Dalla vulnerabilità alla resilienza A proposito di diversità e molteplicità delle risposte e delle forme di reattività, già nel 1841 C.Constatt (5) descriveva la vulnerabilità in psichiatria parlando di abnorme livello di eccitabilità psichica, di reattività sproporzionata all'entità degli stimoli, di predisposizione allo sviluppo di sintomi psicopatologici, riprendendo l'immagine antica dell'incontro tra mixis (impasto materiale) e krasis (temperamento): concetto attuale, sia pure oggi descritto e spiegato con il nuovo linguaggio delle neuroscienze e di ciò che conosciamo dei meccanismi cognitivi ed emotivi. Non a caso attualmente si è avvertita la necessità di porsi in un'ottica positiva ed evolutiva, correlata più al funzionamento che al deficit, più psicologica che psicopatologica. E' l'incontro con il paradigma della resilienza, attualmente utilizzato - spesso impropriamente identificandolo con il coping - per comprendere e descrivere molte situazioni altrimenti "indescrivibili": non a caso la domanda - semplice, spontanea, immediata - ("ma come è possibile?") è partita dallo studio e la cura di situazioni estremamente critiche e violente (bambini appunto violentati da guerre, disastri, degrado culturale, schiavitù, donne private di ogni dignità). Resilienza come capacità di una struttura mentale di resistere agli urti senza "spezzarsi", come nella fisica. Resilienza come forza inferiore, del soggetto, ma possibile e comprensibile solo se in relazione continua con la forza esterna (e allora si parla di fattori sociali) e la stessa dimensione biologica (la struttura). L'aspetto affascinante della resilienza è proprio questo essere inserita - nella positività e non nel negativo, senza che ciò significhi automaticamente assenza di malattia - in una dimensione circolare, dinamica, sistemica. Multifattoriale. "Il concetto di resilienza non è statico, indica l'interazione tra fattori di protezione e vulnerabilità, quindi i processi dinamici di funzionamento psicologico promossi da fattori protettivi interni ed esterni all'individuo, che favoriscono un esito positivo e riducono esisti negativi di fronte a condizioni avverse " (6). Claudia ha 34 anni: appartiene ad una famiglia coesa, affettiva, ma fortemente attaccata da eventi luttuosi e di malattia. Il papa'- descritto come un uomo dolce, molto "presente", figura carismatica -si è ammalato di Corea di Huntington a cinquantacinque anni ed è morto dopo dieci anni di malattia qualche anno fa'. Nel frattempo si è anche ammalata la mamma di Sclerosi Multipla. Claudia e sua sorella Federica, maggiore di due anni, hanno trascorso la loro giovinezza molto coinvolte nel loro ruolo di assistenza, ma sono riuscite, in questo portentoso intreccio di forza e debolezza del loro nucleo, a non farsi invadere dall'angoscia, a non fermare il processo evolutivo, il percorso di vita. Hanno studiato, lavorano, hanno amici, amori. Consapevoli dell'ereditarietà della malattia paterna e del loro rischio genetico, hanno scelto entrambe di non sottoporsi a diagnosi pre-sintomatica. Finché non si presentano i primi sintomi di Corea in Federica. Inizia per Claudia un periodo di profonda crisi, che affronta nel percorso di consulenza genetica: ritornano domande impellenti su di sé, sul senso della vita, sugli affetti, sul futuro. Una vita d'assistenza? Ritorna drammatico il vissuto del rischio: "E se...?" Sapere se anche lei ha ereditato la mutazione assume ora un significato diverso, per ilpresente e per il futuro. In un misto di angoscia e responsabilità. Quale scelta può aiutarla a non cadere nella distruttività, a continuare ad essere supportiva e vitale? Può ancora aiutarla vivere nell'incertezza? La storia di Claudia e della sua famiglia è una storia d'oggi. Laddove la scienza permette di andare oltre il presente, prefigurando il futuro e condizionando le menti. L'intreccio tra fattori di rischio - in ogni senso -e fattori protettivi della "salute mentale" è al centro dell'elaborazione psicologica, necessaria perché Claudia, e non altri, prenda una decisione. Dalla guarigione al recovery Dobbiamo ora chiederci qual'è la ricaduta sulla cura, qual'è la prospettiva per gli operatori della salute. Imparare a pensare in termini resilienti può aiutare a comprendere meglio proprio il disagio psicologico e la stessa psicopatologia? Può aiutare nel progetto terapeutico? Il concetto psicologico di resilienza ribadisce costantemente la centralità, nelle relazioni di cura, della persona e della sua soggettività, riproponendo l'attenzione ai principi fondanti l'etica: giustizia, autonomia, beneficialità. Invita a parlare di persone e non di pazienti, conduce alla riformulazione del concetto di malattia, con il rinforzo dello sguardo sui bisogni piuttosto che sui sintomi, permette, a proposito di cura e progettualità, di pensare anche alle possibili opportunità di cambiamento, alla qualità della vita piuttosto che alla guarigione, in un processo fluttuante e dinamico. Allora forse è possibile andare oltre le divisioni e le categorie (diagnostiche innanzitutto), in un sistema di cura ispirato primariamente dalla tutela dei diritti dei soggetti deboli. Stimolante a questo proposito è il pensiero di M. Nussbaum (7) che, ponendosi in una posizione critica nei confronti dell'etica contrattualistica, mostra come l'etica della cura sia asimmetrica per definizione, permettendo di vedere l'umanità dell'altro, anche e soprattutto di quell'altro che non è in grado di reciprocare. E non è un'ottica contrattualistica quella che sottende troppo spesso alla relazione medico/paziente, in un linguaggio e in una pratica spesso più riferibile ad un modello giuridico e appunto contrattuale (sottoscrivo che.., do in cambio di..., mi impegno a ..) che ad una logica relazionale e soprattutto ad un'etica solidale, positiva, attenta alla diversità dei bisogni? Quale significato assume oggi il concetto stesso di cura di fronte ai soggetti che rischiano di "non essere" ?(8) I giovani ed i giovanissimi (la generazione Wireless, il discontrollo degli impulsi, la crisi della genitorialità), le donne (identità di specie? Vita di assistenza? corpo perfetto sempre e ad ogni età?), gli anziani ("costretti" a vivere? Psichiatrizzazione della fragilità?), ma in fondo tutti (fragili di fronte all'aumento del rischio traumatico, fragili in una cultura che nega la morte e la malattia, fragili di fronte alla paura del limite) Più volte altrove abbiamo collegato il concetto di resilienza al concetto di "Recovery": "inteso come recupero di senso dell'esperienza di sofferenza e di malattia che non si identifica con la guarigione cllnica, ma piuttosto con quella sociale (categoria tuttavia ambigua e sfumata) e con l'esperienza di ritrovamento: percorso, ri-si-gnificazione, presa di coscienza, partecipazione, cittadinanza attiva e vissuta, relazioni di auto aiuto e, soprattutto, non restare soli, dentro e fuori. Categoria non cllnica, quindi, ma segnale del cambiamento del rapporto con la malattia, sviluppo di nuove capacità di coping, daffermazione del soggetto come persona, oltre e non contro l'identità determinata dalla malattia.
orso castano : non si comprende bene il filo del discorso: mi sembra che si parli di diversi (importanti) concetti : La forza interiore del carattere, all'oppostto la "fragilita' dell carattere , e l'empatia. Nulla a che vedere con la psichiatria . Pure nell'ambito di un intervento (sopratutto se fatto all'esordio del disturbo) quesi aspetti della personalita', o meglio del carattere, vanno ben tenuti presente. Anche perche' , non va mai dimenticato , che uno dei compiti della psichiatria , compito determinante, e' quello di demistificare, di demedicalizzare, depsicologizzare, compito non facile perche' implica un ascolto attento dei problemi , una ricerca dellla loro soluzione, una collaborazione calda con l'essere umano che ci sta di fronte.
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