mercoledì 17 agosto 2011

La concezione della morte nella cultura africana e il dramma di Lampedusa (la dolorosa morte degli immigrati africani) di Jean-Pierre


orso castano :si lo so la lettera e' lunga , ma va pubblicata lo stesso e va letta, gli esseri umani dei barconi africani soffrono e piangono come gli italiani piu' poveri e sfortunati.Se esiste una parola che e' come una pietra milare  eredita' del vangelo , bene questa e' la parola "fratello". Purtroppo bistrattata, logora, dimenticata e calpestata. Tocca gridarla forte e sempre perche' dobbiamo "restare umani"



"Ho pensato di fare una breve riflessione sul senso e il significato della morte nella cultura africana prendendo spunti da quello che sta succedendo nel Mediterraneo in questi anni e in questi giorni: La terribile morte dei miei connazionali dell’Africa subsahariana. Ma la Morte per un africano cos’è?Ho potuto raccogliere qui a Verona la testimonianza di diversi immigrati africani dell’Africa Nera arrivati da Lampedusa nei centri di accoglienza della nostra città, nonché quello del vice parroco di Lampedusa don Vincent d’origine tanzaniana che era passato a visitarmi. Due delle numerose testimonianze ascoltate mi hanno particolarmente toccate. Sono quelle di Tairou e di Soko. Due giovani di robusta costituzione fisica che mi raccontano che eranno arrivati in Libia dopo un lungo attraversamento dei paesi africani come la Nigeria, il Niger, il Ciad prima e il deserto del Sahara dopo. Tairou viene dal Togo, mentre Soko dal Ghana, ma entrambi uniti dallo stesso sogno: Uscire dalla miseria economica e dalla dittatura/violenza politica in cui versano i loro paesi e arrivare finalmente in Europa per trovarvi una migliore condizione di vita attraverso il lavoro, ogni genere di lavor, a costo di dormire sotto i ponti e nelle case dirocate. Per questi due giovani l’Europa non è un miraggio, ma rappresenta un ‘opportunità come avevano letto nei libri di testo nelle scuole elementari e medie che hanno avuto la chance di frequentare.
Tairou e Soko mi hanno messo in condizione di capire attraverso i loro racconti la dura vita che conducono gli africani subsahariani in Libia soprattutto nell’ambito di lavoro nei campi dove vengono impiegati con uan misera paga che non gli permetteva nemmeno di acquistare una sigaretta e meno meno una scheda telefonica per chiamare i parenti laggiù e nella società libica in genere, dove i neri non  ben visti. Una vita dura piena di insidie, di rischi legati proprio alle condizioni stessa di lavoro senza alcuna tutela sindacale, con misere paghe e con una vistosa mancanza di sicurezza. Questi lavoratori dell’Africa subsahariani sono quotidianamente alla preda dei caporali e dei ricconi  libici.
Con lo scopio della guerra in Libia aveva due soluzioni davanti agli occhi:  tornare in Africa Nera che avevano lasciato qualche anno o mese prima o avventurarsi con dei mezzi di fortuna (barconi, zattere, vecchie navi guidate da qualche passeur con scarsi mezzi di navigazione, incompetenti nella guida di tali mezzi). Una scommessa fatta da altri d’origine africana,  come dei senegalesi, ivoiriani, nigeriani, ghanesi, sudanesi, eritrei, etiopi, nigerini, burkinabè ecc.. Arrivo al punto che mi interessa sottolineare oggi in quest’articolo: Il viaggio di questi africani in compagnia della sorella Morte. La morte è la costante di questo lungo viaggio prima dai paesi d’origine e poi dalla Libia verso le coste italiane e in particolare modo verso il porto di Lampedusa, pi’ vicino alla Libia (90 km) che non dalla terra ferma italiana (Porto di Empedocle 120 km). I nostri narratori Tairou e Soko mi raccontano il fatto che già prima di salire sulla loro nave di fortuna, accanto a loro c’erano alcuni soccoritori (non libici, ma africani neri) che tiravano fuori dall’acqua sottostante alcuni corpi senza vita. Una vecchia nave si era sfraccellata causando molte vittime tra cui bambini e molte donne. Corpi come degli stracci vengono innalzati e riportati sulla terra ferma. Corpi che rimarranno senza alcuna sepoltura, al massimo vengono portati lontano per una fossa comune, senza menzione di nome, né della provenienza. Sepoltura senza cerimonie e senza riti degni tale nome.  Mentre erano sulla nave verso l’Italia, Tairou e Soko notano continuamente sull’acqua del mare corpi galleggianti e i loro cuore batteva a mille, sapendo che i loro stessi corpi possono trasformarsi da vivi a galleggianti se la loro nave dovesse fare qualche scherzo percorso facendo. E allora, per i miei connazionali africani cosa rappresenta la MORTE che li accompagna in questo lungo e tremendo  viaggio? Come la guardano in quanto africani con una propria Weltanschaung questa tremenda realtà? E’ la stessa domanda che ho potuto porre a Tairou e a Soko quando hanno concluso i loro racconti fatti da parole e profondi silenzi che significano mancanza di lessico o di vocabolario adeguati per dire…tutto…quello che “abbiamo vissuto, subito e visto”. Mi hanno detto due cose li ha invasi nell’animo: La paura e la Fragilità. Quindi per loro la morte è rappresentata da queste due cose: paura e fragilità. Che cos’è in realtà la morte per la cultura africana e come viene accolta dall’inviduo e dalla sua comunità di appartenenza. Da notare che l’inviduo e la comunità sono in perfetta simbiosi. Non esiste l’uno senza l’altra e vice versa (svilupperemo questo concetto in altre occasioni). La morte è concepita nella cultura africana come una realtà vivente, che puo’ rendere visita in qualsiasi momento dell’esistenza. Tra la morte e la vita non c’è un confine ben definito e netto. Entrambe rendono visita ad ogni creatura del Cosmo, e ne hanno diritto. La morte nella cultura africana subsahariana non la finitudine, l’assenza definitiva e nemmeno un entità che viene a rapire un membro della comunità dei viventi visibili. Essa, la morte non è inoltre concepita come un gigantesco braccio “armato” che distrugge le potenzialità e le energie che la Madre-Natura ha fornito alle persone per vivere, per crescere, per procreare o perpetuarsi o per realizzare i loro talenti e doni della natura stessa. Tanto che si dice comunemente nella tradizione africana che chi ama la vita, deve accettare che la sua vita conviva con la morte. La morte stessa è vista come un veicolo necessario su cui ogni persona deve salire per entrare definitivamente nella grande comunità che è  la Comunità dei Viventi Invisibili dove continuano a vivere e a intercedere per ogni donna e uomo i testimoni intramontabili: gli  ANTENATI. 
Naturalmente anche in Africa quando scompare una persona, c’è la tristezza, il dolore di un “incomprensibile distacco”, una sentita assenza di una persona cara a tutta la Comunità dei Viventi Visibili. Si piange per l’ assenza e  il vuoto che questa persona lascia,  si cerca perciò di avvolgere i suoi cari, parenti, moglie o mogli ( se è poligamo), i figli del calore necessario che li possa  ad elaborare con serenità e pace  il lutto. Si dice inoltre che se “l’assente” o il “tromegbe” (chi ha girato le spalle) l’espressione degli Ewe del golfo della Guinea per dire che uno è deceduto è sereno, tutta la comunità che lo rimpiange ritrova pace e serenità. Alcune espressioni linguistiche africane parlano anche del defunto come chi è “rientrato alle origini” o chi è “ritornato a casa di pace in compagnia delle madri e dei padri della storia delle origini e del futuro”, altre espressioni sono anche del tipo “il messaggero portatore di eventi e fatti agli antenati”. Al defunto non si dice maiAddio, ma solo e semplicemente  Arrivederci qui e là! (nelle due comunità).

Dopo la morte di uno in Africa, la cultura e la tradizione esigono che si facciano delle ceremonie necessarie per accompagnare la persona nella comunità dei viventi visibili e nel rango di Antenato. Le ceremonie si differenziano a secondo l’appartenenza etnica della persona o a seconda la tradizione spirituale, ma la sostanza rimane quella. Cioè,  tutto riconduce alla sostanza dei significati e ddei sensi di questo evento  fin qui riportata.
Già durante i funerali avvengono diverse ceremonie (che non posso dettagliare in questo spazio, diventa troppo lungo) per questo passaggio già al momento del lavaggio e della vestizione del defunto fino  al momento-clou della sepoltura in cui la tradizione esige e chiede che la Madre-terra sia leggera e tenera nei confronti del suo figlio e della sua figlia che viene sepolto nel suo seno. Si ripete inoltre e piu’ volte in generale che la Terra prenda sul serio il suo compito, quello di riportare integralmente il defunto, con pace e serenità nelle mani degli Antenati che lo aspettano sulla “sponda del fiume”. La cultura africana rispetto al passaggio nell’aldi là, crede fortemente che è necessario che cio’ debba avvenire con canti, danze (generi universali di espressione di affetto e di amicizia, privi in genere di astio e di intolleranza di tipo religioso, culturale ed etnico). La tradizione africana chiede che alla vigilia della sepoltura dell’assente-presente, il defunto un momento di veglia di “preghiera” fatta animazione musicale, di evocazione della storia del defunto, di invocazione dei suoi antenati, dell’accoglienza degli ospiti accorsi nel luogo del lutto per le esequie, tutto viene condito da musiche, canti, danze, cibi, bevande (che vengono offerti gratuitamente a tutti), l’uso dei profumi e dei colori ( i colori maggiormente usati ai funerali in Africa  sono il bianco, il nero, il rosso, il viola).
La stessa animazione prosegue  durante la sepoltura del “defunto” che è letteralmente  sommesso di danze, canti, balli, suoni di strumenti musicali come i tamburri e i kora’. Chi non conosce la cultura africana legge questa forte espressione accompagnatoria come una folklore del momento o un modo per gioire della dipartenza di uno. Nessuno in Africa gioisce della morte dell’altro, piuttosto trasforma i dolori e le sofferenze in gesti di amicizia e di affetto che accompagna uno, tale da metterlo in condizione di continuare a dare forza, sostegno alla comunità dei viventi che è in stretto contatto con quella degli Antenati.
Sottolineo poi che in alcune etnie esistono delle cerimonie che si compiono a favore del “defunto” al quarantesimo giorno del decesso. Il numero 40 simboleggia la totalità, la defintività o meglio la completezza. Al quanrantesimo si chiude il circolo dei riti e delle cerimonie piu’ importanti e si ritiene che a partire da questo momento il defunto puo’ essere già considerato un decano nella sua nuova comunità. Nella mia etnia, per 40 giorni si offre ogni giorno qualcosa da mangiare all’assente dentro un piatto che viene collocato nell’angolo della casa familiare o dove ha abitato quando era in “vita”. Lo scrittore e poeta Birago Diop ( di cui scrissi qualche settimana fa in queste pagine nel sito) nella sua bellissima poesia “les Souffles”, il soffio, parla appunto di questo. Scrive Birago: “Ascolta piu’ sovente le cose che non gli esseri…coloro che sono morti non sono mai partiti, non sono morti….sono nel fiume che scorre, nell’albero che freme…sono nella Dimora …” (la casa, lo spazio, il luogo dove ha messo impegno, idee, esperienze, emozioni, sentimenti). Ma la morte esiste nella cultura africana? Sì la morte esiste e perbacco. Esiste per davvero. Uno muore per sempre quando quella persona scomparsa non è piu’ presente nella MEMORIA dei viventi visibili. Quando non viene piu’ invocato, interpellato, quando non viene piu’ consultato dagli ifà che è il rito divinatorio che noi di etnia yoruba e fon dell’Africa Occidentale facciamo nei momrnyo piu’ importanti dell’esistenza. Si consultano gli Antenati e i “defunti” e li si invocano come si fà nel cristianesimo con la preghiera della litania dei santi (per analogia). Quando dunque uno non è piu’ invocato dalla comunità significa che quella persona è morta per davvero. E’ raro ma succede. Esiste anche nella cultura africana un tipo di reincarnazione che viene spiritualmente celebrata soprattutto in casi di morte prematura. La reincarnazione in Africa subasahariana è temporanea a differenza delle altre grandi religioni mondiali.
E’ pertanto importante che la Memoria rimanga sempre viva, è quella che offre la Vita e l’Esistenza ai presenti visibili e ai presenti invisibili, i defunti. Quando la morte incute un forte dolore ed una infinita tristezza per un Africano che fà tesoro della sua tradizione e cultura? Quando un morto non gode di una sepoltura dignitosa, solenne, nobile anche se è di povera. Quando cioè il defunto è lasciato da solo, abbandonato senza il calore e l’affetto della comunità, della sua di appartenenza o di quella in cui viene a trovarsi. Quando nei racconti e nelle cronache di questi giorni su Lampedusa si parla dei corpi senza vita gettati nel mare, addirittura da qualche parente, uno zio che getta il nipote o un cugino privo di vita. Qui sta la piu’ grande tristezza. Si consegna un vivente invisibile in baglia ad un estraneità. Per la cultura africana, il mare incute piu’ paura della terra. La terra è la madre, mentre il mare non lo è affatto e quindi non gli si puo’ consegnare il volto di una persona. Nel mare stanno dei pesci che mangiano i corpi e quindi i corpi non solo non sono sepolti, ma vengono dati in pasto a delle bestie feroci. Qui sta il gran dramma e per noi africani è tremendo questo fatto. Ci colpisce culturalmente e offende la MEMORIA dei nostri morti, che non sono morti, non sono partiti.  Tale memeoria che rende il defunto sempre vivo e presente è legata ai valori che egli ha saputo vivere e tra tutti la RELAZIONE che in termini concreti significa amicizia, onestà, armonia (anche con la natura e gli esseri), correttza nei rapporti con gli altri membri della Comunità da cui scaturusce il comune sentire: la solidarietà.
Gli Anziani saggi in Africa officiano delle preghiere speciali e per certi aspetti    particolarissime in memoria di coloro per esempio che annegano nel mare o nel fiume. Queste preghiere vengono fatte dove l’annegamento è avvenuto proprio per riportare a casa e nella terra ferma la persona annegata e poterle dare una dignitosa e nobile sepoltura e riappacificare gli animi turbati della comunità. Tali cerimonie non si potranno mai fare ai nostri africani che se ne sono andati in questa orribile avventura nel Mediterraneo. Non potremo nemmeno ripetere la bellissima espressione che i nostri saggi Maestri Africani e le Nostre madri ci dicono di ripetere in questo caso: “La madre-terra gli sia leggera”. Non lo possiamo dire per permettere un sereno percorso di elaborazione del lutto secondo la cultura africana. Un altra cosa grave è si assiste dai racconti dei superstiti giunti a Lampedusa che in alcuni casi sono stati i parenti stessi che gettano nel mare i corpis senza vita dei loro parenti. Lo zio getta un nipote. E’ molto grave. La cultura africana vuole che sia lo zio o la zia a sostenere con ogni mezzo il  nipote che sarà quello che li seppellirà in vita e qui sta nella pedagogia africana il ruolo e l’importanza che rivestono gli zii nel percorso educativo e formativo dei nipoti. Ecco già perché in ogni decisione della famiglia e della comunità sul presente e il futuro dei figli è necessario sentire la “Voce” degli zii.
Un altro particolare dolore assume la morte per accidente stradale, dolore simile a quello relativo alla morte per annegamento. Anche qui la tradizione africana la definisce una morte violenta. Quindi anche in questo caso si procede con dei rituali particolari per evocare il nome della persona deceduta  per riportarla a casa dove avvengono i riti funebri.
In conclusione possiamo, partendo da questa lettura cultura legata appunto alla tradizione nonché alla spiritualità africana dire che quello che sta succedendo in questi anni a Lampedusa per l’Africa Subsahariana è un enorme dramma. Enorme sia dal punto di vista umano che quello culturale. Ed è su questo che l’appello a favore di questi cittadini arrivati dall’Africa sulle coste italiane deve intensificarsi, perché la comunità italiana ed opera apra le sue porte all’accoglienza vera superando ogni steccato politico ed ideologico e religioso. L’appello deve anche indirizzarsi ai governanti africani in primo luogo, governanti per la maggior parte ottusi, miopi e senza visione. Governanti africani spesso corrotti ed arroganti, ignari della nobile tradizione africana fondata sul bene comune, l’accoglienza, il senso della comunità e della solidarietà valori ed ideali che erano e sono alla base della lotta delle madri e padri dell’indipendenza dei nostri paesi 50 anni orsono. Valori ed ideali infine della Lotta della maggior parte degli africani (anche di coloro che sono in fuga dall’Africa) per l’affermazione dei principi di diritti e della democrazia partecipata. I diritti all’alimentazione, alla libertà di espressione, alla partecipazione politica sono strettamente legati ai valori della tradizione e alla cultura africana che avremo modo di approfondire ulteriormente in queste pagine.
L’appello a favore degli africani e gli immigrati a Lampedusa deve essere indirizzato anche e soprattutto all’Europa come Istituzione (l’Unione Europea) e ai suoi singoli paesi che per decenni hanno trasformato l’Africa in terra di nessuno, se non solo ed esclusivamente un luogo, un porto franco dove attingere materie prime con le armi della corruzione dei singoli presidenti, ministri e usando spesso le bracce di finte ONG europee che hanno trasformato l’Africa in una nuova terra di conquiste del proprio benessere a scapito della popolazione umile e laboriosa del continente.
Negli anni l’Africa è diventata da un lato  purtroppo anche un mercato delle armi che arrivano da tutta l’Europa e dall’Italia. Le quali spesso vengono usate dai dittori africani per reprimere le popolazioni che chiedono maggior rispetto e maggior libertà ed una effetiva democrazia politica, culturale ed economica. Dall’altro lato l’Africa è una specie di terreno dove diverse fabbriche portano i loro rifiuti che non riescono a smaltire in Europa (Vedi il caso scoperto in Costa D’Avorio 5 anni fa circa).
L’Africa chiede che la sua cultura venga rispettata (anche dagli stessi africani) e presa sul serio in quanto prezioso contributo all’umanità. Il  futuro stesso dell’Africa  dipende anche da questo.
Qui riporto e cito un detto della saggezza africana utile a tutti:
“Si  une branche veut fleurir, qu’elle respecte ses racines“, (se un ramo vuole fiorire che rispetti le radici dell’albero)
(Jean-Pierre Sourou Piessou)

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