domenica 8 luglio 2012

Mr President anni fa, da La Stampa .it


IL LIBRO
9/3/2006 - ESCE L'AUTOBIOGRAFIA DELL'EX PRESIDENTE DELLA CAMERA
Napolitano, l’avventura nel Pci di un leader migliorista, clicca x art.
DI ANTONELLA RAMPINO
Il dissenso con Berlinguer certo, e soprattutto quello sulla solidarietà nazionale, che per Giorgio Napolitano avrebbe potuto introdurre il Pci a una svolta socialdemocratica, mentre per il segretario di Botteghe Oscure era un passaggio comunque segnato dalla «diversità» dei comunisti dai democristiani. Il Pci che nella sua lunga storia muove prestissimo, e in maniera spesso inattesa da gran parte del suo stesso gruppo dirigente, in direzione di quello che solo decenni dopo sarà «lo strappo» da Mosca. La parabola lunga, e anche ellittica, che va appunto Dal Pci al socialismo europeo, come dal titolo apposto in copertina al libro pubblicato da Laterza (pag.346, 22 euro). Ma nell’«autobiografia politica» di Giorgio Napolitano, ottantenne da poco rientrato in Parlamento come senatore a vita (e già il suo nome circola nella ristretta rosa per il Colle), c’è molto di più che il memoriale di un comunista di lungo corso nelle istituzioni, quelle del Partito e quelle della Repubblica.
Chi lo conosce bene, nella vasta comunità politica anche internazionale con la quale è entrato in contatto nel corso di una carriera politica fuori dall’ordinario, s’è stupito non poco che un uomo che ha fatto del riserbo, della moderazione, del pacato e serio approfondimento, in una parola dell’understatement anche politico un carattere, abbia deciso di dare alle stampe la propria autobiografia. Un’operazione in genere non facile, e particolarmente per un dirigente comunista, poiché le storie che la Storia sempre contiene si prestano per un politico a visioni di parte, a ricostruzioni personalistiche, a qualche ovvia reticenza, fosse solo dettata dal bon-ton. Non è così naturalmente, o non interamente così, e decrittate dal racconto puntiglioso (altro tratto distintivo di Napolitano) emergono invece ricostruzioni nitide, per analisi e anche per sentimento.
Agli inizi degli anni Cinquanta, per esempio, un appena venticinquenne Napolitano folgorato dal «partito nuovo» di Togliatti (il Migliore lo incanta discutendo di Stendhal) si accorge subito che «i compagni...ignoravano il pensiero di Keynes, il New Deal rooseveltiano, le esperienze riformatrici della socialdemocrazia scandinava, le scelte di governo del laburismo inglese...». Ignoravano già allora, insomma, quel che solo ora s’affaccia come esemplificazione nel magma programmatico dell’Ulivo che guarda, per il futuro, in direzione di un partito unico. Il giovane napoletano destinato poi a essere parlamentare italiano per trentott’anni, a partire praticamente dagli albori della Repubblica, fino a chiudere con cinque anni a Strasburgo un percorso che lo aveva portato a presidere la Camera, alla responsabilità del Viminale nel primo governo Prodi, dopo aver «ceduto il passo a Berlinguer», come lui stesso dice, nella successione a Longo nell’autunno del ‘68, si accorge insomma sin da subito che la storia dell’Italia, oltre che quella del partito nel quale milita, sarà a lungo una «storia di riformismo negato», «la storia dell’impotenza a riformare».

Sin dall’immediato, l’uomo che s’era iscritto al Pci solo dopo aver incontrato Giorgio Amendola («energia politica allo stato puro»), e che poi con lui condividerà l’appellativo che qualcuno userà come epiteto, di «migliorista», prende posizioni inconsuete. Dai dubbi espressi, anche in Parlamento, sulle modalità di nazionalizzazione dell’industria elettrica (poi naturalmente votata per ovvia disciplina di partito), alla valutazione della segreteria Fanfani, capace di «introdurre fattori rilevanti di modernizzazione e dinamismo, laddove invece noi comunisti cogliemmo rischi di autoritarismo e integralismo» (che poi si esplicitarono con l’esperienza del governo Tambroni, ma ciò non toglie che Fanfani fu nel ‘62 l’autore del primo governo di centrosinistra, sia pure per la via dell’astensione dei socialisti)

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