domenica 7 agosto 2011

L'ALTERNATIVA MEDITERRANEA , SECONDA PARTE

continua l'itervista
Alain de Benoist. Nel suo libro L'occidentalisation du monde Serge Latouche, che ha contribuito anche al vostro volume, utilizza la parola «deculturazione» per descrivere il momento in cui il contatto tra culture «non si manifesta attraverso uno scambio equilibrato ma piuttosto attraverso un flusso massiccio a senso unico: la cultura che riceve è invasa, minacciata nella sua propria essenza e può essere considerata vittima di una vera e propria aggressione». Nel passato, l'espansione coloniale rappresentò un «flusso massiccio a senso unico», ma oggi è piuttosto il contrario. Sono le vecchie potenze coloniali che vivono con il sentimento di essere "invase" e «minacciate nella loro essenza». L'immigrazione massiccia con la quale gli Europei oggi si confrontano ha creato le condizioni possibili per la moltiplicazione veloce nei paesi occidentali di libri che puntano il dito non soltanto contro l'islamismo radicale ma anche contro l'Islam tout court. L'Europa si è rinchiusa in una posizione difensiva, avvertendo il mondo musulmano come una minaccia su tutti i fronti, sia interno che esterno. Un atteggiamento del genere non aiuta ovviamente alla realizzazione del parternariato euro-mediterraneo che voi vorreste vedere realizzato. Come analizza questa situazione? Come è possibile uscire dallo schema dello 'scontro di civiltà' e ricreare le condizioni propizie ad uno «scambio equilibrato»?
Danilo Zolo. Non direi in alcun modo che oggi assistiamo ad una inversione del fenomeno coloniale. Nell'Ottocento e nella prima metà del Novecento le armateeuropee hanno invaso e occupato il resto del mondo e in particolare i paesi africani e arabo-islamici, facendo strage di centinaia di migliaia di persone innocenti, distruggendo le strutture politiche ed economiche dei paesi aggrediti, e devastandone le culture e le tradizioni. Oggi - si sostiene - sarebbero le vecchie potenze coloniali ad essere investite da imponenti flussi migratori che l'Europa inevitabil-mente percepisce come una invasione coloniale in direzione inversa. Si tratta, a mio parere, di due fenomeni completamente diversi. Oggi il fenomeno coloniale è solo formalmente esaurito. In realtà, in particolare dopo il collasso dell'impero sovietico e l'emersione dello strapotere degli Stati Uniti d'America e dei suoi più stretti alleati europei, assistiamo a forme di neo-colonialismo particolarmente aggressivo che investono in particolare i paesi arabo-islamici. E questo accade nel contesto dei processi di globalizzazione che in larga parte coincidono con il progetto occidentale di egemonia globale sul piano economico, politico e militare. Lo Stato di Israele è l'architrave di questo colonialismo perdurante che occupa militarmente e domina un'area cruciale del Medio Oriente arabo-islamico. Nel frattempo sono i processi di globalizzazione economica guidati dalle massime potenze econo-miche del pianeta a produrre, con le crescenti sperequazioni economico-sociali che generano su scala planetaria, le grandi migrazioni verso Occidente. In questo senso il Mare mediterraneo, nelle condizioni in cui oggi si trova, è per un verso uno spazio neo-coloniale a disposizione delle grandi potenze occidentali per controllare militarmente l'intera area mediorientale, mesopotamica e centro-asiatica. Per un altro verso il Mediterraneo viene usato dall'Europa come barriera per contenere drasticamente i flussi migratori provenienti in larga parte dai paesi arabo-islamici della sponda sud-est. L'Occidente intero nega se stesso nel suo delirio di onnipotenza e fomenta il fenomeno del terrorismo islamico, mentre l'Europa percepisce i migranti - di cui peraltro ha un estremo bisogno - come "diversi", come nemici invasori, come quasi-terroristi. La sola risposta possibile a questo collasso è un'Europa meno occidentale e più "europea", meno asservita agli interessi degli Stati Uniti, pronta a un dialogo paritario con ilmondo islamico, capace di impostare la questione israelo-palestinese come un problema mediterraneo, attenta e partecipe alle imponenti novità che stanno investendo l'Asia orientale, a cominciare dal colosso cinese..........


Alain de Benoist. A partire dagli anni Settanta, la «questione mediterranea» è stata affrontata nei paesi europei soprattutto dal punto di vista dell'«integrazione regionale». In particolare ci si ricorderà della creazione di un Forum mediterraneo nel 1988, di una sessione della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione nel Mediterraneo nel 1990 e della prima Conferenza Euro Mediterranea nel novembre 1995 a Barcellona. Qual è il bilancio di queste iniziative? E cosa pensa del progetto di un'«Unione per il Mediterraneo» sostenuta e voluta da Nicolas Sarkozy? Danilo Zolo. Il "processo di Barcellona", che ha concluso una lunga serie ininiziative prodromiche, è stata una strategia europea molto ambiziosa, che per la prima volta ha tentato di avviare una cooperazione di largo respiro fra le due spondedel Mediterraneo. L'accordo riguardava il progetto di un 'partenariato globale' di lungo periodo, che fra l'altro intendeva attribuire particolare rilievo alle 'società civili' e alla dimensione culturale. Sono trascorsi oltre dieci anni dalla Dichiarazione di Barcellona, un arco di tempo sufficiente per tentare una valutazione dei risultati ottenuti. Per quanto riguarda il tema della pace e della sicurezza, due vicende hanno segnato l'area euromediterranea nell'ultimo decennio del Novecento e nel primolustro del Duemila: la prima riguarda il fallimento di ogni progetto di riscatto del popolo palestinese dalla spietata occupazione militare israeliana. La seconda vicenda riguarda la crescente pressione strategica che gli Stati Uniti, direttamente o attraverso la NATO, hanno esercitato nei confronti dell'areaeuromediterra-nea, in particolare nei Balcani. Queste due vicende mostrano come il 'processo di Barcellona' non abbia impedito che il Mediterraneo e il Medio Oriente divenissero, congiuntamente, l'epicentro di un conflitto mondiale: da una parte le potenze 'atlantiche', incluso Israele, e dall'altra i paesi da esse considerati ostili, perché in contrasto con gli 'interessi vitali' e le strategie egemoniche dell'Occidente o perché ritenuti terroristici o complici del terrorismo. Anche il partenariato economico-finanziario varato a Barcellona non ha realizzato i risultati che prometteva con la seducente formula della 'prosperità condivisa': non ha ridotto lo squilibrio esistente fra le due sponde del Mediterraneo e non ha garantito stabilità e sicurezza. Il Mediterraneo era caratterizzato al momento del lancio del 'processo di Barcellona' da un altissimo livello di disomogeneità socio-economica. Questa situazione non solo non è cambiata, ma si è aggravata. In particolare il protezionismo praticato dall'Europa a tutela degli agricoltori europei ha contribuito all'ulteriore impoverimento dei paesi arabi. Mentre è stata liberata la circolazione dei manufatti, per i prodotti agricoli è stato mantenuto un regime di 'regionalismo bilaterale' che consente l'applicazione di quote e restrizioni all'importazione di questi beni nei paesi europei. E questo ha inibito lo sviluppo del mercato proprio in un settore nel quale i paesi mediterranei economicamente meno avanzati avrebbero potuto fruire di un vantaggio comparato. Per tradursi in una effettiva esperienza di integrazione economica - con i corollari
politici auspicati - il processo di Barcellona avrebbe dovuto intensificare la tensione politica e culturale verso una cooperazione realmente multilaterale. E questo avrebbe
dovuto comportare, soprattutto per iniziativa dei paesi euromediterranei come la Spagna, la Francia e l'Italia, un reale trasferimento di risorse, incluse le risorseumane, culturali, scientifiche e tecnologiche, che ponesse in secondo piano i temi della sicurezza, del controllo dei flussi migratori, dello smercio dei prodotti industriali e della protezione dei mercati agricoli. Quanto al progetto dell'"Union méditerranéenne", recentemente lanciato da Nicolas Sarkozy, risulta difficile darne una precisa valutazione poiché è arduo coglierne le motivazioni e le finalità. Si tratta probabilmente di una confusa ed estemporanea idea neo-coloniale diretta a restituire alla Francia una funzione di controllo del Mediterraneo occidentale, tale da irrobustire il ruolo francese all'interno dell'Unione europea, in competizione soprattutto con la Germania.
Alain de Benoist. La dilatazione globale della potenza marittima fa sì che il Mediterraneo sia diventato, in parte, un mare americano, e allo stesso tempo una delle zone più instabili e pericolose del mondo. Samir Amin ha scritto che il Mediterraneo oggi rappresenta la principale zona di influenza di un'Alleanza atlantica che non è più diretta contro la minaccia sovietica, ma contro il Sud. In qualità di autore di numerosi lavori sul diritto internazionale e sul suo sviluppo, come giudica questa presenza americana nel Mediterraneo? Una «dottrina Monroe» per questa zona del mondo éancora possibile?
Danilo Zolo. L'atlantismo contemporaneo, figlio legittimo di una strategia imperiale, segna una crescente subordinazione politica e militare dell'Europa nei confronti degli Stati Uniti, al cui ombrello nucleare e satellitare gli europei continuano a delegare la propria sicurezza anche dopo la scomparsa del pericolo sovietico. Superato il bipolarismo, la NATO si è convertita in un apparato bellico di portata globale ed è stata utilizzata dagli Stati Uniti per tre finalità strategiche: anzitutto per accerchiare la Russia, arruolando nelle proprie fila un numero crescente di paesi dell'Est europeo da agganciare al baluardo atlantico della Turchia. In secondo luogo, la NATO è stata usata per coinvolgere l'Europa nelle 'guerre umanitarie' nei Balcani e in Afghanistan, in modo da scoraggiare i suoi timidi tentativi di dotarsi di una struttura militare autonoma. Last but not least, la NATO ha consentito agli Stati Uniti di tenere sotto il proprio presidio politico e militare l'area mediterranea,escludendone l'Europa. A quest'ultimo obiettivo obbedisce in particolare il disegno strategico intitolato Broader Middle East and North Africa Initiative (BMNA), varato dall'amministrazione Bush nel giugno 2004 e subito accolto dalla NATO. A favoredella"modernizzazione" del mondo islamico e in nome dei "valori universali della dignità umana, della democrazia, dello sviluppo economico e della giustizia sociale" gli Stati Uniti intendono porre sotto il proprio controllo l'intera area che va dalla Mauritania e dal Marocco - dove hanno interessi petroliferi e già dispongono di numerose basi militari - all'Afghanistan e al Pakistan, passando per il Medio Oriente e i paesi del Golfo persico. Israele è pensato come l'architrave di questa strategia 'atlantica' e anti- mediterranea, mentre la questione palestinese resta del tutto emarginata. Com'è
naturale, la pressione politica nei confronti del mondo arabo viene accompagnata da iniziative economiche, che si sommano agli ingenti finanziamenti di cui godono datempo paesi arabi 'moderati' come l'Egitto e la Giordania. Per questo fine è stato avviato, in parallelo a quello del Broader Middle East, un altro progetto, il Middle East Partnership Initiative (MEPI, che prevede finanziamenti per 40 milioni di dollari destinati alle associazioni e ai mezzi di comunicazione di massa, chiamati pudicamente "organi di diplomazia pubblica", favorevoli agli Stati Uniti.. È dunque il caso di chiedersi in che senso, in nome di quali valori e di quali interessi comuni
l'Europa può continuare a far parte dell'Occidente e non debba invece puntare su unasua crescente autonomia, su una sua nuova centralità geopolitica come "grandespazio" (Großraum), ispirandosi, come ha suggerito Schmitt, alla concezione originaria della "dottrina Monroe". Si tratterebbe di un'Europa radicata nella suamillenaria cultura, nelle sua radici mediterranee, nella sua capacità di un approccionon fondamentalista ai problemi del dialogo fra le civiltà e della pace mondiale. Non è chiaro perché l'atlantismo dovrebbe essere il destino irreversibile dell'Europa e del Mediterraneo.Alain de Benoist. A partire dalla seconda guerra mondiale, le relazioni tra Europa e mondo arabo si sono inscritte nella logica della potenza strategica degli Stati Uniti.Sembra che gli Europei abbiano lasciato agli Americani la gestione del conflittoisraelo-palestinese. Poiché la stabilità del mondo mediterraneo dipende fondamentalmente dalla risoluzione di questo conflitto a Suo parere quale soluzione è possibile? Uno «Stato palestinese» come lo vorrebbe la comunità internazionale madi cui Israele non vuole ovviamente sentire parlare? Uno Stato unico per ambedue ipopoli come suggeriva Martin Buber che però Israele vuole ancora meno?Danilo Zolo. Una condizione essenziale per il recupero dell'unità del Mediterraneo e per la pacificazione del Medio Oriente (e del mondo) è senza dubbio la soluzionedella questione palestinese. E questa soluzione ha a sua volta come condizione ilsuperamento della ideologia sionista. L'intera vicenda dell'invasione ebraica dellaPalestina e della autoproclamazione dello Stato di Israele ruota attorno ad unaoperazione ideologica che si è incarnata in una strategia politica di lungo periodo: lanegazione dell'esistenza del popolo palestinese e quindi la piena disponibilità delle sue terre all'occupazione da parte di Israele. La negazione dell'esistenza di un popolonella terra dove si intendeva installare lo Stato ebraico è lo stigma coloniale checaratterizza sin dalle sue origini il movimento sionista: un movimento del restostrettamente legato alle potenze coloniali europee e da esse sostenuto in varie forme.Dopo aver a lungo progettato di costituire in Argentina, in Sudafrica o a Cipro la sede dello Stato ebraico, la scelta del movimento sionista cadde sulla Palestina non solo enon tanto per ragioni religiose, quanto perché si sosteneva, assieme a Israel Zangwill,che la Palestina era "una terra senza popolo per un popolo senza terra". Ed è in nome di questa logica coloniale che nel 1948 iniziò l'esodo forzato di grandi masse di palestinesi - non meno di settecentomila - anche grazie al terrorismo praticato daorganizzazioni sioniste radicali come la Banda Stern e l'Irgun Zwai Leumi, celebreper aver raso al suolo il villaggio di Deir Yassin e sterminato i suoi 300 abitanti. Ma la 'liberazione' dei territori palestinesi - chiamata dagli israeliani 'guerra di indipendenza' - fu opera soprattutto dell'esercito israeliano, l'Haganah, per volontàdei suoi generali e dei leader sionisti che intendevano espandere i confini dello Statoben oltre quelli indicati dalle Nazioni Unite. Nel 1949, alla fine della guerra arabo-israeliana, Israele occupava infatti non il 56% dei territori della Palestina mandataria, ma oltre il 78%. Questo accertamento storico - che dissolve i miti e gli stereotipi del nazionalismo sionista e presenta in nuova luce l'intera vicenda dei rifugiati palestinesi- è il clamoroso risultato delle indagini storiografiche compiute da un folto gruppo di 'nuovi storici' israeliani che hanno potuto disporre, a partire dalla fine degli anni settanta, dei documenti degli Archivi di Stato. Ha preso così avvio in Israele, attornoalle università di Beer Sheva e di Haifa, una vera e propria scuola storiografica - maanche archeologica, antropologica e sociologica - che critica il sionismo e propone una rilancio 'post-sionista' della politica di Israele. Gli esponenti 'revisionisti' più notisono Avi Shlaim, Simha Flapan, Beny Morris, Tom Segev e soprattutto Ilan Pappe, che si è spinto sino a parlare di "pulizia etnica del 1948". Secondo Pappe la 'puliziaetnica' è stata varata dal governo israeliano, guidato da Ben-Gurion, nel marzo del 1948, con un piano preciso e articolato, il Piano Dalet, di "de-arabizzazione della Palestina". E da allora, egli sostiene, l'epurazione non si è più fermata. La situazione attuale vede ormai l'intero popolo palestinese disperso, oppresso, umiliato, ridotto in povertà e fatto oggetto di una violenza spietata che Israele ritiene proporzionata agli attentati terroristici che ha subito nel corso della prima e della seconda Intifada. Se già alla fine del 1948 Israele occupava il 78% della Palestina mandataria, oggi, dopo la Guerra dei 6 giorni, la occupa al 100%, avendo invaso i territori rimasti ai palestinesi e avendo annesso anche Gerusalemme. L'epurazione etnica è stata via via accompagnata dalla espropriazione delle terre, dalla demolizione di migliaia di casepalestinesi, dalla cancellazione di interi villaggi,dall'intrusione di imponenti strutture urbane nell'area di Gerusalemme araba e di Nazaret, dall'abbattimento di centinaia dimigliaia di olivi e di alberi da frutta. Ma è soprattutto la vicenda degli insediamenti coloniali nei territori occupati a fornire la prova del buon fondamentodell'interpretazione 'colonialista' del sionismo proposta da Edward Said. Come spiegare altrimenti il fatto che, dopo aver conquistato il 78% del territorio della Palestina storica, dopo aver annesso Gerusalemme est ed avervi insediato non meno di 180 mila cittadini ebrei, lo Stato di Israele si è impegnato in una progressiva colonizzazione anche di quell'esiguo 22% rimasto ai palestinesi, e già sottooccupazione militare? Come è noto, a partire dal 1968, per iniziativa dei governi sia laburisti che di destra, Israele ha confiscato circa il 52% del territorio della Cisgiordania e vi ha insediato oltre 200 colonie, mentre nella popolatissima epoverissima striscia di Gaza ha confiscato il 32% del territorio, istallandovi circa 30 colonie. Dopo lo sgombero unilaterale della striscia di Gaza, voluto nel 2005 da Sharon, oggi non meno di 400 mila coloni risiedono nei territori occupati della WestBank. Vivono in residenze blindate, collegate fra loro e con il territorio dello Stato israeliano attraverso una rete di strade (le famigerate by-pass routes), interdette ai palestinesi, che segmentano e lacerano i territori occupati. Per tacere delle centinaia di checkpoints, della depredazione delle risorse idriche, della carcerazione ouccisione 'mirata' di leader politici, del milione e mezzo di persone che a Gaza vivono in condizioni disperate, come ha provato, con una analisi agghiacciante, Sara Roy. Ea tutto questo, per volontà di Sharon, si è aggiunta la 'barriera di sicurezza' che ha rinchiuso le comunità palestinesi della Cisgiordania in prigioni a cielo aperto. A questo punto, come tentare di risolvere la 'questione della Palestina'? Come riportarela pace fra Israele e il popolo palestinese e, più in generale, fra arabi ed ebrei? Ciò che si può sostenere con sicurezza, assieme a Martin Buber, Edward Said e Ilan Pappe e all'intera scuola dei 'nuovi storici' israeliani, è che il peccato originale delloStato di Israele è il suo carattere sionista. Il sionismo, grazie al sostegno militare ed economico - tre miliardi di dollari all'anno - degli Stati Uniti e all'omertà dell'Europa, ha fatto dello Stato di Israele una sorta di 'cuneo atlantico' nel cuore delMediterraneo, ha lacerato la continuità umana, politica e culturale della sua spondaorientale, ha cancellato l'identità di un popolo mediterraneo, trasformandolo in una massa di rifugiati, di epurati e di oppressi. Per questo la 'questione della Palestina' è una questione mediterranea e la soluzione non può essere cercata se non nelladirezione del 'post-sionismo'. E questo non può che significare, anzitutto, come auspicava Martin Buber, l'abbandono del carattere etnocratico dello Stato israeliano, la sua piena secolarizzazione e democratizzazione. E comporta, ancora con Buber,0 l'abbandono dell'idea dei 'due Stati per due popoli', quello ebraico e quello islamico,l'uno giustapposto all'altro. L'idea che oggi sia ancora possibile la formazione di uno Stato palestinese è patetica illusione o crudele impostura, nonostante il suo grandevalore simbolico, le giuste aspettative della maggioranza dei palestinesi e il suo pieno fondamento nel diritto internazionale. Gli effetti della discriminazione etnica sonoormai irreversibili: mai uno Stato palestinese degno del nome sorgerà sulle rovine di Gaza e della Cisgiordania. La sola prospettiva, altamente problematica ma senzaalternative, è quella di uno Stato israelo-palestinese 'post-sionista', laico ed egualitario, che riconosca eguali diritti a tutti i suoi cittadini.


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