sabato 24 marzo 2012

una prima vittoria del Parlamento e della Democrazia : art.18 in Parlamento

tecnicismo , democrazia , signoraggio

La parstruens de L’uomo a una dimensione si conclude con la critica al positivismo. Nella seconda sezione del testo, difatti, Marcuse si inoltra nei bassifondi dell’ideologia che sovraintende ad una tale società repressiva, svelando il virus che secerne il conformismo unidimensionale che caratterizza tutti i piani esistenziali summenzionati. Si tratta proprio del logos tipico del positivismo caratterizzato, secondo il filosofo, dall’assoggettamento immediato del pensiero alla realtà data, quella dei fatti così come essi “si danno” nell’universo empirico. In virtù dell’impossibilità, sancita dal positivismo, di trascendere l’esperienza del “ciò che è”, il pensiero contemporaneo smarrisce il suo orizzonte critico-dialettico divenendo, ovunque esso si applichi (cultura, politica, linguaggio ecc.) agevolmente preda del conformismo. La filosofia stessa, ancella del pensiero, scade in sterili e vacui giochi di significato. Il riferimento polemico del filosofo francofortese è costituito da Wittgensteine dalla filosofia analitica, colpevoli di gravare esageratamente la lama del “rasoio di Occam” sino a svilire la portata di verità della stessa disciplina. L’analisi filosofica tuttavia, non si esaurisce nel linguaggio e nel metalinguaggio ed è per questo che Marcuse sostiene la necessità di una filosofia che torni a offrire il sostrato di una pratica storica volta a indicare nuovi modi di strutturare la realtà. Laddove il pensiero, in altri termini, riconquistasse il suo spessore critico, negativo, sarebbe davvero possibile auspicare una rivoluzione capace di spezzare le catene della schiavitù cui gli uomini sono soggiogati a causa dell’ideologia industriale avanzata. L’impegno filosofico, evocato da Marcuse, si configura quindi come teoria della rivoluzione il cui orizzonte da raggiungere è quello della «pacificazione dell’esistenza». Tale prospettiva è conseguibile (curiosamente) mediante una riconversione della tecnologia (e non attraverso la sua abolizione), allorché l’apparato produttivo tenda a produrre e distribuire non più beni superflui (che soddisfano i bisogni immediati) bensì quei beni necessari (che realizzano i bisogni vitali). In tal caso l’uomo, che a questo punto non deve produrre merci in quantità industriale (cioè in condizioni di lavoro svilenti ed alienanti), riesce ad evadere dalla logica unidimensionale della società dei consumi. Il lavoro non è più strumento coercitivo, ma una libera attività ludica e immaginativa, attraverso cui riscattare la propria natura più intima. Nell’ambito di un lavoro regolato da una pianificazione volta all’essenziale, l’uomo guadagnerebbe del tempo libero in cui sviluppare appieno le proprie facoltà intellettuali e materiali. Ciò equivale, secondo Marcuse, ad una pacificazione esistenziale. L’immaginazione, parte integrante delle facoltà intellettuali, riconquisterebbe il proprio ruolo comprimario che, assieme al logos, riveste nelle diverse sfere dell’esistenza umana.
Il pregevole saggio di Marcuse, concludendo, non poté che attecchire tra coloro che qualche anno dopo avrebbero fatto proprio dell’immaginazione il vessillo della propria rivendicazione: i sessantottini. “L’immaginazione al potere”, lo slogan adottato dagli studenti di tutto il mondo, simboleggia l’antidoto alle società repressive neoindustriali, ai grandi potentati economico-politici. Un libro che intreccia, originalmente, una pluralità di dottrine: dal marxismo(filtrato e riattualizzato) al freudismo (anch’esso epurato dei suoi anacronismi e corroborato) sino alla sociologia contemporanea. L’invettiva marcusiana (che ricalca per certi versi il discorso heideggeriano sulla tecnica) si rivolge, inoltre, al tecnicismo della politica così come (di conseguenza) alla logica manipolativa che pervade il settore lavorativo e dunque sociale, per cui, una rilettura più approfondita dell’opera, risulta attualissima ed allo stesso modo la critica in essa espressa appare sostanzialmente ancora valida.
Stefano Lechiara
Heidegger e la questione della tecnica

«E tuttavia, proprio quando è sotto questa minaccia l'uomo si veste orgogliosamente della figura di signore della terra. Così si viene diffondendo l'apparenza che tutto ciò che si incontra sussista solo in quanto è un prodotto dell'uomo. Questa apparenza fa maturare un'ultima ingannevole illusione. E' l'illusione per la quale sembra che l'uomo, dovunque, non incontri più altri che sé stesso.» 
aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaMartin Heidegger - La questione della tecnica - in Saggi e discorsi - Mursia 1976 

Che cos'è la tecnica?Nel saggio La questione della tecnica (da una conferenza del 18 novembre 1953), Heidegger risponde alla domanda sulla tecnica cominciando col dire che «Tutti conoscono le due risposte che si danno alla nostra domanda. La prima dice: la tecnica è un mezzo in vista dei fini. L'altra dice: la tecnica è un'attività dell'uomo. Queste due definizioni della tecnica sono connesse. Proporsi degli scopi e apprestare e usare i mezzi in vista di essi, infatti, è un'attività dell'uomo. All'essenza della tecnica appartiene l'apprestare e usare mezzi, apparecchi e macchine, e vi appartengono anche questi apparati e strumenti stessi, come pure i bisogni e i fini a cui essi servono. La totalità di questi dispositivi è la tecnica. Essa stessa è un dispositivo, o in latino, un instrumentum.
La rappresentazione comune della tecnica, per cui essa è un mezzo e un'attività dell'uomo, può perciò denominarsi la definizione strumentale e antropologica della tecnica.
Chi vorrà negare che sia esatta? Essa si conforma chiaramente a ciò che si ha davanti gli occhi quando si parla di tecnica. La definizione strumentale di tecnica è così straordinariamente esatta che vale anche per la tecnica moderna, la quale peraltro viene generalmente considerata, e con una certa ragione, qualcosa di completamente diverso dalla tecnica artigianale del passato. Anche una centrale elettrica, con le sue turbine ed i suoi generatori, è un mezzo apprestato dall'uomo per uno scopo posto dall'uomo...» (2)
La rappresentazione strumentale della tecnica condiziona ogni sforzo di condurre l'uomo ad un giusto rapporto con la tecnica. La tecnica deve servire lo spirito. Si vuole così dominare la tecnica, ma essa può sfuggire al controllo. «Ma nell'ipotesi che la tecnica non sia un puro mezzo - si chiede Heidegger - che ne sarà della volontà di dominarla?» (3) La definizione data è certamente esatta, ma non è detto che sia vera. Solo il vero ci può condurre a svelare l'essenza della tecnica. La definizione strumentale non ci mostra l'essenza della tecnica. Dobbiamo domandarci cosa sia la strumentalità. A cosa ci fanno pensare elementi come mezzo fine.Heidegger a questo punto evidenzia il rapporto di causalità esistente tra mezzo e fine. Analizza il concetto di causa così come è stato posto dalla metafisica. E, dopo essersi chiesto "in base a che cosa il carattere di causa delle quattro cause si definisce così unitariamente da far sì che esse siano reciprocamente connesse", afferma: «Fino a che non ci dedicheremo a questi problemi, la causalità, e con essa la strumentalità, e insieme con questa la definizione corrente della tecnica, resteranno qualcosa di oscuro e non-fondato.»  
testo a cura di Daniele Lo Giudice e Silvana Poggi - 3 dicembre 2005 


orso castano : la dialettica tra tecnica e politica, tra messianismo tecnicista e dialettica democratica intesa come base , fondo della ricerca politica , non e' certo cosa recente. il ripescaggio di due grandi pensatori , puo' aiutarci a comprendere il perche' del "fallimento" (anche se parziale) dell'Utopia Tecnicistica ed il prevalere dell'arte della Politica (governo della polis) , espressione della liberta' dei soggetti collettivi e del soggetto in quanto tale.

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