intenda tornare al lavoro?
L'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori prevede che il giudice, qualora annulli un licenziamento (per esempio, perché intimato senza giusta causa o giustificato motivo, oppure perché discriminatorio o intimato a voce), ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. Inoltre, nello stesso caso, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno, nella misura della retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione, oltre al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali; in ogni caso, l'indennità dovuta a titolo di risarcimento del danno non potrà essere inferiore a cinque mensilità.
Peraltro, l'art. 18 S.L. è applicabile solo ai datori di lavoro, imprenditori o non imprenditori, che abbiano alle proprie dipendenze più di quindici dipendenti nell'unità produttiva in cui è avvenuto il licenziamento, ovvero nell'ambito dello stesso comune (il numero dei dipendenti è ridotto a più di cinque se il datore di lavoro è un imprenditore agricolo); inoltre, la norma in questione è applicabile ai datori di lavoro che occupino, complessivamente, più di sessanta lavoratori.
La recente riforma introdotta dalla legge n. 108 del 1990 ha anche considerato l'ipotesi che il lavoratore, reintegrato a seguito di un illegittimo licenziamento, preferisca rinunciare al posto di lavoro. L'ipotesi è disciplinata dall'art. 18 c. 5 dello Statuto dei Lavoratori, così come modificato dalla citata L. 108/90. Più precisamente, la legge prevede che il lavoratore, a seguito dell'ordine di reintegrazione formulato dal giudice, opti per la risoluzione del rapporto in cambio di una indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto. In altre parole, il lavoratore ha la facoltà di domandare al datore di lavoro, al posto della reintegrazione, la somma ora indicata, che andrà ad aggiungersi a quella già liquidata dal giudice a titolo di risarcimento del danno e di cui si è già detto.
Tuttavia, il lavoratore deve esercitare tale facoltà nel termine tassativo di trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza. In ogni caso, fino a quando l'opzione non sia stata esercitata, il lavoratore ha diritto alla retribuzione dovuta a far tempo dalla sentenza di reintegrazione. La Corte di cassazione ha precisato che la retribuzione è dovuta anche nel caso in cui il lavoratore non ottemperi all'invito, rivoltogli dal datore di lavoro, di riprendere servizio (sentenza n. 6494 del 7/6/91); a tale riguardo, si tenga però presente che, se entro trenta giorni dall'invito il servizio non viene ripreso, il rapporto è automaticamente risolto senza diritto ad alcuna indennità.
Inoltre, la Corte Costituzionale (sentenza n.291/96) ha affermato che la facoltà insindacabile di monetizzare il diritto alla reintegrazione in una prestazione pecuniaria di ammontare fisso, attribuita al lavoratore dal 5° comma dell'art. 18 S.L., non può essere vanificata dalla revoca del licenziamento da parte del datore di lavoro, nel corso del giudizio avanti l'Autorità Giudiziaria; tale revoca infatti non può giungere ad effetto se non vi è accettazione del dipendente.
Questione 2
Nel caso in cui un lavoratore, accertata la illegittimità del licenziamento, venga reintegrato nel posto di lavoro, che ne è dei contributi dovuti per il periodo che intercorre dal licenziamento alla reintegrazione?
Fino a qualche tempo fa, la questione era, per la verità, controversa, sebbene risolta, dalla maggioranza dei giudici, nel senso che la posizione contributiva del lavoratore illegittimamente licenziato andava comunque regolarizzata. Attualmente, invece, la legge disciplina espressamente la questione. L'art. 18 S.L., a seguito della modifica introdotta dalla L. 108/1990, ha stabilito che il giudice, accertata la illegittimità del licenziamento, oltre a ordinare la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato, debba condannare il datore di lavoro al risarcimento del danno, corrispondendo una indennità commisurata alla retribuzione dovuta dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione, nonché al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dovuti nello stesso periodo.
Poiché il risarcimento del danno è dovuto nella misura minima di 5 mensilità, potrebbe accadere che l'indennità menzionata sia superiore alle retribuzioni effettivamente perdute. Ciò potrebbe accadere se il lavoratore fosse reintegrato prima della scadenza del quinto mese dalla data del licenziamento. E' peraltro ovvio che, in questo caso, il versamento dei contributi deve coprire solo il tempo effettivamente intercorrente tra il licenziamento e la reintegrazione.
Invece, la legge non disciplina la questione contributiva in ordine alla indennità, commisurata a 15 mensilità, che il lavoratore può rivendicare al posto della reintegrazione. Resta così controverso se, in questo caso, il datore di lavoro sia anche obbligato al versamento dei contributi. A tale riguardo, bisogna però segnalare che l'Inps ha emanato una circolare secondo la quale i contributi non sono dovuti, dal momento che la somma non viene corrisposta a titolo di retribuzione, avendo natura risarcitoria.
Discorso analogo viene fatto per il caso in cui, nelle aziende di minori dimensioni, alle quali non sia applicabile l'art. 18 S.L., il datore di lavoro, invece di riassumere il lavoratore illegittimamente licenziato, preferisca corrispondergli l'indennità stabilita dalla legge (da 2,5 a 6 mensilità). Si è infatti sostenuto che, stante la natura risarcitoria della somma dovuta, il datore di lavoro non è tenuto al versamento contributivo.
Questione 3
A seguito della reintegrazione, il lavoratore illegittimamente messo in mobilità deve restituire il TFR percepito al momento del licenziamento? E l'Inps potrebbe pretendere la restituzione della indennità di mobilità corrisposta?
Sicuramente, il lavoratore licenziato, reintegrato nel posto di lavoro a seguito di una sentenza di accertamento della illegittimità del licenziamento, deve restituire il TFR eventualmente percepito. Tuttavia, questa regola generale incontra precise limitazioni. In primo luogo, bisogna distinguere se il provvedimento giudiziario di reintegrazione sia una sentenza, ovvero un provvedimento cautelare d'urgenza (si tratta del provvedimento che conclude la fase, appunto, d'urgenza che di regola, in caso di licenziamento, precede il vero e proprio giudizio di primo grado a cognizione piena). Infatti, una recente sentenza ha stabilito che, in quest'ultimo caso, il lavoratore può rivendicare il pagamento del TFR non corrisposto. Infatti, solo la sentenza, e non il provvedimento d'urgenza, ricostituisce il rapporto di lavoro (così Pret. Frosinone 4/2/94, est. Cianfrocca, nella causa Air Capitol Srl contro Battista).
Inoltre, secondo la Corte di cassazione, il datore di lavoro non può, unilateralmente e senza il consenso del lavoratore, recuperare somme che pretende essere dovute mediante trattenute sulla retribuzione. Al contrario, se il lavoratore contesta l'esistenza del credito, il datore di lavoro deve promuovere un giudizio che ne accerti l'esistenza. Infatti, consentire la unilaterale trattenuta sulla retribuzione equivarrebbe a riconoscere al datore di lavoro un potere di autotutela estraneo all'ordinamento giuridico (così Cass. 7/9/93 n. 9388, pres. Mollica, est. Buccarelli, nella causa Cosentino e altri contro A.C.T.P.N.).
In ogni caso, l'art. 545 cpc dispone che le retribuzioni e le "altre indennità relative al rapporto di lavoro" non possono essere pignorate in misura superiore ad un quinto. Pertanto, anche se, contro la giurisprudenza sopra citata, si ammettesse la possibilità di una sorta di compensazione automatica tra i crediti, il datore di lavoro non potrebbe trattenere più di un quinto della retribuzione.
Quanto alla indennità di mobilità, anch'essa deve essere restituita, peraltro sempre secondo la regola imposta dall'art. 545 sopra citato. In ogni caso, va detto che la restituzione dell'indennità in questione non costituisce un danno per il lavoratore, poiché la sentenza che accerti la illegittimità del licenziamento condanna il datore di lavoro a corrispondere la retribuzione piena per un periodo almeno pari a quello in cui è perdurata la messa in mobilità.
Questione 4
E' vero che alcuni vorrebbero innalzare la soglia dei 15 dipendenti, prevista per la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato?
Il tema del giorno, in materia di lavoro, è senza dubbio l’innalzamento del tetto di 15 dipendenti, al fine dell’applicabilità dello Statuto dei diritti dei lavoratori e conseguentemente a tutto l’apparato di diritti e libertà sindacali, e al limite ai licenziamenti, attraverso la norma che sancisce l’obbligo della reintegrazione nel posto di lavoro a seguito di licenziamento dichiarato illegittimo dal Giudice.
Si dice che il limite è oggi anacronistico e che altri dovrebbero essere i parametri per valutare le dimensioni dell'impresa: ma poi si dice anche che la soluzione ideale sarebbe non solo innalzare tale limite, ma anche sottrarre ai giudici della Repubblica la valutazione circa la fondatezza dei licenziamenti, per affidarli a collegi arbitrali privati. Si potrebbe discutere a lungo se l’innalzare il limite di 15 dipendenti sia oggi opportuno o meno, ma pare comunque necessario ricordare che quel limite non voleva indicare solo le dimensioni dell’impresa, ma anche e soprattutto consentire la reintegrazione, in caso di licenziamento illegittimo, solo in aziende le cui dimensioni in termini di occupazione consentissero il reinserimento senza traumi particolari. Vi è ancora da ricordare che pochi anni fa, al fine di evitare un referendum proprio sul numero dei dipendenti ai fini dell’applicazione dello Statuto, si andò nella direzione opposta, introducendo tutele anche sotto il limite di 15 dipendenti.
Vi è ancora da osservare che la tutela dei diritti dei lavoratori negli ultimi anni è già andata affievolendosi notevolmente; non solo, ma le imprese hanno da tempo escogitato diversi sistemi (frammentazione dell’azienda in svariate società, out-sourcing, contratti di parasubordinazione), per sfuggire all’applicazione delle norme dello Statuto. La flessibilità oggi in Italia è sicuramente massiccia, nel campo del lavoro. Un altro esempio è dato dalla introduzione del lavoro interinale, cui si collegavano effetti miracolosi in termini di aumento dell’occupazione.
Quello che non si è ancora riusciti ad eliminare del tutto è il controllo della Magistratura sulla legittimità e fondatezza dei licenziamenti. Ma siamo certi che gli italiani preferiscano vivere in un paese in cui chiunque può essere licenziato per i motivi più strani, senza alcun controllo giudiziale e senza possibilità di ripristinare la situazione, in caso di accertamento della illegittimità del comportamento datoriale ?
In sostanza viene addossata alla Magistratura la colpa di non consentire un’adeguata flessibilità, con ciò non dicendo fino in fondo che quel che si vuole è una mancanza totale di controllo della legittimità sui licenziamenti. Il cattivo funzionamento della Magistratura è infatti rappresentato dall’annullamento di troppi licenziamenti: ma questo significa solo che troppe imprese effettuano licenziamenti viziati, mal fatti, discriminatori, di ritorsione, e, in una parola, privi di giustificazione.
La soluzione sarebbe dunque rappresentata dalla possibilità di sottrarre i licenziamenti (ma, possibilmente anche la tutela di tutti i diritti dei lavoratori) al controllo di un organo terzo, come la Magistratura, colpevole di eccessiva rigidità e di un esasperato garantismo, per rivolgersi a un soggetto privato (il Collegio Arbitrale), che dovrebbe svolgere lo stesso ruolo di garanzia e di controllo, ma con ben minore rigidità.
Si riproduce in questo caso quello che è già avvenuto in materia di collocamento: quando si ritiene che un apparato dello Stato non funzioni, non si opera per renderlo efficiente e farlo funzionare al meglio, ma si preferisce che lo Stato si faccia da parte, abdicando al suo ruolo, per affidare ai privati i compiti che dovrebbero essere pubblici.
E non si dica che in tal modo non si cercano diversi e non confessabili risultati, in quanto il fatto che il terzo che dovrebbe valutare la fondatezza di un licenziamento sia un soggetto pubblico o un soggetto privato, dovrebbe, di per sé, essere ininfluente.
Tutto questo, per di più, in un paese in cui tra le tante falle della giustizia, la giustizia del lavoro viene additata come l’unica isola felice di buon funzionamento. Ma forse è proprio questo l’aspetto che non va bene.
Questione 5
Il lavoratore illegittimamente licenziato può essere reintegrato in una diversa unità produttiva?
Come è noto, accertata l'illegittimità di un licenziamento intimato da un datore di lavoro che occupi più di 15 dipendenti presso ciascuna sede o stabilimento, ovvero più di sessanta lavoratori complessivamente, il Giudice deve ordinare la reintegrazione del lavoratore nel suo posto di lavoro. Talvolta però accade che il datore di lavoro, dopo aver subito questa condanna, di fatto la aggiri, reintegrando il lavoratore in una posizione differente da quella occupata prima del licenziamento; talvolta, la reintegrazione avviene addirittura presso una diversa unità produttiva. Come si diceva, in questo modo l'ordine di reintegrazione viene adempiuto solo parzialmente e, nella sostanza, viene disatteso, dal momento che, a seguito di un licenziamento ingiustificato, sarebbe necessario ricostituire la situazione così come era prima dell'atto illegittimo. Al contrario, la reintegrazione del lavoratore in una posizione diversa è inidonea a rimuovere tutti gli effetti lesivi del licenziamento annullato dal Giudice.
Un'ipotesi simile a quella di cui si è appena detto si era verificata nel caso esaminato dalla sentenza n. 3248, pronunciata dalla Corte di cassazione in data 3/4/99. Infatti, in quel caso, il datore di lavoro, dopo essere stato condannato a reintegrare il lavoratore illegittimamente licenziato, aveva provveduto a riammettere in servizio il lavoratore in questione in una diversa posizione lavorativa e, addirittura, in un diverso luogo di lavoro. Questo comportamento è stato ritenuto illegittimo dalla sentenza citata. Infatti, la Corte ha ritenuto che l'ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, emanato dal giudice per sanzionare un licenziamento illegittimo, esige che il lavoratore sia, in ogni caso, ricollocato nel posto occupato prima del licenziamento. Solo dopo questa effettiva reintegrazione, il datore di lavoro ha la facoltà - eventualmente - di trasferire lo stesso lavoratore, ovviamente nel rispetto dei limiti imposti dall'art. 2103 c.c. che, in particolare, consente al datore di lavoro di trasferire un proprio dipendente da una sede ad un'altra solo in presenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive: in altre parole, il trasferimento è legittimo a condizione che il lavoratore non sia più utilizzabile nella sede di provenienza e sia invece indispensabile in quella di destinazione.
La Suprema Corte ha chiarito che la regola sopra enunciata si giustifica anche in considerazione della scelta, operata dal legislatore, di tutelare la posizione del lavoratore illegittimamente licenziato nella sua effettività, ovvero avendo riguardo della sua professionalità ma anche della sua vita sociale e familiare: evidentemente, tutto questo sarebbe pregiudicato se il lavoratore illegittimamente licenziato non fosse reintegrato nel medesimo posto di lavoro. Naturalmente, la tutela offerta dal legislatore contro un simile pregiudizio varrebbe anche qualora il posto di lavoro in questione fosse stato nel frattempo assegnato ad un altro lavoratore: in altre parole, una simile eventualità sarebbe irrilevante e non assolverebbe il datore di lavoro dall'obbligo di reintegrare il lavoratore nella posizione lavorativa ricoperta prima di essere illegittimamente licenziato.




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