giovedì 27 agosto 2009

psichiatria : una nuova etica della cura (uno)

di Luigi Ferrannini Dip.Sal Ment. Genova , ASL3 , Giovanna Ferrandes U.O. Psic. Clin. Psicot. S.Martino , Genov, dalla rivista "l'Altro" del  2/magg./2009 Introduzione La dimensione etica è diventata negli ultimi anni uno dei paradigmi fondamentali dell' intervento nell'area sanitaria: dai problemi che riguardano la nascita a ciò che si muove quando siamo di fronte alla morte, ma anche - e soprattutto - per ciò che riguarda la cura della fragilità, in psichiatria e non solo. La bioetica in particolare garantisce che la scienza medica, in tutte le sue applicazioni, possa confrontarsi costantemente con altre discipline, a cominciare da quelle umanistiche: non si può praticare una medicina "sufficientemente buona" senza porsi domande sul contesto sociale, sugli aspetti psicologici, sul senso etico dell'intervento e sul significato culturale. S. Spinsanti a questo proposito in più momenti ricorda l'indispensabilità di tale intreccio nella nostra epoca e già nel 2003, affrontando il tema delle scelte etiche in fine vita, sottolineava: "Non si tratta di togliere potere alla medicina, né vogliamo sottoporla a un magistero etico che la guidi dall'esterno, quasi non avesse in sé le potenzialità di trovare una strada che non calpesti i valori in cui crediamo. ...C'è invece una grande fiducia nella capacità dei medici... ...Da loro ci aspettiamo una medicina potente, anche se consapevole del limite; più ricca di farmaci efficaci, ma anche più ricca di pensiero; più attenta a quanto sappiamo dell'uomo - dell'uomo destinato alla morte - non solo dalle scienza naturali, ma anche dalle scienze dell'uomo e dalla tradizione umanistica." (1, p.8) Viviamo nell'epoca di una nuova attenzione ai diritti : se da una lato infatti assistiamo al rinforzo, se non alla nascita, di nuovi poteri - e il veloce andamento della scienza e delle scoperte scientifiche ne è un significativo esempio - dall'altro affrontiamo sempre maggiori forme di precarietà e fragilità. La ricaduta è proprio sul rapporto/confronto tra valori e diritti. Lo ricorda L. Battaglia (2) parlando della metamorfosi dei diritti nella nostra epoca, dal passaggio dai diritti di prima generazione (vita, libertà, dignità) al diritti di seconda, terza e quarta generazione, nel quale inserisce la questione della bioetica e delle ricadute delle tecnoscienze sulla vita individuale e collettiva. La sua riflessione aiuta ad individuare quelli che definisce diritti "imperfetti", nel momento in cui la medicina e le altre discipline "per l'uomo" si pongono il problema di capire il rapporto tra cura e diritti dei soggetti deboli. "Affermare un diritto equivale a segnalare un'ingiustizia, spesso non contemplata dalla legge. E' all'interno di una concezione dinamica della giustizia che il diritto si rivela uno strumento importante, se non irrinunciabile. Né il diritto dimentica lo squilibrio di potere delle parti. È questo, anzi, il dato da cui prendere le mosse e che si propone di sanare, nel tentativo di ristabilire un equilibrio........ Vulnerabilità e fragilità Oggi parlare di autodeterminazione del soggetto è d'obbligo in ogni procedura e contesto di cura, per significare il diritto della persona di essere co-soggetto delle decisioni e dei processi. Ma cosa accade quando la persona è nella difficoltà, se non nell'impossibilità, di esercitare il suo diritto? Cosa succede quando quello che sembra ormai un percorso lineare di garanzia e sviluppo rischia di trasformarsi in una trappola, nascosta dietro un'apparente protezione? Stiamo parlando di persone "fragili" prima ancora che di pazienti; stiamo parlando di vulnerabilità prima ancora che di malattia. Ed è ipotizzabile che nello stesso processo di sviluppo - dell'individuo, dell'esperienza, della patologia - ci sia sempre qualcosa che c'era prima o che sottende e che diventa fattore di rischio e di suscettibilità - ad ammalarsi, nel corpo e nella mente. Linda P. Fried nel 1992, utilizzando un criterio operativo,definiva la fragilità come "provocata dall'incapacità di sistemi biologici a vari livelli (dalla cellula alla persona) di conservare l'omeostasi", pur concludendo, dopo l'analisi dei fattori e dei parametri clinici che "la fragilità non è sinonimo di disabilità" (3). E a distanza di pochi anni la conoscenza delle complesse interconnessioni neurali e ormonali, del ruolo dei geni e delle loro mutazioni, del rapporto sempre più forte tra ambiente e soggetto ci costringe da una lato a riflettere sulle infinite potenzialità dell'uomo e dall'altro alla sua inesorabile fragilità. In ciò che possiamo definire organico e in ciò che possiamo definire psichico, usando il linguaggio "divorzista" che la nostra cultura ancora impone. "Frango" è rompere: qualcosa che sottoposto ad una pressione rischia di danneggiarsi. Lo osserviamo in oncologia - specie laddove la vulnerabilità o meglio la predisposizione è scritta nel DNA della persona, nel sistema immunitario in qualche modo debole e reattivo agli eventi - e lo osserviamo ancor più in psichiatria, pensando a storie di rotture, perdite, violenze. La traduzione in termini di vissuto richiama a situazioni cllniche, in cui spesso c'è da un lato la fragilità vissuta dal paziente, dal soggetto che riconosce ma non sempre conosce la sua debolezza ed il suo limite, dall'altro c'è la stessa fragilità vissuta dal terapeuta che deve saperla oggettivare e al tempo stesso soggettivare, per un'azione di tutela. Franco, 54 anni, commercialista, coniugato con tre figli, una madre deceduta per tumore al colon, consapevole della possibile suscettibilità ad ammalarsi, non si sottopone mai a sorveglianza. Vince per anni la difesa intellettualizzante che legge la vita in visione fatalistica e nega la complessità della situazione. Persona rigida, dalla forte personalità, rigorosa, razionale, ai primi sintomi della malattia reagisce con incredulità prima, e con determinazione a curarsi poi, senza cenni di disagio, supportivo lui stesso nei confronti della famiglia. La malattia si complica e con essa il percorso di cura: Franco vacilla, all'improvviso "non riconoscendosi più" diventa emotivamente debole e indifeso. Rifiuta le cure. Durante la crisi emotiva esplode il sistema difensivo che ha retto per anni ed emerge la vulnerabilità anche emozionale, probabilmente anche per lui sempre intrecciata a quella organica. La storia di Franco è quella di un adulto "competente", costretto a confrontarsi drammaticamente con la sua fragilità e per il quale è difficile comprendere il limite, di fronte al quale tende a fuggire o meglio a scegliere di fuggire. Debolezza? Arrivano in Pronto Soccorso spaventate, bloccate, tremanti. Hanno nomi dolcissimi - Evelyn, Rose Mary, Christine, Èva - e cognomi per noi impronunciabili, ricchi di K, X, J, W..Vengono dalla Nigeria, dalla Somalia, dall'Albania, dalla Russia. Sono giovani, a volte giovanissime. Accompagnate di solito da una connazionale, da un vicino di casa, da un poliziotto, che ci forniscono scarne notizie : "Da qualche giorno non mangia, piange sempre" .... "L'abbiamo vista affacciata alla finestra, sembrava sì volesse buttare" .... "Camminava lungo i binari della stazione, era confusa ..." Sono curate nell'aspetto, hanno grandi occhi tristi e diffidenti. Si ritraggono impercettibilmente quando ti avvicini a loro, come un animale che si senta minacciato. Accettano il ricovero, si mettono a letto, si coprono il viso con le lenzuola. Non chiedono nulla. Non disturbano. Se piangono, cercano di non farsi notare. Parlano il meno possibile, hanno paura di dare troppe informazioni Mangiano con appetito, dormono profondamente, Riposano. Noi ci confrontiamo con le nostre fantasie: di una vita difficile, a cui non erano preparate - pensiamo al marciapiede, allo sfruttamento, a minacce e percosse -, di una nostalgia lacerante, improvvisa, di insopportabile solitudine, povertà, miseria. Cerchiamo nel loro corpo - giacché l'anima si nasconde - gli indizi della loro storia, del loro dolore : lividi, ferite, contusioni, test di gravidanza, malattie infettive. Dopo due - tre giorni chiedono di essere dimesse. Dicono di stare meglio, non piangono più. Qualcuno, a volte, viene a prenderle. Se ne vanno, lasciandoci la frustrazione che non abbiano potuto fidarsi di noi. Lasciano l'ospedale come si lascia un momentaneo rifugio, una tana calda, un riparo nella burrasca.La storia delle "fuggiasche" è storia della fragilità dell'oggi, in cui donne adulte, altrove competenti, si ritrovano in un altrove che le rende incompetenti. La prima spontanea domanda è se la fragilità non sia piuttosto comunitaria, sociale e se il vissuto di impotenza sia anche di chi non può che accogliere piuttosto che "curare". Il concetto di adulto competente - e bene sottolinearlo -è oggi sempre più riferibile alla malattia cronica e quello che comporta innanzitutto sul piano delle relazioni -medico/paziente, familiare/paziente, famiglia/società. Quando il soggetto perde, e con l'evolversi lento del cosiddetto danno, la sua competenza decisionale e la sua autonomia, a più livelli nelle diverse fasi del percorso si pone il problema etico di chi decide, di chi tutela, di chi definisce il diritto. Il problema si fa eticamente complesso quando vi è la totale perdita di "voce" come nelle gravi cerebro lesioni, ma anche nell' ancora dibattuto campo dei diritti in psichiatria, laddove la facilità con la quale si è dato e ancora si da per scontata, se non doverosa, la perdita di diritto di autodeterminazione ha provocato situazioni indegne e fuori dal campo dei "diritti umani". Ed è bene anche in questa sede richiamare, come situazione limite, il campo delle decisioni di fine vita - e l'acceso, a nostro avviso troppo rumoroso, dibattito attuale lo dimostra -: "Quando parliamo di etica della cura ed etica di inizio e fine vita dobbiamo avere ben chiaro che stiamo navigando su acque mosse ed inquietanti, in un clima quanto mai incerto e minaccioso. Siamo sul terreno dell'impossibile, del contraddittorio, della conflittualità e la difficoltà maggiore sta nella necessità di partire - nelle riflessioni e nelle ricerche - dalla confusione, dalla paura, dai pregiudizi, dalle difese ed anche dalle ideologie" (4).

orso castano: il concetto do resilienza , chissa' perche' mi fa venire alla mente quello di " caratterologia", o "premorbosita'" o di fisiognomica . Aproposito di quest'ultima ho trovato su un sito internet questa interessante definizione, che, pero', solleva qualche perplessita':"La fisiognomica è una disciplina pseudo scientifica che si prefigge di dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona dal suo aspetto fisico, soprattutto dai lineamenti e dalle espressioni del volto. Il termine deriva dalle parole greche physys (natura) e gnosis (conoscenza). L’interesse per la fisiognomica nasce da una curiosità per cos’ dire filosofica circa il nesso tra corpo e anima, esteriorità e interiorità, che costituisce uno dei processi di classificazione più complessi della cultura occidentale. Ecco allora che la selezione operata dall’occhio sul corpo di una persona che sta di fronte risponde al bisogno di attribuire un senso coerente a ciò che ci circonda. E poiché difficilmente si accetta di aver sbagliato, Gombrich ha parlato di un vero e proprio “pregiudizio fisiognomico”. A voi commenti e riflessioni, Ricordiamo che il buon Lombroso ci aveva fondato su tutta una classificazione personologica e che tuttora i reperti da lui raccolti si trovano in un famoso museo di Torino (Museo Lombroso) , visitabile.

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