martedì 4 giugno 2013


[Carta di Laura Canali] Il terzo vertice trilaterale tra Turchia, Serbia e Bosnia-Erzegovina si è chiuso pochi giorni fa.
Secondo la formalità delle migliori cancellerie occidentali i presidenti dei tre paesi si sono incontrati ad Ankara per siglare una dichiarazione di cooperazione e solidarietà. Quali sono gli obiettivi della Turchia nei Balcani?
Stando ai 17 punti del documento ratificato dal presidente turco Abdullah Gül, dal suo omologo serbo Tomislav Nikolić e dai membri della presidenza tripartita bosniaca Bakir Izetbegović, Željko Komšić e Nebojša Radmanović, i tre paesi si impegnano a costruire un non meglio precisato futuro comune basato su valori europei, a condividere le rispettive esperienze nel cammino di integrazione, a spendersi per cancellare i reciproci pregiudizi storici, a combattere il crimine organizzato e implementare iniziative macroregionali di cooperazione.
Durante i lavori neanche una parola è stata pronunciata sul tema Kosovo per non irritare la sensibilità degli ospiti (solo Ankara ha riconosciuto Pristina) e non è stata fatta alcuna critica al preoccupante stallo politico amministrativo bosniaco. In sostanza, come richiesto dal presidente Nikolić, nessuna interferenza negli affari domestici altrui.
Dalla fine degli anni Novanta, i Balcani sono diventati una priorità per Ankara che, dalla vittoria di Giustizia e Sviluppo (Akp) alle elezioni politiche del 2002 e con l’arrivo di Erdoğan, ha saputo indubbiamente sfruttare la dissoluzione dell’ex Jugoslavia e dei regimi comunisti per tornare nella regione.
Il risultato è stato un aumento del 530% degli investimenti totali (da 30 milioni di dollari del 2001 a circa 190 milioni nel solo 2011) e dello scambio commerciale, sestuplicato da 2,9 a 18 milioni di dollari; i Balcani sono ora nella lista dei nuovi amici di Ankara.
Con la Bosnia, destinazione principale degli investimenti turchi nell'area, il quadro di accordi commerciali si è sviluppato negli anni Novanta, immediatamente dopo la fine delle guerre jugoslave, quando venne siglato il 1° accordo di cooperazione e commercio, implementato successivamente fino alla creazione nel 2002 dell’area di libero scambio. L’apertura dei rispettivi mercati ha provocato un aumento verticale dell’export turco che è passato in meno di un decennio dai 28 milioni di dollari del 2001 ai 224 milioni del 2010: un aumento del 875%, che fa della Turchia il quarto partner commerciale bosniaco dopo Austria, Slovenia e Germania.
Ancora più rilevante per Ankara è stata la penetrazione in Serbia, nuovo partner strategico regionale, a dispetto della dimensione molto relativa della minoranza musulmana e della freddezza verso il passato imperiale. L’espansione turca è decollata solo a ottobre 2009 con la visita a Belgrado del presidente Abdullah Gül, la prima dopo 23 anni di gelo diplomatico, e ha permesso un rapido aumento delle esportazioni, salite già nel primo triennio del 43%, che hanno raggiunto i 355 milioni di dollari. Ingenti sono gli investimenti diretti nel settore tessile e delle infrastrutture autostradali (come il fondamentale collegamento Belgrado-Bar) che ammontano a 56 milioni di dollari nel 2011.
Il ritorno turco non è però solo una questione economica: fa parte di un disegno geostrategico più ampio. Seguendo la visione di politica estera dettata dal ministro Davutoğlu, la Turchia vede nei Balcani un “cuscinetto geopolitico” centrale per la sua sicurezza, perché una nuova crisi nella regione potrebbe riflettersi oltre il Bosforo. La penisola allora diventa un eccellente banco di prova per l’applicazione del concetto di “zero problemi con i vicini”, chiave di lettura della politica estera dell’era Erdoğan.
La presenza di Ankara nei Balcani passa anche attraverso imponenti politiche culturali e educative. Forte del retaggio ottomano nella penisola, infatti, la Mezzaluna usa il comune sostrato culturale che la lega ai paesi che furono parte dell’impero per riallacciare fruttuose relazioni di buon vicinato.
Attraverso la Tika, Agenzia turca per la cooperazione e lo sviluppo internazionale(che ha sedi dislocate in tutte le capitali della regione) porta vanti una politica estera complementare, promuovendo massicce opere di restauro del patrimonio architettonico e artistico d'epoca imperiale nella regione, così come la costruzione di nuove moschee grazie all’impegno della presidenza negli affari religiosi; una sorta di simbolica riappropriazione dell’eredità ottomana in difesa delle popolazioni islamiche nella penisola.
Nel settore educativo, la Turchia opera mediante la diffusione di scuole di primo e secondo grado soprattutto nei paesi con i quali vi è tradizionalmente più affinità per via della componente musulmana. Quella delle scuole turche nei Balcani è già da tempo una storia di grande successo basata su standard di istruzione spesso molto competitivi rispetto a quelli offerti dalle scuole locali, che prosegue anche a livello accademico. Grazie principalmente a capitali privati, sono state fondate nuove università come la Epoka University e la Bedir University a Tirana, la International Balkan University di Skopje, la International University of Sarajevo e la International Burch University ancora nella capitale bosniaca; la loro costruzione è stata fortemente voluta dal premier Erdoğan, spesosi personalmente per promuoverne l'immagine e la credibilità.
Non solo un’affermazione economica dunque. L’espansione turca nei Balcani occidentali può essere letta complessivamente come un'estensione del suo smart power regionale, mirante alla tessitura di una rete di alleanze, partnership e cooperazioni che a partire dal comune passato ottomano allarghino e legittimino l'influenza turca sull’area. La carta economica avrebbe principalmente lo scopo di rendere il tutto più attraente.
Il progetto turco, tuttavia, deve confrontarsi con le ambizioni europee della regione. I Balcani avrebbero molto da perdere allontanandosi da Bruxelles, con la quale hanno vantaggi politico-economici complessivamente superiori a quelli che la Turchia può offrire oggi. Ma se il cammino dei Balcani occidentali verso l’integrazione europea dovesse complicarsi, il peso della storia comune, i legami etnici e religiosi, il retaggio culturale e la spinta economica potrebbero rendere il riavvicinamento ad Ankara, la cui entrata nell'Ue sembra essersi arenata, più attraente.
La Turchia potrebbe così aumentare sensibilmente la sua influenza sulla regione, fiaccando le ragioni dei sostenitori dell’Unione e infoltendo le fila degli euro-scettici.

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