venerdì 16 agosto 2013

In Egitto perdono anche gli Stati Uniti

da  Limes

...............Dallo tsunami arabo del 2011 erano così emerse le piattaforme islamiste, legittimate a partecipare alla vita politica di diversi paesi, quando non addirittura a guidarli. Un ri
sultato immediato che a Washington non dispiaceva. Allora, Obama guardava al Medio Oriente come a una fastidiosa crisalide da cui uscire in fretta (vedi il disimpegno dalle sabbie irachene e dalle gole afghane) per dedicarsi alla vera partita del secolo: quella nel Pacifico....................................Quella tra Stati Uniti e Fratellanza non è mai stata un’alleanza. I rapporti reciproci sono sempre stati viziati dalla diffidenza, evidente in casi come l’assalto all’ambasciata del Cairo in occasione della pubblicazione dell’orrido video The Innocence of Muslims, quando un deluso Obama bollava Morsi come “né alleato né nemico”........................Se quest’impostazione è oggi incamminata sul viale del tramonto, lo si deve a numerose battute d’arresto. La Turchia s’è dimostrata incapace di farsi ponte col mondo arabo, dove s’è anzi schierata tra le parti belligeranti, per di più infastidendo Washington con ripetute richieste di intervenire nel massacro siriano. La morte dell’ambasciatore Stevens ha ricordato al di là dell’Atlantico lo stato di anarchia in cui versa la Libia. La Fratellanza al Cairo aveva deluso le aspettative della Casa Bianca almeno dal novembre scorso, con l'accentramento dei poteri costituzionali nella figura del presidente, il suo atteggiamento ideologico tendente al totalitario e la manifesta inettidutine a gestire un gigante dai piedi d'argilla come l'Egitto. La Casa Bianca ha al massimo adottato un approccio pragmatico, figlio di un rapporto segreto del 2010 redatto dall’attuale ambasciatore a Mosca Michael McFaul, all’epoca stretto collaboratore del presidente. Incaricato da Obama di fornire raccomandazioni su come agire in caso di governi autoritari in transizione, McFaul suggeriva: allacciare stretti rapporti con il regime, qualunque esso sia, mai chiudere la porta.E così gli Stati Uniti hanno agito, spinti da un unico interesse strategico: evitare che l’Egitto finisse in mano a forze che denunciassero il trattato con Israele, tra i cardini della geopolitica regionale.Tuttavia, non si sono mai costruiti un’alternativa. Non che non ci abbiano provato; eppure, da un incontro con gli attivisti di Tahrir nel 2011, Hillary Clinton se n’era andata convinta che non avrebbero mai organizzato una piattaforma politica in grado di raccogliere consensi velocemente. Una miopia che si spiega anche con la scottatura di inizio 2012, quando alcune decine di membri di Ong americane sono stati arrestati con l’accusa di sobillare i liberali.Gli Stati Uniti non hanno mai ritenuto di dover coltivare le relazioni con le opposizioni. Di questo compito consideravano unico responsabile il governo di Morsi. Richiami cui i Fratelli hanno fatto orecchie da mercante, dimostrando le poche leve americane nei rapporti con il Cairo. Evidente anche nell'epilogo di Morsi, che rispondeva picche alla proposta targata Casa Bianca, veicolata per bocca di un ministro degli Esteri arabo, di accettare un rimpasto di governo e la cessione del potere legislativo per evitare il golpe (guai però a chiamarlo così).Eppure, Washington avrebbe potuto mostrarsi meno passiva nei confronti della Fratellanza al potere. In che modo? Non certo condizionando gli aiuti a performance democratiche o a norme scritte su una costituzione partita già delegittimata. Semmai, chiarendo che il sostegno - finanziario e politico - americano sarebbe dipeso da un ampio spettro di comportamenti, tra cui un atteggiamento meno totalitario sulle libertà civili, i diritti delle minoranze, il rispetto delle donne. 
Al contrario, gli Stati Uniti hanno creato l'impressione di non curarsi molto di costruire rapporti saldi con la società egiziana e di aiutarla nella transizione. Alimentando così le dietrologie, di cui si nutre l'ormai dilagante antiamericanismo.Interessa? Probabilmente noL'Egitto non è più il perno strategico della regione. Lo è semmai l'assicurazione che il trattato con Israele non sia ridotto in coriandoli. E a garanzia di questa architrave geopolitica non serve investire un esagerato capitale al Cairo. 
A conferma di come quest'amministrazione (con la significativa eccezione di un John Kerry immerso nel processo di pace palestinese) guardi al Medio Oriente, ora più che mai, come a una polveriera di cui prevenire l’esplosione nell’immediato, più che a una serie di problemi di lungo periodo da risolvere.

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