domenica 21 luglio 2013

paradigma genetico ed epigenetico a confronto

orso castano: le vicende politiche italiane sono scollegate dall'evoluzione dei paradigmi scientifici. Sicche' queste evoluzioni non influenzano le vicende politiche ne' stimolano la creazione di nuove teorie politiche che possano risolvere i profondi ed annosi problemi della nostra politica. Purtroppo non e' possibile non seguire la trasformazione dei vecchi paradigmi scientific. Siresta fuori alla crescita culturale e da nuove visioni del mondo..

Il  Paradigma     Genetico
Il modello esplicativo del paradigma genetico è fondato sul centrismo genico (gene‐centered).
Secondo questo modello, l’adattamento di una popolazione è spiegato dalla capacità
dell’ambiente di selezionare i caratteri ereditari favorevoli e del patrimonio genico di mutare
casualmente. In questa concezione, viene implicitamente assunto che i geni siano tali da (1)
determinare i relativi caratteri in modo diretto e additivo ed (2) essere tramandati in forma
invariata da una generazione all’altra, a eccezione di eventimutazionali casuali.
L’assunzione che i geni possano determinare i relativi caratteri fenotipici in modo diretto
presuppone che stiano in rapporto uno ad uno con le proteine perle quali codificano. In effetti
questa aspettativa è fondata sulle esperienze di Tatum e Beadle in Neurospora secondo cui
esiste un solo gene per ogni enzima presente nella cellula (Zubay, 1987). Numerose evidenze
sperimentali, prima fra tutte, la recente stima di circa 30,000 geni del progetto del genoma
umano (Human Genome Project, 2001), dimostrano invece che la diversità proteica supera di
gran lunga quella semplicemente derivabile dalle conoscenze genomiche (Davison and Burke,
2001). Inoltre, i meccanismi displicing alternativo, le modificazioni post‐trascrizionali dei neo‐
trascritti e quelle post‐traduzionali delle proteine nascenti consentono ad uno stesso gene
strutturale di produrre numerose varianti proteiche a seconda del contesto cellulare o
ormonale in cui è fatto esprimere (Black, 1998). Se i geni agissero in modo addittivo come
assunto dal centrismo genetico l’integrazione genomica dovrebbe essere intesa come una
conseguenza dell’ambiente in cui gli stessi geni sono stati casualmente selezionati (Sterelny
and Kitcher, 1988), piuttosto che una condizione necessaria, per quanto non sufficiente,
perché possano esprimersi in modo temporalmente coordinato. In altre parole, si riduce ad
effetto ciò che, in virtù della complessità delle interazioni geniche, dovrebbe invece essere
inteso come “causa” della stessa possibilità di esprimere in modo coordinato l’informazione
codificata (Pepper, 2002). Assumere che i geni agiscano in modo diretto ed additivo, equivale
quindi ad attribuire un ruolo causale soltanto al genotipo e a ridurre ilrelativo fenotipo a puro
e semplice contenitore per l’espressione genica. In questo contesto, la selezione genotipica si
giustificherebbe perché soltanto i geni possono svolgere ilruolo direplicatori e non altre unità
come i genomi, gli organismi e le specie. In questa visione “egoista” i geni costruirebbero
perciò gli organismi unicamente come veicoli per la propria replicazione e, in quanto tali,
sarebbero gli unici ad andare soggetti al vaglio selettivo (Dawkins, 1999). Tutto ciò comporta il
totale disconoscimento della natura e della complessità delle interazioni che sussistono tra
genoma e ambiente e l’attribuzione alsolo gene dello status di innovatore perché unico, tra le
tante strutture cellulari, a potersi autoreplicare (Maynard Smith e Szathmáry, 2001). In altre
parole, gli organismi si riproducono perché contengono molecole che si replicano. Da questo
punto di vista, la riproduzione a livello organismico viene quindi a coincidere con la
replicazione a livello molecolare. In realtà, attribuendo valore funzionale alla sola replicazione,
si assume come attivo il processo di copiatura del DNA che è invece da riternersi passivo e
attribuisce aisoli errori di copiatura la possibilità di introdurre novità nel patrimonio genico di
una specie.
Se il gene è concepito inmodo diretto e additivo è gioco forza che in una visione gene‐centered
non si possano prevederemeccanismi di feedback tra genotipo e ambiente.Questa concezione
è da correlarsi con il presupposto fondamentale di una vera e propria barriera tra la linee
germinale e somatica. Ne consegue che niente di ciò che è sperimentato dal fenotipo può
essere trasferito al genotipo ed essere trasmesso inalterato attraverso le generazioni. Si noti
tuttavia che le evidenze a sostegno della teoria di Weissman si fondano sull’osservazione che
le cellule germinali segregano precocemente nel corso dell’embriogenesi (Illmensee et al.,
1976), mentre in realtà la possibilità che la barriera somato‐germinale possa essere superata è
dimostrata sia dalla persistenza intergenerazionale di endosimbionti nei follicoli ovarici di
molte specie di insetti (Giorgi and Nordin, 1994), sia dal trasferimento endocitotico di
retrovirus espressi dalle cellule follicolari di Drosophila melanogaster (Leblanc et al., 2000). In
conclusione, questi dati dimostrano che il processo di trasformazione genica è molto più
complesso di quanto il paradigma genetico della mutazione puntiforme lasci presupporre. Il
concetto di gene sul quale il paradigma è tuttora fondato equivale a quello di unità indivisibile
della trasmissione ereditaria della prima accezione mendeliana. In realtà, equiparando il gene
a un tratto di DNA equivalente a un’unità di espressione, sia pure comprensiva di elementi
regolatori e strutturali (Portin, 1993; Morange, 1998), se ne disconosce l’evolvibilità, cioè la
capacità di generare fenotipi ereditabili in virtu’ di strategie che siano esplorative di nuovi
adattamenti e al tempo stesso riducano i vincoli che si frappongono al cambiamento (Kirschner
andGerhart, 1998).
Il paradigma epigenetico
................ Se intesa nella sua accezione più ampia di biologia dello sviluppo,
l’epigenetica designa non soltanto una forma in divenire, ma anche e soprattutto la possibilità
che l’informazione espressa nel corso dello sviluppo non risulti semplicemente da
un’espressione genica programmata, ma si generi in funzione della molteplicità delle strutture
e delle interazioni realizzate a partire dall’uovo fecondato. Così intesa, la visione epigenetica
coinvolge molto di più di quanto non emerga dal semplice studio di quei cambiamenti
ereditabili della funzione genica che avvengono in assenza di variazioni mutazionali (van

Speybroeck et al., 2002)................... l’idea stessa che sia limitante fondare l’intera interpretazione evolutiva sull’equazione
riproduzione = replicazione. Così facendo si assume implicitamente che l’unica possibilità di
introdurre cambiamenti innovativi nell’evoluzione sia in via genetica, e che possa avvenire
soltanto tramite variazioni causali del processo di replicazione. Si disconosce il ruolo svolto da
altre strutture cellulari, e si assume implicitamente che un organismo in sviluppo altro non
faccia che esprimere istruzioni geniche pre‐costituite. Da questo punto di vista il processo
evolutivo viene concepito come selettivo, mentre allo sviluppo embrionale rimane solamente
un ruolo istruttivo (Jablonka and Lamb, 1998). Tutto lo scopo del paradigma epigenetico è
proprio quello di dimostrare che anche lo sviluppo può essere selettivo per cui parte delle
innovazioni introdotte nel patrimonio genetico di una specie sono di fatto vagliate ed espresse
nella periodo embrionale....................un organismo non eredita soltanto copia del patrimonio genico
parentale, ma anche un insieme di organuli e membrane. Un uovo fecondato non è quindi
soltanto un veicolo di trasmissione genica, ma è esso stesso luogo di espressione
dell’informazione codificata e luogo entro cui il potenziale ricombinatorio delle sequenze
nucleotidiche viene dotato disignificato, perché posto in condizioni di esprimersisotto forma
di neo‐trascritti e proteine. In altre parole, l’uovo funge da contesto nel quale il messaggio
genico può diventare significativo.
Il contenuto genico di un nucleo zigotico è tale per cui soltanto l’ovoplasma è in grado di
poterne “leggere” l’informazione e renderla così significativa. In presenza di un solo nucleo
somatico, lo stesso ovoplasma è incapace di dare inizio allo sviluppo embrionale,se non dopo
riprogrammazione. Ugualmente, un nucleo zigotico trapiantato in un citoplasma somatico è
destinato all’insuccesso. Molto spesso si dimentica di rimarcare quanti tentativi di trapianto
nucleare siano stati effettuati per ottenere una sola clonazione con esito positivo. Per
esempio, la nascita di Dolly è stata ottenuta tramite 277 esperimenti di trapianto nucleare. Di
questi, 247 sisono impiantati nell’utero materno, ma soltanto 29 hanno iniziato a svilupparsi e
solo uno ha completato lo sviluppo (Beardsley, 1997)...............In un senso più
strettamente scientifico gli esperimenti di trapianto nucleare dimostrano la capacità del
genoma nucleare di mantenersi inalterato nel corso del processo di differenziamento cellulare,
e quella del citoplasma ovulare di riprogrammare il genoma differenziato a seguito del
trapianto nucleare (Gurdon and Byrne, 2003). Dal punto di vista epigenetico entrambi queste
caratteristiche dimostrano la possibilità per uno stesso contenuto genico di realizzare funzioni
diverse a seconda del contesto citoplasmatico nel quale è fatto esprimere.................L’uovo è molto di più di un contenitore di geni. A renderlo strutturalmente complesso è la
distribuzione eterogenea di membrane e di organuli che nell’insieme contribuiscono a
polarizzarlo. L’asse antero‐posteriore di un uovo è infatti definito nel corso dell’ovogenesi ad
opera di proteine e neo‐trascritti di originematerna.Questisi distribuiscono eterogeneamente
nell’ovoplasma in virtù di ancoraggi selettivi con il citoscheletro ovulare (Martin et al. 2003).
L’esistenza di asimmetrie ovularisotto forma di polarizzazioni antero‐posteriori o apico‐basali
è condizione necessaria e sufficiente perché l’embrione possa esprimere correttamente il
potenziale genico di cui è dotato.Dal momento che queste asimmetrie sono pre‐determinate
in via materna, una visione strettamente genetica ne attribuirebbe la causa ai soli geni della
madre (Dollar et al., 2002). Secondo il paradigma epigenetico invece la causa andrebbe
ricercata anche in tutti quei fattori,siano essi membrane, organuli o elementi del citoscheletro
che, a seguito di un’espressione genica materna, vengono ad essere distribuiti
eterogeneamente nell’ovoplasma, o divengano essi stessi causa di una distribuzione
differenziale dei neo‐trascritti materni.Le differenze che intercorrono tra le interpretazioni genetica ed epigenetica possono essere
esemplificate dal confronto con la teoria dell’informazione. In questo contesto, l’informazioneHumana.Mente – numero 6 – Luglio 2008 
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recepita da un ricevitore è funzione tanto dello stato della rispettiva sorgente, quanto del
canale di connessione. Ne consegue che la distinzione tra canale e sorgente è, in un certo
senso, lasciata alla libera scelta dell’operatore. Mantenendo costanti le condizioni del canale è
possibile conoscere lo stato della sorgente, come pure è possibile conoscere le condizioni del
canale quando quelle del ricevitore sono mantenute costanti (Griffiths e Gray, 1994). Da
questo punto di vista interpretare l’endosimbiosi batterica in termini esclusivamente genetici
equivale ad attribuire ai geni il ruolo di sorgente, assumendo che il canale debba essere
necessariamente costante. Al contrario, l’interpretazione epigenetica sottolinea l‘importanza
delle condizioni metaboliche dei simbionti e soprattutto le loro reciproche interazioni come
contesto all’interno del quale l’espressione genica di entrambi può venir dotata di senso................. In
conclusione, ci sono molte strutture e processi delle uova alle quali l’interpretazione
epigenetica riconosce il ruolo di potenziali fattori ereditari. Interpretarle in chiave
esclusivamente genetica equivarrebbe a disconoscerne l’importanza in relazione alle
condizioni che sono permissive per un’espressione genica appropriata............. Se la proposta epigenetica si limitasse ad annoverare tra i fattori ereditari, non solo i
geni, ma anche altri elementi strutturali delle uova fecondate, non potrebbe certamente
proporsi come nuovo paradigma,ma al più potrebbe semplicemente aspirare ad un’estensione
del concetto di genetica. Al contrario nella visione epigenetica, l’unità diselezione è definita in
relazione a un intero ciclo vitale che è comprensivo sia della sua potenzialità evolutiva che dei
processi disviluppo (Griffiths andGray, 2003).
Attribuire all’intero ciclo vitale il ruolo di unità di selezione fa venir meno la distinzione tra
selettivo ed istruttivo applicato al binomio evoluzione e sviluppo. Non più ciò che è scelto
selettivamente nel corso dell’evoluzione è applicato istruttivamente all’embrione in sviluppo. I
due processi divengono così intrinsecamente dipendenti uno dall’altro per cui solo ciò che è
compatibile con il modello di sviluppo può essere selezionato fenotipicamente ed essere
quindi assimilato nel genoma. In secondo luogo, lo stesso genotipo non è più funzionalmente
equivalente alla sommatoria dei geni selezionati singolarmente, ma è al contrario, un’unità
genomica integrata capace di esprimere strategie adattative diverse per ogni stadio di
sviluppo. Infine, l’idea stessa di ambiente deve essere ampliata oltre la semplice concezione di
luogo come habitat e includere invece quella di luogo come Umwelt. L’ambiente in quanto
habitat pone a vaglio soltanto le capacità dell’individuo adulto a procacciarsi
competitivamente le risorse energetiche. L’ambiente come Umwelt invece è il mondo
semiotico dell’organismo in sviluppo, che viene per ciò stesso a comprendere tutti quegli
stimoli percepiti come significativi per la sua sopravvivenza (Barbieri, 2001b).................
Conclusione
L’obiettivo ultimo di un’impresa scientifica è di spiegare i fenomeni in osservazione
derivandone la descrizione dal minor numero possibile di assunzioni iniziali (Kitcher, 1981). In
tal modo, fenomeni che risultino apparentemente diversi sul piano dell’esperienza diretta
possono essere spiegati in riferimento agli stessi modelli esplicativi e secondo paradigmi
sempre più ampi. L’unificazione che è così raggiunta può rivelare l’esistenza di connessioni
impreviste, o imprevedibili, tra alcuni dei fenomeni precedentemente attribuiti a reami diversi
della conoscenza. Nel presente articolo abbiamo voluto verificare se fenomeni come
l’evoluzione e lo sviluppo embrionale possano essere spiegatisecondo uno stesso principio di
unificazione. A tale scopo sono stati posti a confronto il paradigma del centrismo genetico,su
cui la moderna sintesi neo‐darwiniana si fonda, e l’analisi dei meccanismi epigenetici di natura
ereditaria. Come è stato ampiamente discusso, in una visione gene‐centered, le innovazioni
introdotte selettivamente nel patrimonio genetico agiscono istruttivamente nello sviluppo.
Conseguentemente soltanto il genotipo è selezionato, mentre il relativo fenotipo è
determinato in base ad un rapporto meccanicistico tra DNA e proteine. In sostanza, le cause
remote di fenomeni quali l’evoluzione e lo sviluppo debbono essere ricercate nell’esistenza di
un programma di natura esclusivamente genetica.
Il paradigma epigenetico contende tutte queste asserzioni, sostenendo che una genomica
funzionale debba fondarsi non su un programma genetico, ma su un programma di sviluppo.
Nel programma genetico è compendiato soltanto il concetto d’informazione, mentre nel
programma di sviluppo questa informazione diventa significativa (Keller, 2000). Se il
programma fosse inteso in termini esclusivamente genetici, sarebbe impossibile distinguere
tra geni come sorgenti d’informazione e geni come entità su cui il programma stesso agisce.
Per non ridurre il concetto di gene a pura e semplice istruzione pre‐esistente nel DNA, è stato
proposto di articolare il programma disviluppo in modo da comprendere tutte quelle strutture
dell’uovo fecondato che, come i geni, sono trasmesse inalterate da una generazione all’altra
(Keller, 1999). È comprensibile che proposte di questo tipo abbiano suscitato reazioni
contrastanti nella stessa comunità scientifica. Per alcuni il significato di gene dovrebbe
articolarsi in due concetti distinti: quello di gene preformista (Gene‐P) capace di
predeterminare il fenotipo e quello di gene dello sviluppo (Gene‐D) per sostenere l’idea di
un’espressione genica differenziale (Moss, 2002). Per altri, la denuncia dei limiti del centrismo
genico non ne invalida in principi riduzionistici, ma anzi testimonia la necessità che il
riduzionismo debba essere praticato a livelli ancora più spinti perrisolvere quelle ambiguità su
cui l’epigenetica fonda la propria critica (Carroll, 2001).
Fortunatamente il confronto tra centrismo genetico ed epigenesi non deve necessariamente
risolversi con la legittimazione di uno dei due paradigmi. Entrambi i modelli esplicativi sono
legittimati dall’attuale ricerca bio‐molecolare, per quanto differiscano per il livello di
organizzazione cui sono riferiti. Mentre è da rifiutare l’idea di un determinismo genetico
secondo cui noi siamo i nostri geni, non possiamo che accettare il principio che noi non
saremmo senza i nostri geni (Morange, 2002a). Infine, anche in una prospettiva storica, il
confronto tra i due paradigmi non avrebbe potuto risolversi tra modelli esplicativi alternativi.
L’epigenesi infatti non avrebbe avuto alcuna possibilità di evolversi concettualmente di persé,
se non in opposizione al centralismo genetico di cui ha sottolineato i limiti esplicativi e le
inevitabilisemplificazioni (Morange, 2002b).

FrancoGiorgi

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