da Wikipedia :Vladimir Jankélévitch (Bourges, 31 agosto 1903 – Parigi, 6 giugno 1985) è stato un filosofo francese. Insegnò all'Istituto francese di Praga e all'Università di Tolosa e di Lilla............ egli innesta un'originale filosofia dell'istante, come cesura radicale di portata rivoluzionaria. Il tempo come istante è occasione di creazione conoscitiva, morale, ed artistica. La morte è nel suo pensiero qualcosa che esclude ogni forma di pensabilità e comprensibilità, e che al contempo è presupposto necessario alla vita stessa ("La morte è un vuoto che si spalanca all'improvviso nella pienezza della continuità. La morte è per eccellenza l'ordine straordinario"). .....................
martedì 6 ottobre 2009
Vladimir Jankélévitch :il valore del soggetto. (da non mai dimenticare!)
da Domenica del 27 sett 09 , di Remo Bodei
In questo libro di abissale profondità quello che dapprima colpisce come un paradosso è che l'autore, dopo aver dichiarato che la morte è inafferrabile e indicibile, ci scrive (o, meglio, ne parla, perché il testo - pubblicato nel 1966 - nasce da conversazioni radiofoniche registrate tra il 1957 e il 1959) nell'edizione italiana ben 463 fitte pagine.
Si potrebbe fare dell'ironia, ma si avrebbe torto, perché Jankélévitch fa giustizia di tutte le invenzioni e le fantasie consolatorie o minatorie che gli uomini hanno elaborato per «immaginare l'inimmaginabile», sicuri di non poter essere smentiti dai morti. Egli sembra, tuttavia, oscillare - secondo le sue stesse categorie - tra l'«indicibile» e l'«ineffabile». Dell'indicibile, infatti, non si può dire nulla, mentre dell'ineffabile non si finirebbe mai di dire. Succede, in quest'ultimo caso, come quando si cerca di sviluppare il n o la frazione 22/7: si potrebbero aggiungere all'infinito numeri non periodici.
Ad esempio, in opere come La musica e l'ineffabile (Milano, Bompiani, 1998), «la musica non dice quanto dice, o meglio, non dice niente, nella misura in cui dire significa comunicare senso». Si propone anzi di «esprimere l'inesprimibile all'infinito, l'ineffabile, ciò su cui c'è infinitamente, interminabilmente da dire». Anche la pittura, come osserva altrove,
ha il compito di evocare ineffabilmente l'infinito, come nei quadri di Claudio Lorenese, nelle sue marine dove il sole al tramonto in un giorno d'estate allude alla dolce nostalgia delle partenze, «alla nascita che è morte», a tutto ciò che finisce e ricomincia. Anche per chiarire che nella morte non c'è niente - o c'è solo «un quasi niente» - da svelare occorrono, dunque, molte parole. Riprendendo la definizione che Bichat diede nel 1800 della vita come «l'insieme delle funzioni che si oppongono alla morte», Jankélévitch sottolinea l'inscindibilità tra vita e morte, l'equivocità - che non va resa univoca - dei loro rapporti, per cui la vita, in fondo, resiste a qualcosa che è essa stessa. In altre parole, noi siamo sempre, insieme e indissolubilmente, ospiti della vita e ospiti della morte, perché la vita è presa a prestito dalla morte e «la morte è quell'informe che da forma alla vita». Una posizione, questa, sostenuta a suo tempo anche da Schopenhauer, attento lettore di Bichat: «Nascita e morte appartengono del pari alla vita: si fanno equilibrio: sono condizioni reciproche l'una dell'altra» (per inciso, una pregevole ricostruzione, in chiave storico-filosofica, della questione è apparsa recentemente grazie al volume di DanielaSteila Vita/morte, nella collana Lessico dellafilosofia, Bologna, il Mulino, 2009). Jankélévitch dice tanti no: alla banalizzazione della morte, ridotta alla sua fisicità; alla fine serena e consolatoria della vita esemplata dal Socrate del Fedone platonico; al non volerci pensare o all'indifferenza nei suoi confronti; agli esercizi spirituali per prepararsi a essa, alla maniera di Seneca o di Sant'Ignazio; alla promessa dell'ai di là o, più specificamente, del Paradiso cristiano o mussulmano, che la riduce a un«semplice cambiamento diresidenza». Annientamento e sopravvivenza dell'anima dopo la morte sono assurde e non spiegano niente. Senza ridurre il mistero a un problema, la morte è, piuttosto, un «non senso» che si avvicina al «vizio assurdo» di Pavese o, secondo l'immagine di Rilke, al nocciolo di cui «siamo solo la buccia e la foglia».
Ogni individuo è unico, espressione di una «semelfattività indelebile», di «un io che vive una sola volta» (sarebbe bello, pur rinunciando all'immortalità, vivere almeno due volte, come diceva Vittorio Gassmann: la prima come prova teatrale, la seconda come spettacolo rifinito). Di fronte all'impossibilità dichiarata da Jankélévitch di trovare un significato alla morte si potrebbe essere presi dalla disperazione, ma egli in parte vi sfugge, combattendo su due fronti: da un lato contro i filosofi necrofili (leggi, soprattutto, lo Heidegger di Essere e tempo), i quali «cercano il non-essere nell'essere, e rifiutano ciò che la vita offre»; dall'altro contro i filosofi consolatori, che promettono l'impassibilità o il premio finale per una vita ben spesa. Certo, Jankélévitch riconosce che il tempo non può ritornare sui suoi passi e che la caducità e fragilità del nostro essere è innegabile. Eppure, a ciascuno di noi è offerta la propria, paradossale quota di immortalità: «colui che è stato non può non essere stato; ormai questo fatto misterioso e profondamente oscuro dell'essere stato è il suo viatico per l'eternità» (L'irreversible et la nostalgie, Paris, Flammarion, 1974).
La morte è un'ovvietà che non finisce di stupirci: «Come mai se, da quando esistono gli uomini muoiono, il mortale non si è ancora abituato a questo evento naturale e tuttavia sempre accidentale?». Alla fine del volume in positivo non si scopre propriamente nulla, ma come sostiene Tolstoi alla fine di Anna Karenina: «Non ho scoperto nulla, ho soltanto imparato a conoscere quel che sapevo».
Vladimir Jankélévitch, «La morte», Einaudi, Torino, pagg. 464, €28,00.
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