martedì 4 giugno 2013

NEET, FLESSIBILITÀ E DISOCCUPAZIONE GIOVANILE: LA VERITÀ DEI DATI O LE BALLE DELLA POLITICA


Sono tantissimi, sono il 24% in Italia, la quota più alta in tutta Europa. Stiamo parlando dei Neet, i giovani tra i 15 e 29 anni che non studiano, non lavorano e non seguono alcun percorso di formazione professionale (Not in Employment, Education or Training). E' quanto emerge dal rapporto annuale dell'Istat che lancia l'ennesimo “allarme disoccupazione giovanile” al quale segue l'ennesimo “dibattito sui giovani d'oggi” da parte di stampa e politica. Se le etichette di bamboccioni o di choosy hanno suscitato rabbia tra i tanti giovani che lottano ogni giorno per emergere dalla loro condizione di immobilità e precarietà, le risposte dei governi di turno al problema fanno decisamente rabbrividire. Per combattere il fenomeno dell'esclusione sociale giovanile, si sostiene da ormai un decennio, è necessario ricorrere a sempre maggiori forme di flessibilità del lavoro, più contratti a termine, più tirocini formativi, maggiore libertà di licenziamento.Analizzando i dati che mette a disposizione Eurostat (dati 2012 aggiornati all'aprile 2013) emerge una realtà diversa, una condizione di emarginazione che non ha nulla a che vedere con le forme contrattuali del lavoro, anzi. Tra il 2011 e il 2012, tra i giovani 15-29enni sono in diminuzione gli inattivi (ossia coloro che non cercano attivamente lavoro) mentre aumenta il numero dei disoccupati (ossia coloro che cercano lavoro e che sono disposti ad accettare da subito una proposta di impiego). Il maggiore aumento di disoccupati si registra nella popolazione di giovani tra i 18 e i 24 anni, ossia quella fascia d'età che termina il percorso di formazione scolastico e che dovrebbe entrare nel sistema universitario. Questo dato è peraltro confermato da quello proveniente dal documento del Consiglio Universitario Nazionale, che nel gennaio 2013 parlava di una riduzione degli immatricolati nelle università italiane da 338.482 a poco più di 280.000. Per i giovani neolaureati italiani, inoltre, i tempi per il reperimento di una occupazione dignitosa (ossia stabile o soddisfacente e con un salario decente) arrivano fino a 5 anni (dati Almalaurea).neet disoccupazione
Da queste informazioni si possono trarre delle conclusioni che sono lontane anni luce da quelle a cui è arrivato il fior fiore dei tecnici ed esperti del lavoro italiani. I giovani disoccupati aumentano non per colpa dei contratti di lavoro ma perché, detto in soldoni, non vanno più all'università o, se si laureano, non trovano comunque lavoro. Il problema non è quindi il mercato del lavoro né la flessibilità dei contratti, bensì il nostro sistema di istruzione e formazione. La condizione di esclusione sociale giovanile in Italia non è una conseguenza diretta della stagnazione del mercato del lavoro né conseguenza delle cosiddette “congiunture economiche internazionali”. Al contrario, i giovani italiani sono disoccupati perché non possono usufruire di un sistema di formazione universitaria e professionale adeguato che sappia valorizzare le loro capacità e che sia in grado di garantire loro una occupazione dignitosa. I continui tagli alla ricerca dell'ultimo decennio e gli scarsi investimenti per la modernizzazione e innovazione del tessuto economico italiano sono la riprova di questo ragionamento. 
Una maggiore flessibilità non farà altro che aumentare i flussi di entrata e uscita dal mercato del lavoro ma non potrà mai garantire una maggiore occupazione generale e duratura. Al contrario invece, gli investimenti in ricerca e innovazione e in una università pubblica di qualità aperta a tutti sono la soluzione che può garantire reali possibilità occupazionali a quei giovani italiani che oggi non vedono nella conoscenza e nella formazione le opportunità di costruzione del proprio futuro.
Per quanto possa sembrare blasfemo citare Andreotti, “a pensar male si fa peccato ma s'azzecca sempre” e il dubbio è che le letture dei dati e dei numeri siano delle letture false e fatte in cattiva fede, utilizzate per costruire una narrazione che sia aderente e coerente più all'agenda politica del momento che alle reali esigenze. E infatti la lettura che finora è stata data suona più o meno così:  più flessibilità e meno investimenti pubblici in ricerca. Ce lo chiede l'Europa.

Nessun commento: