mercoledì 26 agosto 2009

Kuhn e Fayeraband (filosofi della scienza) : studiare i Paradigmi della scienza e' cosa complessa...

Kuhn, Thomas S., Dogma contro critica Milano, Raffaello Cortina, 2000, pp. XLVIII-400, Euro 30,47. Recensione di Francesco Armezzani Il testo a cura di Stefano Gattei, consiste essenzialmente in una raccolta di saggi rappresentativi dell'intera produzione filosofica di Kuhn. Essenzialmente ma non esclusivamente: il testo infatti è il risultato di un intenso lavoro di collaborazione e scambio di idee tra Gattei, lo stesso Kuhn, Paul Hoyningen-Huene, autore di un'interessante Prefazione e la moglie di Feyarabend, Grazia Borrini Feyarabend, che ha concesso l'autorizzazione per la pubblicazione di due lettere del marito indirizzate a Kuhn. La prima parte del testo, intitolata Dogma contro critica, raccoglie otto saggi di Kuhn pubblicati tra il 1963 e il 1993; la seconda parte, Critica contro dogma, raccoglie le due lettere di Feyarabend a Kuhn del 1961, introdotte da Gattei e, infine, un saggio conclusivo di Gattei, che ricostruisce l'intero percorso del pensiero di Kuhn. Il testo è corredato da una lunga e articolata bibliografia critica, nonché dalla lista completa delle opere di Kuhn. Sia i testi di Kuhn che le lettere di Feyerabend ruotano intorno alle nuove definizioni radicalmente innovative introdotte nella filosofia della scienza da La struttura delle rivoluzioni scientifiche d Kuhn, pubblicato nel 1962. Kuhn nella Struttura nega che il progresso scientifico proceda per accumulo; in secondo luogo nega che la scienza tenda verso qualcosa come la verità. La scienza effettivamente non è teleologia, l'incremento va considerato solo come una maggiore articolazione all'interno del linguaggio specifico dello scienziato. L'intera prima parte dell'opera ruota intorno al concetto di incommensurabilità, che, come già detto molto chiaramente da Hoyningen-Huene nella Prefazione, è il concetto forse più complesso e frainteso dell'autore della Struttura. Senz'altro è il tema che richiama più da vicino il dibattito filosofico sul concetto di significato. Il fatto è che secondo Kuhn, difendendo la propria proposta dagli attacchi dei suoi critici, incommensurabilità non implica incomparabilità. Due linguaggi o due misure risultano incommensurabili proprio sulla base della reciproca comparabilità, altrimenti sarebbe del tutto impossibile definirle parzialmente o totalmente intraducibili. Il concetto di incommensurabilità non resta però fisso nel corso degli anni: abbiamo per esempio negli anni '80 l'incommensurabilità "locale", che riguarda cioè solo una parte di un linguaggio, alcuni termini e le proposizioni connesse. Se, l'esempio è di Kuhn, cerchiamo oggi di tradurre nel linguaggio della chimica contemporanea un testo sul flogisto del diciottesimo secolo, scopriamo senza difficoltà che una gran parte dei termini è del tutto identica a distanza di secoli. Solo alcuni termini, tra cui senz'altro "flogisto", ma anche i termini "elemento" e "principio" usati per la resa in lingua moderna di "flogisto", risultano nel linguaggio della chimica oggi del tutto intraducibili. Il termine flogisto non ha più alcun significato perché non ha più alcuna funzione denotativa e i termini con cui oggi noi lo traduciamo per rendercelo chiaro nel nostro linguaggio devono usare termini quali "elemento" o "principio" in maniera del tutto diversa da come erano usati dal linguaggio della chimica settecentesca. Noi crediamo di aver tradotto il testo antico quando siamo riusciti a riprodurre nel nostro linguaggio i significati espressi da quello, sostituendo i referenti antichi con i referenti moderni o con circonlocuzioni apposite. Ma in questa maniera noi, probabilmente viziati dal fatto che già da sempre siamo "dentro" il linguaggio specialistico della chimica, dimentichiamo che la prima volta che abbiamo appreso il linguaggio della chimica del settecento abbiamo modificato o rivisto il linguaggio standard appreso in università, l'unico di cui eravamo in possesso. Senza questa modifica o aggiustamento del linguaggio noi non saremmo affatto in grado di operare "traduzioni" tra due linguaggi diversi. Kuhn dunque rifiuta il modello di interpretazione radicale proposto da Quine in Parola e oggetto. Se il manuale del perfetto traduttore comporta la trasferibilità di ogni parola da tradurre in una parola del proprio linguaggio e laddove ad una parola corrispondono più termini o insieme di termini, e anche nel caso in cui il manuale preveda i contesti e i requisiti d'uso di una o di un'altra possibilità, anche con uno strumento siffatto per Kuhn non è possibile alcuna traduzione. Insieme al possesso delle norme sintattiche e lessicali di una lingua sono necessarie le categorie tassonomiche, i modi di classificazione con cui definiamo i significati delle parole; in parole povere siamo costretti a risalire ai contesti intensionali e non più puramente denotativi del parlante o dello scrivente. Per tradurre da una lingua dobbiamo riconoscere le intensioni del parlante, dobbiamo conoscerne la cultura. Ogni traduzione è in questo senso un' interpretazione. Assieme al tema dell'incommensurabilità si sviluppa il tema del paradigma, o, più precisamente, delle forme concettuali lungo la quale si sviluppa, prende forma e si afferma una nuova teoria scientifica. Dalla fase "preparadigmatica" alla fase "normale" avvengono una serie di distorsioni terminologiche, di memoria e di consapevolezza, che lo storico della scienza, Kuhn ammette esplicitamente l'influenza di Koyré, riesce a ricostruire molto meglio dello scienziato stesso. Kuhn riferisce a questo proposito dei suoi incontri con Bohr. Al grande fisico danese erano state poste per due volte a distanza di tempo, delle domande circa l'influenza del modello di Rutherford sul suo modello descrittivo dell'atomo di idrogeno, e entrambe le volte Bohr aveva dato segni di impazienza circa l'incongruità della domanda: prima dello studio degli spettri luminosi e prima della conoscenza della formula di Balmer, non avrebbe potuto in alcun modo formulare alcuna ipotesi sull'atomo di idrogeno; Questo era vero stando alla soluzione risultata poi "normale" cioè accettata come tale dalla comunità scientifica. Il fatto è che però lo stesso Bohr prima di conoscere la formula d Balmer aveva tentato una descrizione dell'atomo di idrogeno proponendo una versione quantizzata dell'atomo di Rutherford. In parole povere, come dice lo stesso Kuhn: "Quando scrisse la relazione che l'annunciava (la scoperta dell'atomo di Bohr, ndr.), egli (Bohr, ndr.) aveva in mente due modelli incompatibili, e qualche volta li confondeva, li mischiava. Nessuna lettura delle sue prime relazioni sulla sua invenzione eliminerà le contraddizioni che ne risultano, e queste contraddizioni, che testimoniano la sua confusione, forniscono indizi essenziali per la ricostruzione del percorso che lo portò alla scoperta" (p. 90). Ora lo scienziato, dopo l'affermazione della norma, descrive la propria scoperta con il linguaggio modificato e non con quello del tempo della scoperta. Le contraddizioni le imputa alla confusione che allora aveva in mente. Questa è la prima parte dell'errore, secondo Kuhn. La seconda, più seria è quella descritta a proposito di Planck nella sua "confusa" descrizione del corpo nero. In questo caso siamo noi lettori ad attribuire allo scienziato quella confusione che attribuiremmo a noi stessi se ne fossimo vittime: la verità è che pensiamo alla scoperta con il linguaggio che si è avuto solo dopo l'affermazione della nuova teoria seguita alla scoperta; non siamo in grado di capire che la confusione è dovuta al fatto che chi fa una rivoluzione pensa il nuovo con il vecchio linguaggio, né potrebbe fare altrimenti. Occultare questo fatto e attribuirlo alla confusione dello scopritore è il peggiore servizio che potremmo fare alla scienza. Lo stesso Planck, prima che la legge della discontinuità si affermasse come canonica (e = hn) si credeva convinto che la discontinuità si sarebbe potuta eliminare, prima o poi. Lo storico della scienza giunge pertanto alla seguente rivoluzionaria conseguenza: la credenza che la scienza avanzi uniformemente, per accumulo e in maniera finalizzata ad una sempre più parziale avvicinamento alla verità, per quanto possa sembrare attraente e stimolante, è un mito. Non è questo punto ad essere aspramente criticato da Feyerabend bensì l'uso "antidemocratico" del paradigma. Kuhn, secondo Feyerabend, non distingue nella sua ricostruzione storica tra fatto e sua interpretazione, anzi ogni esperienza scientifica presa in esame viene interpretata come un fatto storico e come regola metodologica. Il particolare diventa generale, la storia è più razionale della scienza stessa. Mentre per Kuhn le scoperte sono il risultato di trasformazioni linguistiche, terminologiche e concettuali che riguardano non individui, ma gruppi e società, Feyerabend rifiuta, pace Wittgenstein questa posizione. Feyerabend nega infatti del tutto la funzione del paradigma come dogma positivo. La funzione svolta dal paradigma nella fase normale è dovuta, secondo Feyerabend, al fatto che per Kuhn è come se lo scienziato non avesse la capacità "di prendere in considerazione varie ipotesi alternative e di discuterle appassionatamente [...] Credo di aver dimostrato che il fatto di prendere in considerazione un insieme di teorie mutuamente contraddittorie ma adeguate ai fatti aumenti il contenuto empirico di un qualunque elemento dell'insieme e questo per il semplice motivo che molti controlli presuppongono l'esistenza di un'alternativa! [...] Se le cose stanno così allora dobbiamo prendere una decisione: che cosa preferiamo, l'incremento del contenuto empirico delle teorie in nostro possesso, o quella unanimità di ricerca e il preciso adattarsi ad essa prodotto nei periodi che tu chiami normali? [...] Molti scienziati sembrano preferire la seconda alternativa - ma è abbastanza evidente che questa loro decisione non è vincolante per nessuno" (p. 235). È proprio la visione kuhniana della scienza normale che inquieta Feyerabend, che limita la sua idea di libertà di ricerca. Ancora nel saggio dedicato ai mondi possibili Kuhn affronta il tema della traduzione radicale di Quine per negarlo. Il linguaggio delle scienze naturali sviluppa i significati dei termini solo all'interno dei contesti e nel caso in cui con Putnam volessimo negare ai termini singolari la loro funzione denotativa non riusciremmo poi a salvare il realismo del linguaggio scientifico. Quine giunge infatti ad affermare che il traduttore impara un'altra lingua, ma si dimentica di concludere che imparare un'altra lingua non significa tradurre: il traduttore in questo caso diventa piuttosto un antropologo fittizio, che indica i contesti culturali, sociali, comportamentali di un certo uso di parole, soprattutto quando queste sono le stesse, ma cambiano di senso in contesti diversi (come ad esempio "forza" nel sistema aristotelico o in quello newtoniano). Certo in questo caso corredare di note un testo è certo cosa meritoria per la comprensione ma è molto più di quanto ci sia debba legittimamente aspettare da una traduzione e comunque non è una traduzione. Come ricorda Gattei nel suo saggio conclusivo, per Kuhn l'incommensurabilità è dovuta al fatto che una rivoluzione scientifica comporta un mutamento di tassonomia. Quando in un paradigma emergono anomalie sempre più gravi e importanti allora si assiste ad un momento di crisi. Nei periodi di crisi i termini di tipo, in particolar modo quelli tassonomici subiscono delle trasformazioni semantiche che obbligano a delle nuove definizioni lessicali di parte del corpus scientifico, certamente di tutti i termini sovrapponibili a quelli modificati. Anche su questo punto Feyerabend domanda criticamente chi stabilisce quando un'anomalia diventa grave. Anche in questo caso non la comunità, ma i singoli in seguito a situazioni particolari e tutto sommato fortuite. Non insomma attraverso una crisi di gruppo e di linguaggio, ma attraverso posizioni di potere, opportunità e mai in maniera assoluta. Per Feyerabend Kuhn resterebbe dentro ad una filosofia della scienza monista, per cui il paradigma entra in crisi e va sostituito da un altro paradigma, laddove, per esempio, Kuhn non prende in considerazione la possibilità per cui un paradigma potrebbe entrare in crisi a causa di un paradigma concorrente contemporaneo. Questo porta Feyerabend a concludere che la filosofia di Kuhn non è democratica (non ammette cioè molteplici paradigmi possibili simultaneamente). Le lettere di Feyerabend sono peraltro ricchissime di appunti critici estremamente dettagliati che consentono un confronto critico praticamente parallelo ai saggi della prima parte: questa lettura critica costituisce uno dei meriti principali del libro. L'impresa scientifica in Kuhn, nei saggi degli ani '80-'90 si configura per questi come un evoluzionismo non teleologico, un darwinismo senza scopo. Nella scienza non c'è qualcosa come un progresso che tende ad una sempre maggiore adesione alla realtà. Noi a nostra volta dipendiamo dal mondo, che altri per noi hanno definito e tramandato da generazioni, in determinati contesti culturali e mondi linguistici separati, distinti e tra loro incommensurabili. La scienza è uno di questi mondi, con delle proprie peculiarità e una propria importanza: ma ce ne sono altri e nessuno può dire quale sia quello vero e quale più importante, semplicemente perché non ne esiste uno più vero o più importante. Questo è il risultato più significativo dalla Struttura in poi: Kuhn definisce questa sua posizione kantismo postdarwiniano (p. 156). Di Kant si riprendono cioè le categorie, intese nel senso di apparati linguistici trascendentali, entro i quali pensiamo il mondo; allo stesso tempo post-darwiniano indica che l'evoluzione della scienza non è diretta verso uno scopo, ma è un continuo riadattamento del lavoro precedente.  Di fronte alle tentazioni cui molti "sedicenti" kuhniani sono stati trascinati, per cui la scienza non sarebbe altro che un'impresa socialmente determinata, da interessi culturali, personali, politici ed economici, Kuhn reagisce però in maniera estremamente decisa. La scienza non è accumulo di materiale empirico neutrale, fatti puri e semplici, indipendenti da ogni osservatore: essa è un'impresa dinamica, soggetta a continua interpretazione, entro certi limiti. Il fatto che la scienza non disponga più di un punto fisso, immodificabile, fuori dello spazio e del tempo, non comporta che la ragionevolezza e l'evidenza non siano continuamente coinvolte nel suo sviluppo. Solo questo sviluppo non tende ad un maggiore vicinanza con qualcosa come la realtà in sé: anzi a ben vedere noi non possiamo neanche capire che cosa s'intende con "avvicinamento alla realtà". In questo senso le due colonne portanti della scienza tradizionale: 1. prima i fatti poi le interpretazioni; 2. avvicinamento progressivo alla verità, non sono stati eliminati dall'approccio storico, bensì sono stati sostituiti da un processo evoluzionistico di "speciazione", cioè dal moltiplicarsi di campi specialistici di investigazione scientifica. L'impresa scientifica perde la sua presunta universalità arricchendosi in modo pressoché illimitato di nuove scienze; e questo processo in corso sin dall'antica Grecia, ha subito una straordinaria accelerazione dagli anni '50 del XX secolo in poi. Ad ogni rivoluzione si risponde con una moltiplicazione di scienze specialistiche. A trent'anni dalla Struttura Kuhn definisce oggi "speciazione" quello che ieri chiamava "rivoluzione". Questi saperi specializzati diventano tra loro progressivamente incommensurabili e, infine, questi mondi le "nicchie" di saperi indipendenti, mondi possibili: "Queste nicchie, che creano e al contempo sono create dagli strumenti concettuali e strumentali con cui i loro abitanti esercitano la propria attività, sono solide, reali, resistenti al cambiamento arbitrario, allo stesso modo in cui veniva considerato una volta il mondo esterno. Tuttavia, a differenza del cosiddetto mondo esterno, esse non sono indipendenti dalla mente e dalla cultura, e insieme non costituiscono un tutto unico e coerente di cui noi e gli specialistii di tutte le singole specializzazioni scientifiche siamo gli abitanti" (p. 180).

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