sabato 11 maggio 2013

DOCUMENTO DI ECONOMIA E FINANZA 2013 , DEF, la relazione di minoranza, relatore BARBANTI, Trasmesso alla Presidenza l’11 aprile 2013

orso castano : il documento di minoranza sul DEF da parte dei grillini presenta analisi e spunti condivisibili , articolati, che sono patrimonio della sinistra ed arrivano dalla sua cultura, dalla difesa della situazione sociale perche' non continui a precipitare ed a travolgere. Stupisce di come ad una analisi di "sinistra", non corrisponda poi un comportamento strategico conseguente a livello di forze parlamentari. E' come se quest'analisi servisse solo ad acquisire consensi, ma , poi, ci fosse una sorta di autocastrazione, nel non sapere o volere costruire alleanze in grado di concretizzare tali obiettivi. E' poco chiaro il perche' di questa scelta. E pone problemi e quesiti. Intanto la tenuta del "movimento" pare stia sempre piu' venendo meno....
ONOREVOLI COLLEGHI ! – Il Documento di Economia e Finanza (DEF) 2013, strumento con cui si delineano gli scenari di programmazione economico-finanziaria edi bilancio, previsto dall’articolo 10 della legge n. 196 del 2009, è stato presentato dal Governo Monti dimissionario, e assunto dal nuovo Governo in carica, che ha già anticipato nel discorso di insediamento di voler apportare modifiche al Documento stesso. Nella introduzione al DEF, il Presidente del Consiglio uscente, pur consapevole di non poter formulare orientamenti, che impegnino le scelte d’indirizzo economico-legislativo del futuro Governo, ha assunto iniziative, che ritiene necessarie per portare a termine l’incarico di risanamento dei saldi di finanza pubblica, in coerenza con gli impegni assunti con l’Unione europea. Il rapporto tra deficit e PIL è previsto al 2,9 per cento nel 2013 e all’1,8 per cento nel 2014. Il debito pubblico – al lordo dei sostegni alla Grecia e al fondo ESM –salirà nel 2013 al 130,4 per cento in rapporto al PIL e dovrebbe iniziare a diminuire già dal 2014, così come indicato nel DEF.Dall’analisi complessiva del Documento,emerge che il Governo uscente attribuisceal DEF prioritariamente la funzione di assicurare e perseguire l’obiettivo del pareggio di bilancio « in termini strutturali »,confermando come uniche direttrici diazione le regole previste dal Patto di Stabilità e dal Fiscal Compact.Lo stesso ex Presidente del Consiglio ha riconosciuto che le politiche di austerità,da considerare « temporanee » ma irrinunciabili, hanno avuto effetti recessivi sull’economia italiana. In quest’ottica, il pareggio di bilancio è condizione, insieme alla deflazione salariale, per la ripresa futura. In realtà gli effetti recessivi sulla nostra economia sono stati maggiori delprevisto, come confermano i dati diffusi dall’ISTAT.Sulla base dei dati riportati nel DEF, sirileva  che il Governo Monti evidenzia la necessità di adottare manovre correttive dei conti pubblici, per un ammontare di 1,4 punti percentuali di PIL all’anno a partire dal 2015.Nonostante l’esaltazione dell’azione di risanamento dei conti pubblici del Governo Monti, emerge la drammatica verità che, nelle pur ottimistiche previsioni, il 2013 si chiuderà con un debito pubblico di dieci punti percentuali di PIL in più rispetto al 2011, confermando la probabile necessità di ulteriori e pesanti manovre di finanza pubblica per conseguire il pareggio strutturale del bilancio.Inoltre, si rileva la carenza di risorse da destinare ad alcuni interventi urgenti e necessari per i prossimi mesi, non finanziati in occasione dell’approvazione della legge di stabilità 2013, tra i quali figurano:il finanziamento della cassa integrazione in deroga, l’erogazione delle prestazioni pensionistiche agli esodati salvaguardati, il rifinanziamento del credito d’imposta del 55 per cento per le ristrutturazioni ecosostenibili, nonché l’estensione, oltre il 2014, del pagamento dei debiti ancora pendenti delle pubbliche amministrazioni verso le imprese. La situazione in cui si trovava l’Italia a fine 2011, determinata dall’inettitudine di una politica economica che si è alternata solo formalmente nel nostro Paese, ci ha
portato sull’orlo del baratro, marginalizzando la nostra economia rispetto ad altri Paesi anche dell’area euro. La totale assenza di un qualsiasi progetto di politica industriale ed economica è stata appesantita da un sistema fiscale iniquo e insopportabile, che ha colpito in particolar modo le fasce sociali ed economiche più
deboli della popolazione e del settore produttivo. Scelte inique che hanno lasciato del tutto inalterati i privilegi di classi parassitarie ed improduttive, mettendo in dubbio, nel contempo, diritti civili e sociali acquisiti con dure lotte, sacrificate sull’altare del peggior liberismo monetarista. Si è abbandonato il popolo italiano – pensionati, invalidi, disoccupati, esodati, esuberati, lavoratori di ogni classe sociale – che nessuna responsabilità ha avuto nel tracollo del Paese. Il grande capitale economico-finanziario di natura speculativa, invece, è rimasto inviolato, come impuniti sono rimasti quegli infedeli uomini delle istituzioni che
hanno agevolato l’opera demolitrice dello Stato sociale e non hanno eliminato gli sprechi della politica. Le politiche economiche sino ad oggi adottate dal Governo, hanno infatti prodotto continue riduzioni
della spesa per pensioni, sanità, scuola, servizi pubblici trasferendola su chi ha investito in titoli, ossia chi ha avuto maggiori possibilità di risparmio e in genere chi ha alti redditi. In pratica si è effettuata
una ridistribuzione della ricchezza in senso inverso, aumentando quella di coloro che hanno contribuito al verificarsi della crisi, a discapito di coloro che l’hanno subita. Anche il FMI ha di recente evidenziato
che molti Governi, tra cui quello italiano, hanno impostato le loro politiche economiche su errate previsioni e adottato riforme strutturali inefficaci che, in concomitanza ai tagli di spesa pubblica, rischiano di aggravare la situazione. Considerazioni ancora più vere per la clamorosa svista storica di Reinhart e Rogoff, che fa crollare uno dei dogmi su cui si è retta, per diversi decenni, la politica del rigore e, cioè, che quando il
rapporto tra debito pubblico e PIL supera il 90 per cento, la crescita si blocca e si entra in recessione, come evidenziava di recente sul Financial Times Martin Wolf. I dati e le previsioni del DEF 2013 confermano l’insostenibilità e l’inutilità della linea di cieca austerità e di svalutazione del lavoro e la necessità, invece, di
mutare radicalmente le politiche fino ad oggi intraprese. Le politiche di rigore, finalizzate solo al conseguimento del pareggio strutturale di bilancio – recepito ormai in alcune delle Costituzioni dei Paesi dell’area euro, spesso, come in Italia, senza che ci sia stata una consultazione popolare di tipo
referendario –, prevedono l’obbligo di ridurre nei prossimi venti anni i debiti pubblici eccessivi, ossia quelli che superano il 60 per cento del PIL, con la conseguente deflazione salariale come strumento di aggiustamento degli squilibri dei conti correnti esistenti fra gli Stati. Per attuarle si sono adottate scelte
economico-finanziarie, finalizzate ad ottenere un alto avanzo primario del bilancio pubblico attraverso meccanismi, che hanno generato effetti negativi sulla domanda interna aggregata. Difficile pensare che questi effetti siano compensati da un’adeguata crescita delle esportazioni, dato il contesto deflazionistico che le politiche europee impongono a tutti i paesi dell’area. Si assiste, nei fatti, ad una caduta della domanda interna e del reddito che, dai paesi dove le misure di austerità sono più drastiche, sta estendendosi agli altri. Non è un caso che la stessa Germania ne risenta ! Senza cambiare rotta ci si può attendere solo che la crisi si avviti in una spirale pericolosa: avanzi primari e deflazione salariale, caduta della domanda e dei redditi, debito fuori controllo. Inoltre, è preliminare ad ogni politica eseguire un « audit pubblico » sul totale del debito, cioè un’analisi della sua origine, legittimità, legalità e sostenibilità. L’audit è uno strumento essenziale affinché la popolazione prenda coscienza del disagio economico e possa comprendere e scegliere le strategie
per affrontarlo, eventualmente ristrutturarlo, ridare un futuro al paese e, comunque, per aprire un tavolo di confronto con gli altri paesi dell’Unione europea. Nel luglio del 2012 il nostro Parlamento
ha ratificato, in un clima che potremmo definire inerziale, due importanti trattati: quello sul Fiscal compact e quello sul Meccanismo europeo di stabilità (MES) che dreneranno ulteriori spazi finanziari alla nostra economia. Per raggiungere gli obiettivi del primo, infatti, sarà necessario rastrellare circa 900 miliardi di euro in venti anni, 50 ogni anno, 150 milioni ogni giorno nella migliore delle ipotesi. Per il secondo, invece, l’Italia ha dovuto sottoscrivere quote per il 18 per cento dell’intero capitale, pari un importo certo di 14 miliardi di euro in 5 anni e potenziale di 125 miliardi. L’impianto così precostituito risulta un’enorme contraddizione: si strangola l’economia reale con misure di austerità per uscire dalla « crisi del debito » e, nello stesso tempo, quest’ultimo lievita a dismisura, anche per effetto delle stesse strategie volte a ridurne la consistenza.
Il prezzo da pagare per restare in Europa è il seguente: lo Stato si svena tassando i propri cittadini, tagliando servizi, cancellando diritti, emettendo nuovi titoli del debito pubblico e l’Europa, a sua volta, « finanzia » le banche attraverso operazioni di mercato aperto – Longer Term Refinancing Operation (LTRO) – che
consentono a quest’ultime di realizzare facili guadagni, attraverso operazioni di carry trade sui titoli di Stato. Il M5S ribadisce che nell’ambito del descritto quadro congiunturale non è pensabile una nuova manovra economica pesantemente depressiva, al contrario servono scelte coraggiose e innovative. Infatti, i risultati di un nuovo studio del FMI rilevano che i piani di austerità fiscale hanno un impatto negativo sulla crescita molto superiore a quanto finora stimato. La maggior parte dei modelli utilizzati dalle istituzioni internazionali –
tra cui la Commissione europea – su cui sono basati i programmi di aggiustamento dei paesi in difficoltà e le previsioni di crescita, indicavano il moltiplicatore fiscale a 0,5: cioè ad ogni punto percentuale di taglio del deficit sarebbe dovuto corrispondere mezzo punto di minor crescita. Secondo, invece, i nuovi calcoli del FMI realizzati da Oliver Blanchard dallo scoppio della crisi del 2008 ad oggi, dimostrano che il moltiplicatore in realtà si collocherebbe fra lo 0,9 e l’1,7, quindi, ad ogni riduzione del deficit dell’1 per cento del PIL segue una minor crescita, nella migliore delle ipotesi quasi equivalente, ma nella peggiore molto superiore, dimostrando quindi di innescare una spirale negativa superiore alle previsioni fra tagli
fiscali e recessione. In risposta all’eclatante fallimento del sistema di austerità occorre porre in essere una diversa politica europea attraverso l’attuazione di misure anticicliche anche attraverso la rinegoziazione del
Trattato di Maastricht e del Fiscal Compact al fine di rilanciare una « nuova Europa ». Serve una maggiore democrazia nella governance europea che ponga al suo centro il benessere dei cittadini europei e
non il mito dello sviluppo e della crescita che ci ha trascinato nella situazione attuale.
Va, inoltre, ridefinito il ruolo della Banca centrale europea (BCE), che dovrebbe diventare prestatore di ultima istanza per i diversi debiti pubblici statali ed inserire tra i suoi obiettivi il perseguimento della piena occupazione, nonché il finanziamento diretto degli investimenti produttivi. La moneta unica europea, infatti, ha permesso per anni una certa stabilità dell’Eurozona, nascondendo le evidenti diversità economiche tra nazioni, a prezzo però di una rigidità pericolosa che non ha permesso di rispondere alla crisi economica mondiale. Infatti, sono stati impediti i naturali aggiustamenti di svalutazione/rivalutazione monetaria del passato, quando erano in corso la lira e le altre valute europee. Questi aggiustamenti permettevano un rilancio delle economie in difficoltà. Sarebbe stato ragionevole dapprima costruire politicamente e democraticamente l’Europa – con un’unica previdenza, un’unica fiscalità, uguali contratti e l’elezione diretta dei membri del Consiglio europeo – per poi dotarla di una moneta unica. Occorre che i paesi con
bilancio positivo, come la Germania, si facciano carico del fondo di stabilità europeo (MES) senza ricatti verso gli Stati che invece non possono contribuirvi nelle misure richieste e che rischiano il fallimento, come l’Italia. Bruxelles ha il dovere di attuare riforme europee che prevedano, ad esempio, la nascita di una Banca centrale europea realmente garante dell’Eurozona e la stesura di un bilancio comunitario serio. Fermo restando il PIL come indicatore di alcuni dati economici di una collettività, risulta necessario affiancargli uno strumento qualitativo che non guardi al solo carattere economico, ma anche sociale e ambientale, corredato di misure di diseguaglianza e sostenibilità. Introducendo tale criterio, possiamo guidare scelte politiche che non abbiano più come metro di riferimento solo la logica del profitto e lo sfruttamento delle
risorse, ma anche la felicità ed il benessere della popolazione. La programmazione della politica economica e finanziaria e gli obiettivi della finanza pubblica che vuole perseguire il M5S per il benessere dell’Italia e la tutela del suo popolo, non è quella che ha perseguito questo Governo né quello dei precedenti e ciò proprio per quell’idea di Europa che deve avere – come sua prima missione – quella di realizzare la pace e
la felicità dei suoi popoli. Analizzando criticamente il programma nazionale di riforma (PNR) contenuto nel  DEF, si rileva comunque una totale mancanza di un progetto organico. Al riguardo, esaminando le problematiche e le relative misure adottate dal Governo in ogni ambito di intervento, si evidenzia che, sul fronte dello snellimento della burocrazia e della inefficienza che caratterizza la nostra pubblica amministrazione, le uniche soluzioni prospettate nel DEF sono la riduzione del personale, il blocco del turn-over e la mobilità. In parallelo le ulteriori proposte riguardano l’aumento dell’imposizione da parte degli
enti locali ed il riordino delle province. La recente legge anticorruzione aveva l’obiettivo di combattere l’illegalità nella pubblica amministrazione, ma tale finalità non è stata raggiunta. Il nostro Paese sopporta una zavorra stimata in 60 miliardi di euro annui dovuti alla corruzione, che l’economia italiana non può reggere. A
nostro avviso il forte limite di questa legge è quello di aver introdotto solo norme « minime » ed un impianto debole per la lotta alla « mala amministrazione ». Da ultimo, non è stata data una soluzione credibile al conflitto d’interessi né alla lotta contro la corruzione, di cui si riferirà oltre; come M5S diamo indicazioni di intervento urgenti e necessarie, anche alla luce degli ultimi pavidi interventi, con i quali non si è nemmeno raggiunto l’obiettivo minimo della convenzione penale europea sulla corruzione del 1999. Per quel che concerne la riorganizzazione della pianta organica della pubblica amministrazione, è per il M5S essenziale e non più rinviabile, una riforma di tutta la normativa che disciplina la selezione dei candidati ai vertici delle aziende pubbliche, comprese le partecipate di ogni livello, per fare in modo che la selezione si basi su criteri di trasparenza ed evidenza pubblica, sul principio della netta separazione tra politica e amministrazione, sul divieto di cumulo di cariche elettive, sull’adozione di una normativa in grado di prevedere la
potenzialità di un conflitto di interessi e impedirne la configurazione. Occorre inoltre parametrare gli stipendi dei manager pubblici allo stipendio dei propri dipendenti ed introdurre il principio di collegamento tra il compenso ed i risultati ottenuti. Sul medesimo tema non è più rinviabile l’abolizione delle province, l’intervento per l’accorpamento dei comuni più piccoli e la eliminazione degli enti cosiddetti intermedi. Abbiamo oltre 7.000 enti strumentali (consorzi, aziende, società) che occupano circa 24 mila persone nei consigli di amministrazione. Gli stessi servizi potrebbero essere forniti dagli enti locali di riferimento territoriale mantenendo la stessa – se non migliore – qualità di oggi. Il costo dei compensi, le spese di rappresentanza e per il funzionamento dei consigli di amministrazione e degli organi collegiali, delle società pubbliche o partecipate è pari a oltre 2 miliardi di euro. Ecco un settore della spesa inutile il cui taglio consentirà un abbattimento della spesa pubblica. Seppur relativamente alla parte riguardante il decreto « Semplifica Italia » e alle attività dirette a garantire trasparenza e legalità della pubblica amministrazione, non paiono sussistere elementi di criticità di notevole rilievo, altrettanto non si può dire per quel che concerne l’attuazione degli stessi: la semplificazione è un fattore economico di risparmio, valutato dall’OCSE come indice di salute interna di un Paese. L’assenza di risultati in un ventennio di tentativi sulla semplificazione della pubblica amministrazione pone l’Italia tra gli ultimi posti in ambito internazionale. La pubblica amministrazione deve,
inoltre, modificare il modo di acquisire le certificazioni. Avendo già a disposizione le informazioni di cittadini e imprese, grazie ai database di interesse pubblico esistenti, le pubbliche amministrazioni devono essere obbligate all’acquisizione e al rilascio automatico delle suddette documentazioni. L’obiettivo è di raggiungere il risultato di una amministrazione digitale veloce ed efficiente che porti ad una riduzione dei costi  burocratico/amministrativi ed in cui i vari sistemi informatici devono essere interoperabili e le cui informazioni devono essere condivise.Si ritiene positiva la strada tracciata dal recente testo unico in materia di trasparenza, predisposto dal Governo, col quale si permetterebbe l’accesso civico a documenti di pubblico interesse nell’obiettivo di creare « un’amministrazione trasparente ». Auspichiamo che il testo trovi
reale attuazione senza proroghe ed eccezioni di alcun tipo e che l’impianto sanzionatorio che vi è presupposto sia tale da renderlo una norma perentoria. Nel settore trasporti e telecomunicazioni emerge dal DEF che sono state fatte delle azioni a favore della diffusione della banda larga entro il 2013 grazie a fondi
statali (articolo 14 del decreto-legge n. 179 del 2012) e al relativo cofinanziamento regionale. Si è concluso il passaggio alla televisione digitale su tutto il territorio nazionale, nel pieno rispetto delle tempistiche europee. Per quanto attiene lo sviluppo delle infrastrutture di telecomunicazione, il decreto « Crescita 2.0 » ha introdotto alcune norme volte a incrementare la diffusione delle infrastrutture di comunicazione a banda larga alleggerendo i costi di realizzazione. L’agenda digitale italiana si è posta degli obiettivi a medio e lungo termine. Sono stati già fatti alcuni passi avanti, cambiando il concetto di pubblica amministrazione. Nei fatti alcuni documenti come la carta di identità e la tessera sanitaria saranno uniti in un unico documento. Inoltre la pubblica amministrazione ha cambiato la maggior parte dei documenti da formato cartaceo ad elettronico, tipo il CUD, il modello ObisM, i contratti pubblici d’appalto. Tuttavia affermare che l’Agenzia per l’Italia digitale sia « già operativa » come si evince dal DEF, non è del tutto corretto, in quanto mancano ancora gli strumenti operativi. Nell’ambito degli interventi previsti dal DEF 2013 sulle attività produttive si segnala che il tempo di pagamento massimo delle pubbliche amministrazioni verso le imprese fornitrici fissato in 30/60 giorni è difficilmente raggiungibile anche a causa della procedura di certificazione del credito, sia per la mancanza di una previsione di limite temporale per la nomina del « commissario ad acta », sia per l’assenza di un efficace sistema di monitoraggio dell’ente debitore. Il costo della procedura della certificazione del credito, estremamente oneroso, dovrebbe essere assunto dal debitore. Il problema inoltre non è solo nei
tempi di pagamento delle pubbliche amministrazioni, ma anche nella sua dilazione nel concedere l’autorizzazione alla fatturazione da parte del fornitore, legata alla mancanza di fondi. Solo da quel
momento, che nell’attuale scenario potrebbe rappresentare già un tempo insopportabile per la piccola o media impresa (PMI), trae origine il credito e, conseguentemente, scatta il termine di pagamento.
È da analizzare anche da dove arrivi la copertura per il Fondo destinato al pagamento dei crediti della pubblica amministrazione e bisogna che vi sia collegamento temporale fra i tempi e le modalità di finanziamento del Fondo, il rimborso e la remunerazione delle anticipazioni per le quali viene utilizzato al fine di evitare  ulteriori squilibri finanziari e onerosità dell’indebitamento. Lo Stato paghi subito, senza ulteriori
scuse o balzelli, i debiti contratti con le imprese e i cittadini. Tutti i 90 o 130 miliardi devono essere resi subito incassabili, anche attraverso cessione dei crediti in forma pro soluto verso le banche o meglio verso la Cassa depositi e prestiti S.p.A., che liquiderà il dovuto alle imprese attraverso gli sportelli di Poste italiane e comunque compensabili con altre tasse dovute o girabili ad altre aziende, favorendo la rete fra imprese. Questa misura non cambierà i conti dello Stato, che pagherà, quando lo riterrà opportuno, la Cassa depositi e prestiti, ma rispetterà i pagamenti verso le imprese, come prescrive l’Unione europea. Occorre una riforma della giustizia civile che intervenga sulla struttura del procedimento per rimuovere gli ostacoli
che ne impediscono la sua celere celebrazione, in modo tale da raggiungere definitivamente soluzioni concrete e risolvere i problemi legati alla ragionevole durata del processo. Si dovrebbe provvedere ad
una gestione più efficiente ed efficace dei tribunali, anche attraverso l’implementazione delle migliori pratiche – cosiddette best practices – già realizzate presso alcune corti d’appello. Occorre, poi, mettere
in atto ogni iniziativa utile al completamento degli interventi di informatizzazione e digitalizzazione quali il processo civile telematico, già in uso in diversi tribunali italiani. L’inefficienza della giustizia, secondo
tutte le statistiche internazionali, è uno dei fattori per cui le imprese estere non sono propense ad investire nel nostro paese e rappresenta uno dei freni all’economia. Uno snellimento dei nostri codici di procedura, nonché una lotta più serrata alle pratiche corruttive che infestano la pubblica amministrazione produrrebbe, sicuramente, una maggiore attrazione del capitale finanziario ed umano. Pertanto è necessario aumentare i
fondi riservati alla giustizia prevedendo altresì nuovi concorsi per il personale amministrativo e togato che attualmente sono inferiori al turn-over da pensionamento. Sulla soppressione dei tribunali, attuata dalla legge di stabilità 2012, vi è da specificare come qualsiasi taglio lineare sia deleterio per l’efficienza e l’efficacia dell’azione giudiziaria. Sebbene non si sia aprioristicamente contrari ad una riduzione delle sedi di tribunali, la riallocazione delle risorse è da studiare tenendo conto concretamente delle specificità del territorio, sia dal punto di vista geografico, che dal punto di vista dell’importanza di alcune procure, quali sentinelle dello Stato in territori ancora controllati dalla criminalità organizzata. In merito alle professioni regolamentate rileviamo che i princìpi del libero accesso ad esse non hanno toccato le rendite di posizione di notai e farmacisti.
Anche la riforma della professione forense, disposta con la legge 31 dicembre 2012, n. 247, presenta notevoli criticità. Tra le tante, essa sembra favorire i grandi studi legali, collegati alle grandi lobby e
alle grandi aziende, contro i liberi professionisti che tutelano le istanze dei cittadini e dei consumatori. Riforma che sembra più orientata a mortificare e minare la funzione originaria dell’avvocatura quale baluardo contro ogni tipo di sopruso da parte del potere nei confronti delle parti più fragili della società. Anche i nuovi parametri tariffari, rivedendo al ribasso le competenze degli avvocati, surrettiziamente favoriscono chi ha maggiore potere contrattuale all’interno della società. Negli ultimi anni abbiamo inoltre assistito ad un aumento indiscriminato del contributo unificato, strumento utilizzato per denegare l’accesso alla giustizia e la tutela dei propri diritti sanciti solennemente dalla Costituzione. Ciò è tanto più vero soprattutto pe i procedimenti giurisdizionali amministrativi per cui tale aumento appare incostituzionale in quanto limita fortemente il diritto di difesa dei beni comuni, specie da parte dei comitati e delle associazioni portatrici di
interessi diffusi e collettivi. Per quanto riguarda le misure sull’anticorruzione, si osserva che le nomine dei componenti della CIVIT dovrebbero essere fatte tenendo conto dei pareri e delle osservazioni di esperti provenienti anche dalla società civile, quali associazioni ed organismi terzi competenti in materia. Per quanto riguarda i magistrati fuori ruolo, sollecitiamo il varo del decreto legislativo da parte del Governo – il cui termine per l’emanazione era stato fissato al 28 marzo 2013 – per definire gli incarichi incompatibili con la funzione esercitata.Sulla prevenzione delle infiltrazioni della criminalità organizzata negli appalti
pubblici, sarebbe necessaria l’adozione di strumenti di controllo ex ante più stringenti e maggiormente integrati tra le varie banche dati esistenti. Occorre, inoltre, prevedere che, tra le cause di risoluzione del
contratto d’appalto, vi siano anche le sentenze di condanna definitiva per gravi reati che riguardano i soggetti subappaltanti, oltre ai soggetti appaltatori. All’interno della stessa legge anticorruzione, mancano espresse previsioni relative alla reintroduzione del reato di falso in bilancio e frode fiscale, così come dovrebbe essere ricondotta alla originaria formulazione il reato di concussione senza distinzione alcuna tra fattispecie « propria » ed « impropria »; all’introduzione del reato di auto riciclaggio, così come manca una nuova legislazione che impedisca alla criminalità organizzata di condizionare la competizione elettorale, nonché una norma volta alla modifica, in senso più severo, del reato del voto di scambio elettorale politico-mafioso di cui all’articolo 416-ter del codice penale; all’aumento dei termini di prescrizione per reati di particolare gravità e, in particolare, per i reati contro la pubblica amministrazione. Con riguardo, infine, al regime d’ineleggibilità e decadenza da cariche pubbliche elettive, rileviamo che tra le cause d’incandidabilità dovrebbe essere prevista
la sentenza di condanna in via definitiva per reati non colposi con pene superiori a dieci mesi e venti giorni.
Sul sistema delle inconferibilità per un anno di incarichi dirigenziali a soggetti estranei alle amministrazioni, occorre rilevare che detto termine appare troppo blando tant’è vero che dovrebbe essere aumentato a un minimo di tre anni. L’attuale legge prevede la possibilità di deferire ad arbitri le controversie tra imprese e pubblica amministrazione ove, invece, si deve vietare alle pubbliche amministrazioni l’adesione a detti arbitrati perché, a fronte di un notevole esborso da parte dello Stato, vi è una costante soccombenza della parte pubblica. In campo internazionale si devono esperire tutte le azioni necessarie per favorire il processo di internazionalizzazione delle imprese e dell’export a partire dalle PMI, finora sempre di fatto estromesse dagli investimenti. Pur considerando l’autoproduzione e l’autoconsumo, oggi l’export resta un fattore fondamentale
della nostra economia ma deve essere valorizzato l’intero prodotto « made in Italy ». Occorre investire sulle eccellenze italiane ed incentivare l’associazionismo in consorzi per favorire il processo dell’export anche attraverso misure di microcredito e fondi rotativi a tassi agevolati, quest’ultimi, pur previsti nel DEF, ma
senza specificazione alcuna sulla loro struttura. Vanno altresì tutelati tutti i brand locali compiendo, tra l’altro, una dura battaglia contro la contraffazione internazionale. In questo campo è fondamentale il supporto dell’ACE che necessita, però, di una chiarificazione in termini di composizione, processo decisionale e raccordo amministrativo anche con l’attività svolta dalle regioni, al fine di garantire incisività e concretezza al servizio della internazionalizzazione delle imprese. Le misure attuate per il sostegno al credito d’impresa non hanno soddisfatto completamente le esigenze finanziarie delle PMI. Nel settore difesa, il DEF riporta, quale
trionfale traguardo, l’approvazione della delega al Governo per la revisione dello strumento militare nazionale di cui alla legge 31 dicembre 2012, n. 244, la cui  attuazione è, però, prevista solo a partire dall’anno 2014.
Dal DEF si evincono quattro aree di intervento: la riduzione dell’assetto strutturale del 30 per cento in sei anni; la riduzione del personale a 150.000 unità entro il 2024; la riduzione del personale militare dirigente a 310 unità per ammiragli e generali, da realizzarsi entro sei anni, e a 1.566 per colonnelli e capitani di
vascello, da realizzarsi in dieci anni; la riduzione del personale civile a 20.000 unità entro il 2024. Il volume finanziario complessivo dello stato di previsione del Ministero della difesa, come indicato nella legge 24 dicembre 2012, n. 229, recante il bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2013 e il bilancio pluriennale per il triennio 2013-2015, è pari a 20.702 milioni di euro, con un aumento di quasi un miliardo di euro, ovvero del 3,58 per cento, rispetto alla legge di bilancio per il 2012. Nella previsione triennale seppure si prevede una riduzione di 20.306 milioni per l’anno 2014, è indicato un’ulteriore aggravio, fino a 20.755 milioni di euro per l’anno 2015. La necessità di riformare il settore della difesa deve raggiungere l’obiettivo di
realizzare un sistema nazionale di difesa efficace e sostenibile che assicuri i necessari livelli di operatività e la piena integrabilità dello strumento militare nei contesti internazionali, all’interno di una prospettiva di una politica di difesa comune europea e nella cornice delle Nazioni Unite, prevedendo un ruolo attivo nella
direzione di una efficace prevenzione dei conflitti e di un mantenimento della pace, con l’esclusione di ogni ipotesi e sotterfugio di interventismo militare. Dal combinato disposto della citata legge n. 244 del
2012 e dei principi indicati nella sopra richiamata sezione del DEF, si evince che: a) non si indica come il bilancio debba essere ridotto, ma solo come ripartire lo stesso. A riprova il DEF riporta testualmente che: « I risparmi di spesa derivanti dall’attuazione di misure di revisione dello strumento militare, (...) potranno esser indirizzati al riequilibrio dei settori di spesa del Ministero della difesa. »; b) non sono toccati gli investimenti del settore aeronautico: in tal senso la vicenda legata all’acquisto di 90 JSF F35 appare emblematica dello spreco di risorse economiche non più sostenibile; ad oggi, il progetto ha già subito parecchi ritardi e
enormi aumenti di costi, stimati in oltre il 50 per cento – il singolo esemplare, infatti, nel 2001 aveva il prezzo previsto di 70 milioni di dollari circa, ora è passato a costare circa 120 milioni e probabilmente
ne costerà molti di più, intorno ai 140 milioni – ; al momento, dunque, la spesa  già stanziata oscilla tra i 13 e i 15 miliardi. Le citate riduzioni previste per gli organici, civili e militari, oltre a non esser numericamente sufficienti, sono inutilmente spalmate nel tempo – sei anni per i generali e 10 anni per i colonnelli –, finendo con l’affievolire i già scarsi obiettivi prefissati. Al fine di « conseguire una contrazione strutturale complessiva non inferiore al 30 per cento », occorre ripensare all’assegnazione degli immobili anche ad altre funzioni di pubblica amministrazione. Spesso infatti si tratta di immobili che risiedono in luoghi strategici nelle città che potrebbero essere utilizzati da altre amministrazioni pubbliche per uffici e altre funzioni sempre e comunque di  pubblico interesse.È ormai improcrastinabile l’adozione di una norma quadro in materia di missioni internazionali di pace, grazie alla quale si potranno indicare i limiti d’azione delle stesse, oltre che evitare di ricorrere alla ormai insostenibile decretazione d’urgenza a carattere semestrale; in ultima istanza, come segnale da parte delle forze armate, verso i cittadini in una situazione di crisi dell’economia, è necessario ripensare alle spese effettuate per parate militari che dovrebbero concentrarsi nella giornata commemorativa delle stesse forze. Occorre, più in generale, condividere una visione realistica della politica, applicando,
anche a questo settore della spesa pubblica, gli stessi criteri che si pretende di imporre a tutti gli altri ambiti essenziali dello Stato come la salute e l’istruzione. A tal fine si auspica che il Governo adotti politiche volte a:
a) destinare parte dei risparmi effettuati con la riforma dello strumento militare al miglioramento della gestione corrente della formazione del personale e della gestione dei mezzi, a fronte di una riduzione di nuovi investimenti in sistemi d’arma; b) valutare l’assegnazione delle strutture militari in dismissione, localizzate in
luoghi strategici delle città, per nuove funzioni che consentano per le altre amministrazioni pubbliche risparmi in contratti di locazione; c) abbandonare, in via definitiva, il programma per la produzione e l’acquisto
dei previsti cacciabombardieri Joint Strike Fighter (F35) parallelamente ad una riconversione delle industrie che operano nella produzione degli stessi; d) rivalutare la necessità di ogni singola missione militare all’estero non solo dal punto di vista economico ma anche e soprattutto per rispettare il dettato dell’articolo 11 della Costituzione; e) ripensare alle modalità di svolgimento di parate militari, anche in occasione di festeggiamenti nazionali, nonché ai programmi volti all’avvicinamento deigiovani alle Forze armate – cosiddetta Naja breve – al fine di ridurre i costi delle stesse e generare un risparmio immediato; f) finanziare interventi civili di pace,
anche consentendo ai tanti ragazzi e ragazze interessanti di poter svolgere il servizio civile. Per ciò che attiene il settore fiscale, si rileva nel DEF che l’azione di controllo basata sugli « studi di settore » ha dimostrato i suoi limiti poiché non tiene conto della reale situazione economica dei soggetti interessati. Non è possibile misurare l’effettiva redditività e dunque la conseguente tassazione utilizzando criteri oggettivi che non tengano conto della reale situazione economica dei contribuenti. È altresì un’urgenza, anche sociale, rivedere la stessa struttura centralizzata della riscossione demandata alla gestione di Equitalia: occorre accelerare il ritorno
ad un sistema di riscossione territoriale in cui, anche grazie alla conoscenza del territorio e delle singole specificità ed in un quadro di reale federalismo fiscale, si responsabilizza la copertura dei costi da
parte degli enti territoriali che avranno cura di intervenire con maggiore equità. Nel contempo, appare sempre più evidente la necessità di ripristinare una normativa stringente nel campo del « falso in bilancio », non solo come fonte di potenziale sottrazione di reddito all’imposizione fiscale, ma anche quale serbatoio di fondi da destinare a dinamiche corruttive. Inoltre, la previsione di una deroga al limite massimo dei pagamenti in contanti – a 1.000 euro – per beni e servizi connessi con il « turismo » a beneficio esclusivo di non italiani e non europei, rappresenta un’anomalia che potrebbe favorire ulteriormente il riciclaggio di denaro da parte
delle organizzazioni criminali. L’innalzamento del limite per l’iscrizione a ruolo di tributi non pagati – dai
16 a 30 euro – è poco significativa: è opportuno un limite che abbia come riferimento la soglia di povertà per evitare situazioni paradossali con spese di recupero maggiori del credito stesso, così come è giusto ed equo escludere l’esproprio e la pignorabilità dell’abitazione principale. Per quanto riguarda i soggetti che
hanno beneficiato della norma del rientro dei capitali illecitamente portati all’estero– cosiddetto scudo fiscale –, va previstanei loro confronti una tassazione aggiuntiva che colpisca la ricchezza familiare. A tale proposito occorre rendere pubblico gli elenchi di coloro che ne hanno usufruito. L’attuazione del redditometro, infine,
rischia di creare un paradosso che penalizza il contribuente onesto e il risparmiatore e lascia indisturbato l’evasore totale: lanciare il messaggio che « chi spende è un probabile evasore » rischia di spaventare chi ha sempre pagato e non l’evasore di professione, comprimendo ulteriormente la spesa. L’onere di dimostrazione della possibile evasione deve essere sempre a carico di chi deve verificare. L’inversione
di tale onere è iniqua e contraria ai princìpi costituzionali perché, così come va considerato non colpevole il cittadino a cui viene imputata la violazione della legge penale, non da meno deve sussistere la presunzione di innocenza per il cittadino contribuente. Ciò passa anche dalla pien ed effettiva applicazione dello Statuto del
contribuente e dalla riforma del processo tributario che deve essere improntato agli stessi princìpi previsti per la giustizia civile. Riforma di civiltà che, finalmente, pone sullo stesso piano il cittadino contribuente e lo Stato. Al fine della semplificazione, ma anche nello sforzo di diminuire fenomeni di evasione, appare indispensabile trovare ulteriori incentivi per favorire l’utilizzo della fattura elettronica, documento informatico il cui contenuto è nel tempo immutabile e non alterabile grazie alla firma digitale. Per un miglior contrasto dell’evasione,
inoltre, va incrementata la collaborazione, ancora insufficiente, con i comuni, accompagnando alle misure premiali già inserite nell’ordinamento una serie di sanzioni. Nell’ottica di favorire una visione di maggior equità e trasparenza delle istituzioni e ridare fiducia nelle stesse, sarebbe opportuno istituire un nuovo strumento chiamato « politometro » finalizzato a garantire la pubblicità della situazione reddituale e patrimoniale non solo dei componenti del Parlamento, ma di ogni membro di assemblea elettiva o esecutiva degli enti di qualsiasi ordine territoriale. Questo indice, oltre a scoraggiare fenomeni di evasione, si dimostrerebbe anche uno strumento utile per combattere la corruzione, il peculato e ogni abuso degli incarichi pubblici. Altro strumento utile per ristabilire la fiducia fra fisco e contribuente è l’accertamento con adesione, che andrebbe allargato nel suo uso e campo di azione. Appare opportuno, tuttavia, per ragioni di equità, ridurre lo sconto sulla sanzione nel caso in cui l’importo contestato fosse superiore ai 5 milioni di euro. Risulta, infatti, evidente e necessario introdurre un principio di proporzionalità capace di punire con maggiore severità una violazione di dimensioni consistenti. Per quanto riguarda la tassazione sugli immobili, l’IMU, a causa di una maggiore base imponibile, ha comportato spese maggiori per i contribuenti rispetto all’ICI. Inoltre ci sono problemi di scarsa proporzionalità rilevata anche in sede di Unione europea. Per tali considerazioni, si considera assolutamente necessaria l’abolizione dell’IMU sulla prima casa e da rivedere quella sugli immobili strumentali. Prevedere, infine, l’aumento delle imposte di bollo su estratti conto e libretti di risparmio, in una fase in cui si sta praticamente costringendo le persone ad avere un conto corrente, è vessatorio e colpisce ancora le fasce deboli. Si deve puntare ad una eliminazione di tali bolli e colpire maggiormente le rendite finanziarie – derivanti da attività di mera speculazione – aumentando le aliquote della
Tobin Tax prevista e coordinandone l’applicazione a livello internazionale al fine di renderla effettiva. Il complesso degli intermediari finanziari dovrà essere funzionale ad un armonico sviluppo dell’economia e della società. Esso dovrà essere strettamente vigilato affinché non crei rischi per la società. Pertanto sarebbe opportuno introdurre una responsabilità degli istituti finanziari sui prodotti proposti, con compartecipazione alle perdite. La legislazione bancaria dovrebbe seguire il modello del Glass Steagal Act, pur rispettando le peculiarità del mercato bancario italiano, con una totale separazione tra banche d’affari e banche commerciali ordinarie, vietando altresì gli incroci azionari tra sistema bancario e sistema industriale. Di conseguenza è necessario approntare regimi fiscali e sistemi di vigilanza e controllo che operino in maniera differenziata, distinguendo gli operatori che investono nell’economia reale locale piuttosto che nei mercati finanziari speculativi. All’interno di tale contesto va altresì rivista l’applicazione del criterio di proporzionalità
sulla base delle differenti strutture organizzative, ubicazioni territoriali ed attività prevalenti dei diversi intermediari finanziari. È necessario avviare una lotta a livello europeo e mondiale contro i paradisi fiscali introducendo l’obbligo di rendicontazione Paese per Paese – Country by Country reporting – dei dati contabili e fiscali delle imprese multinazionali e non solo.Sulle accise bisogna evitare impegni a coprire eventi diversi tra loro e distanti nel tempo, al fine di procedere ad una sua gestione più oculata
.Per quanto riguarda la TARES, si conferma quanto già esposto nella mozione n. 1-00015 presentata dal M5S al
Senato, vale a dire che si tratta di un’imposta concepita nell’ottobre del 2011, a copertura di servizi indivisibili erogati dal comune, quando ancora era previgente l’esenzione dell’IMU sull’abitazione principale. La sua struttura impositiva produce l’assurdità di far pagare due volte alle famiglie residenti e alle imprese gli stessi servizi indivisibili. La tipologia di calcolo della tariffa, oltre a costituire un ulteriore e generale incremento del carico fiscale in capo ai contribuenti, comporterà senz’altro un aumento della tassazione per le attività commerciali, industriali ed artigianali, incrinando, ancor di più, il rapporto di
fiducia fra istituzioni e contribuenti ed introducendo, in pratica, un’ulteriore patrimoniale mascherata e non rispettosa dell’articolo 53 della Costituzione. La strada intrapresa fa venire meno il giusto obiettivo, richiesto da diverse direttive europee, di far pagare agli utenti esattamente il servizio usufruito e nel modo più preciso possibile per incamminarci, appunto, attraverso un’opera di educazione del cittadino contribuente verso la
società del riciclo. Il M5S ribadisce che, per favorire la fuoriuscita dalla situazione emergenziale nel settore della gestione e smaltimento dei rifiuti, occorre puntare innanzitutto alla riduzione della produzione ed al superamento della politica della loro « valorizzazione energetica », ovvero incenerimento, per puntare
decisamente verso la valorizzazione del materiale, nell’ottica in cui il « rifiuto » è una risorsa piuttosto che un costo. Si darebbe così risposta ai numerosi ed insistenti richiami della Unione europea consentendo alla nazione di incamminarsi verso « una società a rifiuti zero ». Le politiche fiscali su base tariffaria puntuale rappresentano il modo universalmente più efficace e riconosciuto per rendere economicamente competitivo il
riuso ed il riciclo dei rifiuti rispetto alle operazioni di smaltimento ed indirizzano le scelte eco-sostenibili nei consumi da parte dei cittadini e di produzione da parte delle imprese; l’impianto della TARES, invece, è in controtendenza rispetto a tali propositi. L’aumento di un altro punto dell’IVA, contabilizzato anche nel DEF, non può che comportare un’ulteriore compressione dei consumi. Inoltre, i passati aumenti hanno colpito prestazioni di assistenza e sicurezza sociale rese da cooperative e loro consorzi, invece di gravare su beni di lusso per una logica solidaristica. Per ciò che riguarda il mondo delle partite IVA, la volontà del M5S è che tale imposta sia pagata in modo strutturale solo ad incasso avvenuto. Inoltre, dal 1odicembre 2012 è
applicata l’IVA per cassa a tutte le fatture emesse e ricevute con volume d’affari fino a 2 milioni di euro: questo limite di fatturato è considerato troppo basso e, dunque, andrebbe aumentato almeno a 5 milioni di euro. Questa misura non produrrà cambiamenti sui conti dello Stato, ma darà liquidità alle PMI con evidenti ricadute benefiche sull’economia aziendale. Infine, va gradualmente abolita l’IRAP, con l’intento di eliminarla totalmente entro il dicembre 2014, in quanto rappresentativa di una tassa iniqua che grava sulle aziende, anche se in perdita, e che disincentiva l’occupazione e gli investimenti di impresa. L’IRAP, come riportato in uno studio dell’Istituto Bruno Leoni, può essere coperta finanziariamente rapportando i nostri costi della politica a quelli delle nazioni europee. Per ciò che riguarda il mondo dell’artigianato, così come anche evidenziato dalle associazioni di categoria, si è rilevata una scarsa attenzione all’interno del DEF. Nel 2012, la crisi ha colpito in maniera particolare questo settore facendo registrare un tasso di chiusura pari all’8,4 per
cento. Il mondo dell’artigianato comprende molti settori del made in Italy fondamentali per il tessuto economico produttivo italiano, tra cui mobilifici, oreficeria, meccanica, produzione di ceramiche e piastrelle. Tra le azioni da intraprendere per tutelare tale settore, bisogna prevedere: a) misure di defiscalizzazione a favore dei giovani che intendano aprire un’attività artigianale soprattutto nei piccoli centri abitati;
b) iniziative finalizzate alla lotta reale contro lo svolgimento dell’attività abusiva che sta divorando le imprese artigiane che operano nella legalità; c) un’azione che faciliti l’accesso al credito ordinario e che aumenti quello
agevolato. Nel campo delle politiche del lavoro si segnala che, in un’ottica di cambiamento che riguardi la qualità dell’ambiente, il consumo delle risorse e il cambiamento climatico, la ricerca e lo sviluppo giocano
un ruolo determinante. In questo contesto, per favorire tali interventi, è necessario, attraverso riqualificazioni urbanistiche, avviare progetti di edilizia sociale che, come rilevato da recenti studi della Confapri, potrebbero « liberare » oltre 100 miliardi di euro di disponibilità di credito da parte delle banche. Le passate riforme del lavoro e della previdenza hanno negli anni portato all’impoverimento e alla precarietà diffusa, alla creazione di nuove categorie di diversamente penalizzati (come esodati, salvaguardati, esuberati) e all’ampliamento della platea dei non tutelati. La coesione sociale è messa a rischio da questo modo discriminante di riformare il mercato del lavoro. Ai sensi della raccomandazione del Consiglio n. 92/441 CEE del 24 giugno 1992: « ogni lavoratore della Comunità europea ha diritto ad una protezione sociale adeguata e deve beneficiare, a prescindere dal regime e dalla dimensione dell’impresa in cui lavora, di prestazioni di sicurezza sociale ad un livello sufficiente. Le persone escluse dal mercato del lavoro, o perché non hanno potuto accedervi o perché non hanno potuto reinserirsi, e che sono prive di mezzi di sostentamento devono poter beneficiare di prestazioni e di risorse sufficienti adeguate alla loro situazione personale. (...) il Parlamento europeo, nella sua risoluzione concernente la lotta contro la povertà nella Comunità europea, ha auspicato l’introduzione in
tutti gli Stati membri di un reddito minimo garantito, inteso quale fattore d’inserimento nella società dei cittadini più poveri ». L’Italia deve, quindi, adeguarsi urgentemente alla citata raccomandazione del Consiglio anche per porre fine ai drammi dei suicidi in continuo aumento, causati dal lavoro o dalla mancanza di
lavoro. Nell’ambito di una riforma generale del sistema di welfare, è necessario definire un piano per salvaguardare i non tutelati attraverso l’istituzione di un reddito di cittadinanza che garantisca dignità
ed esistenza. È, inoltre, necessaria una riforma della legge 28 giugno 2012, n. 92, la cosiddetta « riforma Fornero », prevedendo, in particolare, l’abrogazione delle norme previdenziali come punto di partenza per un riordino dell’intero ambito, al fine di garantire il diritto alla pensione a tutti i lavoratori in un età dignitosa. Tra i provvedimenti da attuare immediatamente è necessario prevedere l’inserimento di un tetto massimo alle pensioni d’oro e la limitazione al loro cumulo. Per questo percorso è doveroso partire da alcuni punti:
a) una seria e reale riforma del lavoro che, come previsto dalle direttive europee, contempli, quale prima tipologia di contratto, quella a tempo indeterminato e, solo per esigenze organizzative, quella a tempo determinato; b) l’abrogazione della legge Biagi rivedendo i contratti atipici, oggi forma di elusione del sistema di tutela previsto dalla normativa sul rapporto di lavoro; c) considerare l’abbassamento dell’età pensionabile anche in riferimento ai lavori usuranti dal punto di vista psicofisico; d) nell’ambito della riforma dei centri
per l’impiego, valutare l’eliminazione delle agenzie interinali; e) migliorare le condizioni di sicurezza nei luoghi di lavoro incentivando gli investimenti ed intensificando i controlli e le sanzioni; f) ridistribuire il carico di lavoro sulle risorse umane permettendo così la riduzione delle ore impiegate alle mansioni lavorative e restituendo il bisogno primario dell’essere umano: il tempo. Tempo che in parte potrebbe essere indirizzato verso un percorso di recupero del senso di comunità attraverso impegni nel sociale, laboratori artigianali di scambio intergenerazionale tra chi è in uscita dal mondo lavoro e chi ci deve entrare, in modo tale che la ricchezza del sapere e del saper fare non venga persa; g) le donne sono una grande risorsa per il Paese, per questo bisogna favorire il loro inserimento e mantenimento nel mondo del lavoro. Per fare questo proponiamo di incentivare le aziende con detassazioni fino al compimento del sesto
anno del bambino. Scarsa è, all’interno del DEF, l’attenzione rivolta all’assistenza delle persone diversamente abili e all’abbattimento delle barriere architettoniche. Il M5S chiede l’istituzione del care giver familiare, come un livello essenziale delle prestazioni sociali (LEPS) garantito dallo Stato. Tale figura deve essere intesa come un genitore, un figlio o in generale un parente che si prenda cura del disabile nelle sua attività quotidiane. Il M5S chiede, inoltre, che siano adeguati i benefici economici al livello degli altri Paesi europei. Per quanto riguarda la « tutela delle donne », si deve ulteriormente salvaguardarne non solo l’immagine nella pubblicità, unico punto proposto dal Governo, ma anche la sicurezza per fermare l’aumento di vittime delle violenze fisiche e psicologiche che si registrano ogni anno. Quindi chiediamo non solo di inasprire le pene di tali reati ma anche di tenere in considerazione, con forme preventive di tutela più adeguate, le denunce delle vittime di stalking e di abusi in senso lato. La scarsa attenzione che il DEF riserva al settore istruzione, ricerca e cultura, è evidenziata dalla mancanza di strategie mirate a una valorizzazione del nostro ingente patrimonio artistico-culturale, che solo il nostro Paese possiede. La strada
maestra per ridare slancio ad un’economia in crisi, ad un modello di sviluppo sostenibile, ad una società che metta al centro il benessere dei cittadini e la loro qualità di vita passa non solo attraverso un ripristino delle risorse economiche tagliate in questi anni al mondo della scuola italiana, dell’università, della ricerca e della cultura, ma anche e soprattutto attraverso una programmazione economica che preveda ingenti investimenti pluriennali ed una valorizzazione complessiva del sistema. Lo stesso ex Presidente del Consiglio dei ministri nella premessa al DEF scrive che « formazione, ricerca e innovazione sono aree di debolezza su cui concentrare gli sforzi ». I modelli virtuosi e le buone pratiche in Italia ed in Europa devono essere il motore per ri-progettare un sistema scolastico ed universitario con il coinvolgimento sistematico dei soggetti
del mondo della scuola, studenti, docenti e genitori e la partecipazione dei cittadini del territorio, che va fortemente stimolata. Nell’analisi del DEF si rilevano molteplici criticità. Mancano contenuti volti a
risolvere le reali problematiche della scuola pubblica e di come si vuole operare per raggiungere gli obiettivi a medio e a lungo termine (Europa 2020) anche alla luce dei pesanti tagli effettuati negli ultimi anni. Né ci sono riferimenti, diretti o indiretti, al finanziamento della scuola privata, dalla quale invece vanno spostate risorse a favore di quella pubblica. Nel paragrafo « Aiuto alle scuole » andrebbero specificate le modalità di individuazione delle scuole: il numero di 1076 scuole con notevoli difficoltà di bilancio, infatti, è ritenuto stimato al ribasso. Si ritiene opportuno, quindi, al fine di una più attenta lettura dei dati, tracciare le risorse erogate e da erogare per rilevare la consistenza di tale fondo necessario per coprire l’intera situazione debitoria. Crediamo, quindi, che sia di primaria importanza non solo interrompere il piano di tagli previsto dal
Governo fino al 2015 del fondo per il miglioramento dell’offerta formativa (MOF), ma prevederne il ripristino ai livelli di due anni fa. In merito al Sistema nazionale di valutazione, riteniamo che il disegno previsto nel DEF debba essere quantomeno rivisto e ridiscusso con il nuovo Governo, attraverso un percorso di confronto con i vari attori della scuola e alla luce delle innumerevoli criticità rilevate da più voci. Va ripensato il modello « aziendalista » che si vorrebbe applicare alla valutazione degli istituti scolastici e il ruolo centrale che le prove dell’INVALSI avrebbero in questi processi. È, inoltre, opportuna una sospensione di qualsiasi operatività del SNV (il cui Regolamento è stato approvato da un Governo dimissionario), alla luce delle sempre più esigue risorse a disposizione delle istituzioni scolastiche: non è pensabile chiedere alle scuole di autovalutarsi in periodi in cui non è possibile neanche garantire il regolare svolgimento delle basilari attività didattiche. Si condivide pienamente la preoccupazione del Governo di raggiungere gli obiettivi di Europa 2020 aderendo alla strategia ivi delineata, cionondimeno si evidenzia come in tema di dispersione scolastica l’Italia presenti forti difficoltà a collocarsi al di sotto del 10 per cento
previsto per tutti gli Stati membri, posizionandosi alla quart’ultima posizione nel ranking UE ed evidenziando una distanza del 7,6 per cento, percentuale che aumenta in maniera preoccupante nel Mezzogiorno
ed in particolare nelle Isole, toccando il 24,8 per cento in Sicilia ed il 25,5 per cento in Sardegna. Pertanto, è urgente un più incisivo intervento del Governo investendo maggiori e più adeguate risorse al raggiungimento di tale scopo, ad esempio, usando le restanti risorse già previste dai Fondi strutturali (che ammontano al 46
per cento di 4,4 miliardi). Dato che dal DEF emerge che giustamente maggiori investimenti sono stati previsti proprio per il Mezzogiorno con l’attuazione di PON e POR (le cui risorse, però, devono arrivare ai fruitori dei programmi e non surrettiziamente andare ad incrementare i redditi dei programmatori), si auspica un investimento più strutturale e meno saltuario legato alla logica di progetti a termine. È necessario sottolineare la mancata trattazione del problema del precariato scolastico ed universitario, seppur fortemente
sentito sia socialmente che professionalmente. Infatti, si ritiene assolutamente prioritario creare stabilità con percorsi di reclutamento chiari nel mondo dell’istruzione e della ricerca al fine di assicurare gli opportuni livelli di qualità dell’offerta formativa e raggiungere così gli standard europei. Si osserva, inoltre, che, nel breve accenno che si fa alle misure adottate per la riqualificazione e l’efficientamento energetico degli edifici scolastici pubblici, nulla riguarda la messa in sicurezza delle infrastrutture a rischio sismico ed idrogeologico. A tal proposito, è urgente una verifica da parte degli enti competenti in materia di monitoraggio e certificazione.Inoltre, l’ammontare finora destinato alla suddetta voce risulta essere fortemente inadeguato all’effettivo fabbisogno. Il programma, che riguarda 989 edifici scolastici per un costo stimato complessivo di
111.800.000 euro, è articolato in modo squilibrato per Isole e Sud (decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti del 3 ottobre 2012). Bisogna rivedere le modalità di assegnazione dei fondi ai vari istituti, non improntandole sulla premialità nei confronti degli enti locali più efficienti e tempestivi ma sull’effettiva gravità delle condizioni delle strutture. Seppure accogliamo positivamente l’intenzione espressa nel DEF di adottare
delle misure per l’innovazione dell’architettura scolastica, si ritiene che tali provvedimenti siano adottati in un contesto non condivisibile di riduzione degli investimenti, caratterizzato dai continui tagli inflitti al comparto Istruzione di questi anni. Inoltre, non si condivide la modalità di gestione del Fondo immobiliare, ritenendo più opportuna, in termini di efficacia ed efficienza, una maggiore centralità degli enti locali in luogo di una società di gestione la cui determinazione sia lasciata agli enti stessi. Per perseguire efficacemente gli obiettivi Strategia di Europa 2020, ovvero l’incidenza della popolazione laureata tra i 30 – 34 anni pari al 40 per cento, è necessario potenziare e modificare l’impianto del diritto allo studio, dell’orientamento e favorire l’accesso agli studi per i meno abbienti. Contemporaneamente va potenziato il sistema di accreditamento dei corsi di laurea, valorizzando quelli esistenti. Il Fondo integrativo per il diritto allo studio deve essere stabilizzato, rendendolo sufficiente a coprire la totalità degli aventi diritto alle borse di studio. Anche i meccanismi di definizione degli idonei, modificato dall’ultimo Governo, sono più restrittivi rispetto al passato, non improntati all’equità e, quindi, vanno rivisti. È necessario prevedere (o reintrodurre) un limite
alla contribuzione studentesca universitaria per favorire l’accesso all’istruzione e all’iscrizione ai corsi di laurea con profilo scientifico. È cruciale integrare i fondi che favoriscono la mobilità interna per garantire il diritto allo studio anche ai meno abbienti. La nuova normativa ha introdotto i LEP (livelli essenziali di prestazioni), che vanno potenziati soprattutto con risorse sufficienti. Il tasso di abbandono è causato principalmente dalla impossibilità di accesso allo studio dei meno abbienti, da un sistema universitario che non è organizzato a garantire la frequenza ai corsi degli studenti lavoratori e da un sistema di collaborazione e di orientamento tra scuola e università ancora carente nella valorizzazione dei corsi di studio sia scientifici che umanistici e che non premia il sacrificio ed il merito. Lo strumento operativo a cui è affidata la gestione del Fondo, che dovrebbe operare sia in base ad esigenze economiche che di merito, non deve essere una fondazione con capitale misto pubblico privato, ma deve essere un’agenzia pubblica. Il sistema di valutazione degli atenei e dei corsi di laurea, introdotto dalla nuova normativa, che ha fissato i parametri minimi di docenza, va rivisto profondamente in quanto difficilmente applicabile se associato al blocco dell’arruolamento dei docenti. Si rischia, a regime, di provocare la chiusura di corsi di laurea storici e con un alto numero di iscritti in quanto molti atenei non riuscirebbero a garantire i parametri minimi di docenza a regime. La volontà del passato Governo di dare attuazione ai meccanismi di valutazione è compromessa in assenza dell’effettiva operatività dell’ANVUR. Si auspica che i decreti attuativi non spingano ad una competizione tra atenei provocando una netta disomogeneità tra di essi, ma adottino sistemi di valutazione volti ad individuare le criticità maggiori, per programmare un piano di investimenti finalizzato al raggiungimento di standard minimi di qualità. Contemporaneamente vanno valorizzate le eccellenze sia nell’ambito della ricerca che della didattica, carpendone i modelli vincenti per « esportarli » in altre realtà universitarie nazionali. È oltremodo curioso constatare come, fra gli interventi per stimolare la ricerca e lo sviluppo, si citino nel DEF i 70 milioni di euro destinati ai progetti di ricerca di rilevante interesse nazionale (bando PRIN) e quelli per i giovani ricercatori (bando FIRB), quando gli stessi bandi sono stati oggetto di tagli indiscriminati. Il bando PRIN 2009 prevedeva fondi per circa 105 milioni di euro, che scendevano a 87
milioni – annualizzati – nel bando accorpato 2010-11. Il nuovo bando di fine dicembre contiene risorse per circa 38 milioni, equivalente al 36 per cento del fondo 2009, già in calo rispetto agli anni precedenti. In termini reali, siamo di fronte ad un taglio di oltre il 70 per cento rispetto a 6-7 anni fa. Relativamente al FIRB le cose non mutano. Si passa dai 50 milioni del 2009 ai 29 attuali. A questo si aggiungono i tagli sulle assegnazioni ordinarie di università ed enti di ricerca, anche questi opportunamente non citati nel DEF (con una diminuzione del 5 per cento ogni nuovo anno) e gli oltremodo penalizzanti limiti sul ricambio del personale in quiescenza con nuovo personale (turn-over). È quindi utile ripensare ad un incremento dei fondi di tali bandi. La cultura e il nostro patrimonio artistico-culturale e ambientale è un traino per lo sviluppo sostenibile ed immateriale dell’Italia che, grazie ad un alleanza strategica con le nuove tecnologie, con la rete e con l’informatica, può aprire opportunità di slancio economico mai esplorate. I consumi vanno
direzionati e incentivati per una massiccia fruizione di prodotti e servizi culturali. È da programmare un piano d’investimenti pluriennale per i beni culturali, non limitandosi ad interventi straordinari dettati solo dall’urgenza e dalla contingenza, ma attraverso una seria programmazione con la riduzione delle aliquote IVA per il mercato della musica, agevolazioni fiscali per il mercato culturale e i suoi attori e che veda il coinvolgimento e la responsabilizzazione delle regioni. Vanno introdotte nuove regolamentazioni sulle licenze d’autore, che diano maggiori opportunità di lavoro e maggior prodotti e servizi culturali, prendendo atto che la fruizione dei prodotti d’intrattenimento è ormai cambiata nelle abitudini dei cittadini e non dimenticando l’importanza di un’efficace lotta alla pirateria. È necessario introdurre meccanismi virtuosi di distribuzione dei finanziamenti nel settore dello spettacolo, basati su principi di trasparenza e merito per fermare lo sperpero delle già limitate risorse destinate al settore. A questo proposito si rileva come nel DEF non si faccia alcun cenno al FUS. È, inoltre, auspicabile garantire l’accesso e la fruizione delle risorse culturali del Paese, potenziando la struttura ricettiva dei musei, potenziando gli impianti tecnologici, con servizi differenziati ai visitatori, con evidente impatto positivo sull’industria del turismo e sull’occupazione. Sono da introdurre incentivi economici (come il credito d’imposta, a mero titolo d’esempio) per tutte le realtà artistiche e culturali nel senso più ampio (incluse quelle locali più piccole), al fine di garantirne la sopravvivenza. Infine, in riferimento alle azioni volte a favorire l’apporto di capitali privati attraverso l’incentivazione di erogazioni, donazioni, forme di sponsorizzazione e defiscalizzazione d’investimenti privati, si valuta positivamente la nuova disciplina che
prevede che la sponsorizzazione possa essere di puro finanziamento o tecnica o un insieme di entrambe, ma allo stesso tempo s’invita a prendere in esame l’opportunità di definire una strategia per lo sviluppo dei marchi culturali italiani nel mondo. In ultima analisi si auspica una più responsabile azione volta a promuovere l’investimento nell’istruzione e nella formazione, così come indicato nella strategia di Lisbona, e nei beni culturali, in quanto in un’epoca di flessione economica non solo europea ma mondiale è essenziale che ci si avvalga delle potenzialità di ciascun individuo e che si continui a promuovere un investimento più importante, più efficace e mirato all’istruzione e alla formazione di qualità (« Istruzione e formazione 2020 »), nonché alla valorizzazione del patrimonio culturale del nostro Paese. In tal senso, è imprescindibile garantire
l’accesso e la fruizione delle risorse culturali del Paese, potenziando la struttura ricettiva dei musei e gli impianti tecnologici, con servizi differenziati ai visitatori. Sono da introdurre incentivi economici (come il credito d’imposta, a mero titolo d’esempio) per le piccole realtà artistiche, al fine di garantirne la sopravvivenza. Nel settore delle politiche ambientali il DEF fa riferimento alla green economy,segnalando soltanto la presenza di finanziamenti agevolati in materia (FondoKyoto, istituito dal comma 1110 dell’articolo 1 della legge 27 dicembre 2006,n. 296, che ammonta a 470 milioni di euro). Viene affermata la necessità di puntare sul potenziamento dell’impiantistica in materia di reti idriche, smart grids e rifiuti, senza specificare nulla sulle scelte strategiche in materia e, soprattutto, senza riportare le azioni finalizzate alla riduzione dei rifiuti. Per capire invece l’importanza di tale ambito, basti ricordare un recente studio economico sulle fonti rinnovabili secondo il quale il valore di tutto l’indotto impatta sul prodotto interno lordo italiano per quasi 10 punti percentuali, con cifre intorno ai 40 miliardi di euro potenziali, tra incassi in favore del fisco, tassazione indiretta ed incremento dei consumi. Inoltre, se questo non bastasse, la green economy produce, tra tutte le tipologie di attività, il maggior numero di dipendenti a tempo indeterminato, impiegando per la maggior parte giovani di età inferiore a 35 anni. I dati dell’INPS poi affermano che, proprio in questo settore, il ricorso alla cassa integrazione o l’accesso a prestazioni per il sostegno del reddito, fa segnare percentuali che rasentano lo zero. Nessuno spazio è stato infine dato per quel che concerne l’edilizia residenziale privata ed il consumo del suolo che è la causa principale del rischio idrogeologico. A tal proposito, bisogna sostenere una politica basata su un rigoroso e significativo aumento degli oneri di fabbricazione ed urbanizzazione per le nuove costruzioni ed una significativa agevolazione per chi opera nel recupero, ri-funzionalizzazione e valorizzazione dell’edificato esistente. Per ciò che attiene alla lotta ai cambiamenti climatici, non sempre le misure adottate sembrano coerenti con gli impegni assunti a livello internazionale. Ad esempio, le detrazioni fiscali del 55 per cento per gli interventi di riqualificazione energetica degli edifici sono state prorogate solo fino a giugno 2013, mentre da luglio ci sarà una detrazione unica del 36 per cento per tutte le tipologie di intervento. In tema di mobilità sostenibile, per il settore delle merci, le proposte nel DEF somigliano più ad un buon proposito che ad una convinta volontà di superare lo squilibrio tra trasporto su gomma e quello su rotaia. Apprezzabile, invece, appare lo stanziamento per migliorare le reti di ricarica dei veicoli elettrici, pari a 420 milioni di euro. Si evidenzia, inoltre, la necessità di dotare il Paese di un piano energetico di lungo periodo che abbia come obiettivo l’ottenimento di una forma di autonomia energetica legata prioritariamente al risparmio e all’utilizzo di fonti di energia rinnovabili. Strumenti utili per il raggiungimento dello scopo potrebbero risultare, tra gli altri: a) l’introduzione dell’obbligo di diagnosi energetica al fine di facilitare gli interventi di riqualificazione; b) l’agevolazione dell’accesso al mercato delle società « Esco » che, unendo investimenti e lavori, permettono la realizzazione di interventi di riqualificazione senza gravare sull’utente finale sia esso pubblico che privato;
c) l’incentivazione e la costruzione di case passive e la rottamazione di edifici privi di rilevanza storica ed architettonica sostituendoli con costruzioni corrispondenti a norme antisismiche, antincendio, energetiche ed acustiche; d) l’attuazione di politiche legate alla sostituzione di tutti gli apparati elettrici vetusti a favore di prodotti moderni, efficienti e di minore impatto energetico; e) l’incentivazione della co-generazione diffusa di energia elettrica e calore, a partire dagli edifici più energivori; f) l’incentivazione della micro-cogenerazione a livello domestico; g) l’incentivazione dell’utilizzo di sistemi di generazione privi di processo di combustione in sinergia con l’utilizzo delle fonti rinnovabili di energia (fotovoltaico, geotermico, eolico, idroelettrico), soprattutto di taglia mini e micro; h) l’eliminazione retroattiva degli incentivi per la combustione dei rifiuti, anche nella loro componente organica; i) l’efficientamento della rete energetica di distribuzione sia per ridurre la dissipazione nell’alta tensione che per permettere la « messa in rete » di molteplici fonti energetiche distribuite, nella previsione di un futuro in cui ogni abitazione/ vettura elettrica sarà, a seconda dei momenti, un produttore o consumatore di energia elettrica/termica. La tutela delle risorse idriche comporta che l’obbligatoria depurazione degli scarichi diventi un’azione realmente controllata e che le infrastrutture deputate a questo siano incentivate favorendo la possibilità di utilizzare nuovi e performanti impianti
di purificazione delle acque reflue di origine civile e industriale. In questo ambito, sarà impegno primario del M5S dare piena attuazione alla volontà espressa dal popolo italiano con il referendum attraverso il quale si è chiesta la ripubblicizzazione del servizio e la tutela dell’acqua quale bene primario sul quale non deve essere generato alcun tipo di profitto.L’agricoltura spesso responsabile dell’utilizzo di pesticidi ed altri prodotti chimici deve convertirsi a metodi più rispettosi delle risorse idriche e del suolo. Va premiata l’agricoltura sana e contadina, la manovalanza necessaria al suo sviluppo tradizionale, il rispetto dell’ambiente e tutte le azioni necessarie a coniugare agricoltura e salvaguardia del suolo e dell’acqua come beni universali. Nel DEF mancano le linee guida della politica agricola italiana che dovrebbero essere unicamente dettate dalla peculiarità della sua orografia e delle sue produzioni, mentre la stretta connessione con la politica agricola europea ha spesso disatteso le aspettative di rilancio del suddetto comparto. Tale settore primario, nel rispetto dell’ambiente e della salute umana, deve avere l’obiettivo non solo di fare da traino per l’economia del Paese, ma anche di migliorare la qualità della vita. La PAC era certamente un utile strumento per il rilancio dell’agricoltura nel periodo postbellico; oggi, con l’allargamento della UE ed il fenomeno della « globalizzazione », è stata palesata la sua inefficacia sia in termini di rapida risposta alla crisi dei mercati e alla volatilità dei prezzi sia in termini di aumento della competizione fra i produttori dovuto alla caduta delle barriere commerciali. È evidente che risulta necessario rivedere gli accordi con l’Unione europea tramite l’introduzione di nuovi strumenti a maggiore tutela della produzione legati alla qualità specifica del prodotto invece che alla quantità dello stesso e all’estensione dell’azienda agricola. Ciò premesso, occorre indicare a nostro avviso una decisa correzione della rotta già tracciata dal Parlamento europeo; la spesa annua complessiva per l’agricoltura e lo sviluppo rurale è di circa 55 miliardi di euro (45 per cento del bilancio della UE) e la domanda di cibo sembra essere destinata ad aumentare (le stime fatte dalla Commissione europea ci indicano un aumento del 40 per cento entro il 2050). È evidente che occorre incrementare la produzione senza intaccarne la qualità, salvaguardando i prodotti locali di specie autoctone, anche attraverso la messa al
bando di organismi geneticamente modificati (OGM) e perseguendo le buone pratiche agricole riducendo al massimo l’utilizzo di tutte quelle tecniche che prevedono il ricorso a molecole di sintesi. A tal proposito, si prevede una nuova e più stringente regolamentazione in merito all’utilizzo di fitofarmaci in agricoltura. Un sistema agricolo sostenibile volto al riciclo della materia, alla conservazione del suolo in termini di estensione e di fertilità, alla tutela del paesaggio il cui fulcro è rappresentato dall’« agricoltore custode ». Occorre rivedere l’attuale politica della grande distribuzione organizzata (GDO) per salvaguardare i piccoli produttori, con disciplinari che tengano conto di una chiara etichettatura, della filiera corta, della tracciabilità dei prodotti e della tutela del marchio made in Italy. È necessario tutelare le piccole aziende agricole relativamente ai tempi di pagamento e allo stesso tempo introdurre semplificazioni della normativa vigente per coloro che producono e vendono prevalentemente nel proprio territorio. In merito alle agro-energie, prodotte e generosamente incentivate al punto da divenire un fattore negativo in termini ambientali e di bilancio energetico complessivo, dovranno servire principalmente all’autosufficienza dell’azienda agricola.Considerando i costi complessivi del ciclo di produzione e gli impatti ambientali, economici e sanitari riteniamo che l’industria zootecnica e l’acquacoltura debbano essere oggetto di profondi cambiamenti tramite il perseguimento di una politica agricola che miri a disincentivare il sistema di allevamento intensivo mettendo alla base criteri di sostenibilità; non si può accettare che venga aiutato chi sceglie di adottare pratiche non eco e socio-sostenibili. Occorre altresì incentivare un’alimentazione consapevole attraverso la riduzione del consumo di carne, la quale determina lo spreco di immense risorse energetiche e contribuisce a consumare grandi quantità di acqua per le produzioni agricole destinate agli allevamenti intensivi. Il settore della pesca deve ispirarsi anch’esso alla sostenibilità come elemento centrale, per cui alcune misure saranno lo sfruttamento sostenibile degli stock ittici, i controlli più stringenti sul pescato, l’adeguamento della flotta e il sostegno della  pesca artigianale. Va sottolineato che qualsiasi pratica negli ambiti suddetti non può prescindere da una corretta applicazione di tutte le attività atte a ridurre la sofferenza animale. Per quanto concerne il settore della caccia, si ritiene indispensabile effettuare a monte un’indagine conoscitiva sulla fauna da tutelare e proteggere nonché su quella da tenere sotto controllo numerico, per poter valutare la modalità di risarcimento in caso di danno derivante dalla fauna selvatica. Puntiamo a risolvere la questione della caccia in deroga, per la quale l’Italia si trova coinvolta in una procedura d’infrazione della normativa europea.
Altro settore cui rivolgere attenzione è l’ippica italiana, da sempre risorsa economica e culturale per la nostra nazione. L’ippica va tutelata e non associata unicamente ad una mera attività ludica né tanto meno alla mera « scommessa ». Produce un importante indotto sia relativamente all’agricoltura che al commercio ed assicura impiego ad oltre 50.000 operatori. Per il rilancio dell’ippica è necessario puntare ad un’immediata tutela pubblica che salvaguardi il cavallo atleta ed alla costituzione di una nuova governance. L’importanza strategica per l’economia italiana della risorsa « bosco » è data dal fatto che, secondo i dati del Corpo forestale dello Stato, più di un terzo della Penisola è ricoperta « di verde », con il bosco che ricopre il 29,1 per cento della superficie. Bisogna sviluppare iniziative di collaborazione pubblico-privato finalizzate alla realizzazione di infrastrutture, impianti-pilota, laboratori sui nuovi materiali a base di legno e sulle trasformazioni innovative del legname. Oltre alle finalità produttive e tenendo conto del fatto che il vincolo idrogeologico interessa gran parte della superficie forestale del Paese (l’80,9 per cento), mentre quello naturalistico riguarda il 27,5 per cento, è necessario puntare sulla gestione multifunzionale delle aziende agro-silvo-pastorali, attraverso il sostegno all’ecoturismo, all’economia verde e alle attività culturali o di
recupero delle tradizioni locali. Relativamente alla struttura di governo del settore agricolo, al fine di garantire l’unitarietà dell’azione sull’intero territorio nazionale eliminando una ridondante stratificazione amministrativa, occorre procedere ad un riordino degli enti che fanno capo al Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali (MIPAAF), di cui si evidenzia l’imprescindibilità. È necessario introdurre strumenti di collaborazione tra il suddetto dicastero e i Ministeri della salute, dell’ambiente, della tutela del territorio e del mare e dello sviluppo economico al fine di garantire una visione ed un campo di intervento sinergici. In ultimo, occorre affrontare il tema dell’agricoltura sociale, consistente nella fornitura di servizi di assistenza a persone in condizione di disagio fisico e psichico in un contesto agricolo. L’Italia è uno dei pochi Paesi con un
sistema sanitario pubblico ad accesso universale. Due fatti però stanno minando alle basi l’universalità e l’omogeneità del Servizio sanitario nazionale: la devolution, che affida alle regioni l’assistenza sanitaria e il suo finanziamento accentuandone le differenze territoriali, e la sanità privata che sottrae risorse e talenti al pubblico. Si tende inoltre ad organizzare la sanità come un’azienda e a far prevalere gli obiettivi economici rispetto a quelli di salute e di qualità dei servizi. La spesa sanitaria è stata fortemente penalizzata con l’ultimo decreto del governo che ha previsto forti tagli per il 2012 che si protrarranno anche per il 2013 e
2014. La riorganizzazione sanitaria interessa tutti i capitoli di spesa fondamentali: spesa farmaceutica, beni e servizi, personale sanitario. A questo taglio si associa un intervento statale sui livelli essenziali di assistenza (LEA), che sono stati e andranno rivisti, e sulla riorganizzazione della professione medica e in particolare dei servizi sanitari territoriali che assumono un ruolo di maggior rilievo, in previsione di un processo di deospedalizzazione. Pertanto è urgente una riqualificazione della sanità pubblica, che non può ovviamente prescindere da una sua riorganizzazione ed efficientamento, iniziando da una revisione dei criteri di accreditamento e convenzionamento con le strutture private. È necessario garantire l’accesso alle prestazioni essenziali del Servizio sanitario nazionale universale e gratuito, introdurre ticket proporzionali al reddito per le prestazioni non essenziali, monitorare e correggere le differenze di trattamento sanitario tra regioni, che, se troppo accentuate, minano di fatto l’equità d’accesso alla sanità. Sulla professione medica è più che mai prioritaria la separazione delle carriere dei medici pubblici e privati, lasciando a questi ultimi la possibilità di operare soltanto in forma volontaria e con la possibilità di assistenza intra moenia solo oltre l’orario di servizio. Infine, il percorso di digitalizzazione della sanità, attraverso la messa in rete degli esami, e in prospettiva esenzioni e liste di attesa, va fortemente accelerato nell’ottica di un miglior coordinamento tra strutture che favorirà la gestione del paziente. Manca nel DEF qualsiasi riferimento alla doverosa istituzione di liste di classificazione per outcomes, per patologie rilevate nei singoli ospedali, con le quali monitorare la soddisfazione delle esigenze dei pazienti. Si sottolinea la necessità fondamentale di individuare una metodologia utile per consentire la selezione con metodi meritocratici dei direttori generali delle aziende sanitarie, che attualmente vengono assunti per chiamata diretta dalle giunte regionali. Inoltre bisogna: a) reinvestire immediatamente nella salute come abitudine e consapevolezza, nella prevenzione primaria, anche relazionale e mentale, fin nelle scuole primarie su input del Servizio sanitario nazionale (salute mentale: prevenzione del « bullismo », « machismo »); b) promuovere la presa in carico e domiciliazione della medicina territoriale, con équipe multidisciplinari (medico di MG, infermiere, psicologo, fisioterapista), traendone le risorse dagli infiniti sprechi delle voci ospedaliere; c) favorire la creazione di gruppi di
lavoro di dirigenti sanitari, appartenenti a diverse regioni, che si confrontino su temi quali i diversi modelli di governance delle patologie croniche (Chronic Care Model, Chronic Related Group, modello emiliano dei nuclei di cura primaria e delle case della salute) della sanità, che prevedano il reinvestimento sull’autocura e la qualità della vita dei malati cronici e neurodegenerativi, e non sugli ospedali, la cui proliferazione è usata come strumento elettorale; d) valorizzare la presa in carico domiciliare delle post-acuzie e della subacuzie prima che queste, trascurate, ritornino acuzie da trattare in ospedale. Bisogna disincentivare la prevenzione secondaria (screening e diagnosi precoce), come modello culturale unico della sanità italiana; e) passare dalle unità di cure primarie alle unità complesse di cure primarie e pubblicità della loro esistenza obbligatoria in rete, nei pronto soccorsi ospedalieri, ai 118, ai numeri verdi del ReCUP; f) monitorare di continuo e censire i
dati sull’utilizzo delle macchine ospedaliere diagnostiche ad alta ed altissima specializzazione tecnologica; g) controllare i meccanismi di selezione e di esame dei commissari e dei candidati (pubblicazione permanente online dei curricula all’atto della sottoscrizione) attraverso procedure streaming, a costo zero, dell’esame stesso; h) riassegnare l’edilizia sanitaria sottoutilizzata o inattiva a forme di comitati di cittadini con finalità esplicite di supporto alla qualità della vita di persone ad alto rischio di marginalizzazione sociale; i) vietare di istituire un nuovo ente pubblico che si occupi della salute nel sociale ma valorizzare le comunità protette ad alta assistenza (CPA), anche per i minorenni. La necessità, evidente nella congiuntura attuale, di voler coniugare rigore dei conti pubblici e crescita ripropone il tema cruciale del finanziamento delle infrastrutture. Gli investimenti, soprattutto in tale ambito (oltre che quelli in innovazione, ricerca e capitale umano), sono decisivi per la crescita e la competitività di qualsiasi sistema economico. Occorre dunque un ripensamento sulla scelta delle infrastrutture necessarie fatte sinora. Il metodo della legge obiettivo si è rivelato sin da subito fallimentare, generando tantissimi progetti, spesso di modesta qualità e troppo costosi, ma pochissime realizzazioni. La logica delle grandi opere contrasta evidentemente con la scarsità delle risorse. Le priorità vanno scelte sulla base di studi tecnico-finanziari, che invece in questi anni non sono mai stati realizzati e che, se fatti, non avrebbero consentito l’inizio dei lavori della tratta ad alta velocità Torino-Milano, perché sarebbe stata evidenziata l’inutilità dell’opera e il suo costo elevato e superiore alla media europea.
La programmazione del sistema infrastrutturale deve quindi tendere a spostare l’attenzione dalle grandi alle piccole e medie opere, partendo dal completamento del programma per la messa in sicurezza degli edifici scolastici e da quello per le piccole e medie opere nel Mezzogiorno; entrambi i programmi risultano deliberati nel 2009 ma solo in minima parte sono stati realizzati. Gli interventi nel Sud Italia appaiono ormai improcrastinabili. La durata e la gravità della crisi, infatti, hanno inciso in maggiore misura sulla parte debole del Paese, ampliando il divario strutturale che separa Nord e Sud. In termini di caduta del PIL, di posti di lavoro perduti, di disoccupazione giovanile, di istruzione, di sanità, di trasporti ed in genere di servizi e di condizioni generali di vita, le cifre negative della crisi sono per il Mezzogiorno più gravi che per il resto del Paese. Investire in piccole opere, ad alta intensità lavorativa, consente di attivare quel tessuto di piccole e medie imprese che rappresentano la vera ossatura portante della gestione del territorio. Inoltre, occorre considerare che la capacità di controllo in capo alla Pubblica amministrazione, in primis gli enti locali, sulle piccole e medie imprese è sicuramente più elevata, garantendo maggiormente il conseguimento di obiettivi certi ed attuati in tempi brevi. È altresì importante tener presente che le distorsioni connesse ai subappalti ed alle infiltrazioni malavitose sono molto ridotte nelle piccole piuttosto che nelle grandi opere. Le priorità programmatiche devono essere quelle relative: a) alla ristrutturazione e manutenzione del patrimonio infrastrutturale esistente; b) alle azioni più urgenti per la prevenzione e la mitigazione del rischio idrogeologico, quali il ripristino delle sezioni idrauliche dei fiumi e dei torrenti, individuate come fonte di rischio, partendo dalle zone più altamente urbanizzate, e gli interventi connessi al rischio frana incombente sui centri abitati; c) all’adeguamento sismico degli edifici scolastici, ed in particolare di quelli adibiti a presìdi di protezione civile in caso di crisi; d) alla riqualificazione e consolidamento del nostro sterminato patrimonio storico ed artistico (è quantomeno singolare che nel capitolo « Edilizia » del Programma delle infrastrutture strategiche (PIS) non compaia il consolidamento di attrattori culturali certamente strategici come i siti archeologici di Pompei e di Sibari). Dall’analisi dell’Allegato Infrastrutture, si evidenzia – alla tabella 1 – l’esiguità dell’importo di 360,5 milioni di euro che i provveditorati delle regioni dell’Obiettivo Convergenza (ex obiettivo 1) utilizzano per « piccole e medie opere » rispetto alle risorse stanziate per alcune « grandi opere », che non producono un incremento di competitività del sistema Paese e di cui è quantomeno dubbia, se non errata, la valutazione positiva del rapporto costi-benefici. Nelle more occorrerebbe riflettere sulla possibilità di rimodulare le risorse pubbliche già disponibili nel senso suddetto. A riguardo, è urgente bloccare definitivamente i lavori che riguardano il tunnel ferroviario della Torino-Lione (TAV), al fine di ridistribuire i 916 milioni di euro già stanziati, e gli ulteriori fondi ad essi destinati, ad opere connesse alla riduzione del rischio idrogeologico, come individuato nei piani redatti dalle varie autorità di bacino, ed alla riduzione del rischio sismico connesso agli edifici presidi di protezione civile in caso di calamità naturale, quali scuole e municipi. Per gli altri progetti, relativi alle infrastrutture che ricadono nel Programma e per i quali è previsto il ricorso a capitali e finanziamenti privati, si evidenzia che in molti casi si è in presenza di opere che si è deciso di realizzare, prescindendo dalla qualità dei progetti, dalla necessaria assenza di forti esternalità negative, dalla certezza di adeguati ritorni sugli investimenti e, soprattutto, dall’impatto ambientale e paesaggistico dell’infrastruttura stessa. In tal senso, a titolo esemplificativo, si può citare l’asse autostradale tirrenico Cecina-Civitavecchia, in cui si è scelto di optare per un progetto che avrà costi di realizzazione elevatissimi rispetto alla reale domanda di traffico e soprattutto effetti devastanti per il territorio e il paesaggio maremmano, distruggendo un modello di sviluppo economico locale al cui centro vi sono la tutela ambientale, l’agricoltura e il turismo di qualità. Il sistema dei trasporti pubblici deve essere un sistema efficiente che possa essere utilizzato da tutti, veloce, facilmente accessibile, economico e realmente alternativo al mezzo di trasporto privato. Oltre al potenziamento dei mezzi pubblici tradizionali, si deve puntare all’introduzione di sistemi di trasporto sia ad uso collettivo che individuale (car sharing) con motori elettrici alimentati da reti. Al contempo occorre favorire la diffusione di colonnine di ricarica elettriche per l’imminente mobilità ibrida ed elettrica privata. Vanno investite ingenti risorse per la realizzazione di una rete di trasporti che possa essere utilizzata dalla maggior parte della popolazione con una reale integrazione tra le varie tipologie: treni a lunga percorrenza, piste ciclabili, car e bike sharing urbano che rendano i mezzi più vicini alle necessità dell’utenza e privi di costi ulteriori. Tali risorse si possono reperire cancellando le grandi opere inutili come l’alta velocità Torino-Lione, il terzo valico, partidei due corridoi europei Lisbona-Kiev e Genova-Rotterdam, e le altre tratte alta velocità/alta capacità in progettazione o in via di realizzazione in Italia, come il ponte sullo Stretto di Messina. La direzione verso la quale muoversi ed impegnare risorse è quella ben delineata dalla Commissione europea nel Libro bianco dei trasporti. Il PNR, al fine di coordinare azioni di rilancio del turismo internazionale, fa riferimento ad un Piano strategico nazionale che ha durata quinquennale ed un monitoraggio annuale dell’implementazione. Il turismo, infatti, rappresenta per il nostro Paese un settore rilevante, con un peso significativo nell’economia nazionale, generando maggiori opportunità di lavoro rispetto ad altri settori industriali considerati prioritari. Il contributo del turismo al prodotto interno lordo dell’Italia ammonta a oltre 130 miliardi di euro (circa il 9 per cento della produzione nazionale) e gli impiegati di questo settore sono circa 2,2 milioni (un lavoratore su dieci). A fronte della profonda crisi economico-finanziaria, gli investimenti nel settore rappresentano una preziosa occasione per il Paese, soprattutto alla luce della significativa possibilità occupazionale, con particolare riferimento al Sud Italia. In merito a ciò, uno studio realizzato da Banca d’Italia del marzo 2013 sul turismo internazionale in Italia dimostra che, nonostante il maggior potenziale di attrazione turistica del Sud rispetto al Centro-Nord, il primo costituisce l’area che presenta la minor quota di introiti dall’estero (13 per cento del totale nazionale nel 2011). L’incidenza del turismo internazionale sull’economia del Mezzogiorno (circa l’1 per cento del PIL dell’area) è decisamente inferiore a quella sull’economia del Centro Nord (poco più del 2 per cento del PIL). Secondo il Travel & Tourism Competitiveness Index (TTCI), elaborato dal World Economic Forum (WEF), che misura « i fattori e le politiche che rendono attrattivo lo sviluppo del settore turismo e trasporti in differenti nazioni », l’Italia nel 2011 è solo ventisettesima nel mondo. Essa presenta forti criticità soprattutto nelle politiche a sostegno del turismo e nella sicurezza. Ad esempio l’Italia è valutata solo al settantaseiesimo posto per quanto riguarda la misura con cui il Governo ritiene prioritaria l’industria turistica (la Spagna è undicesima, la Francia ventottesima). Grazie alla sua lunga tradizione storica, artistica e culturale, l’Italia è uno dei Paesi più ricchi al mondo di attrazioni turistiche, in particolare nell’ambito delle città d’arte e cultura e dei piccoli borghi. La rilevanza del patrimonio culturale italiano è riconosciuta a livello mondiale. Il nostro Paese si colloca al primo posto per numero di siti iscritti come « patrimonio dell’umanità » nella World Heritage dell’Unesco (47 siti, pari al 4,7 per cento del totale). Nel PNR si evidenzia che il Piano strategico contiene un’analisi delle criticità dell’industria turistica italiana, quali le difficoltà nella governance del settore, di cui si è già detto in precedenza; la frammentazione della promozione all’estero; il nanismo delle imprese; i limiti nella capacità di costruire prodotti turistici competitivi; l’insufficienza delle infrastrutture; l’inadeguatezza della formazione del personale; le difficoltà ad attrarre investimenti internazionali. Di fronte a queste criticità, il Piano strategico propone alcune linee guida e individua un numero rilevante di azioni concrete che dovrebbero rapidamente migliorare la competitività del settore turistico nazionale. Più in particolare il Piano prevede sette linee di intervento fondamentali e circa 60 azioni concrete da realizzare che hanno, come unica ispirazione, un modello di sviluppo che ricalca quello già utilizzato anni addietro in altri paesi del sud Europa. Tale modello rischia di distruggere l’unicità del panorama turistico italiano e di far venire meno le condizioni che ne garantiscono il riconoscimento internazionale. Desta perplessità la decisione di voler considerare nello scenario competitivo quasi esclusivamente i mercati esteri, trascurando invece quello domestico. Altrettanto poco condivisibile è la scelta di considerare strategiche, nell’ambito del mercato estero, solo due aree, ossia il segmento « affluent » dell’Europa occidentale e i paesi BRIC, ignorando la rilevanza della quota di viaggiatori low-cost, che, effettuando micro vacanze, a breve e medio raggio, stanno incidendo molto in termini economici sul mercato europeo. Di dubbia utilità ai fini di un rilancio del settore turistico appare poi l’inserimento, tra le azioni prioritarie di miglioramento dell’offerta nazionale, della selezione di 30-40 poli prioritari o, peggio ancora, di 1-2 nuovi grandi poli turistici nel Sud. Occorrono, invece, misure concrete
volte a sviluppare un turismo di qualità, responsabile e sostenibile, che rispetti l’ambiente e le caratteristiche delle comunità locali; a favorire i processi di innovazione tecnologica; a migliorare la competitività dell’offerta e la qualità del sistema turistico italiano; a provvedere alla riqualificazione dei territori e all’ampliamento dell’offerta di servizi in favore della domanda turistica; a promuovere la riqualificazione del capitale umano operante nel settore, strettamente necessaria per garantire i livelli di qualità dell’offerta. Altro grande obiettivo assente dal DEF è il Mezzogiorno d’Italia, la cui esistenza è ricordata solo nel PNR ed in una singola e breve frase in cui si richiedono « azioni prioritarie per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale e per liberare forze produttive ». Appare molto riduttivo e superficiale emarginare l’intervento statale a quelle
misure di improbabile successo per ridurre il divario Nord-Sud, costituite da sgravi fiscali per l’assunzione di lavoratori svantaggiati o incentivi per l’apertura di imprese giovanili, né riteniamo che il ruolo ancillare del Piano d’azione per la coesione possa sortire maggiore eco rispetto alla constatazione che il sud dell’Italia sia in Europa.A ben guardare, in assenza di una politica tesa a favorire l’insediamento stabile di strutture economiche nel territorio meridionale non si capisce chi debba assumere e chi abbia intenzione di dar vita a qualsivoglia impresa: le infrastrutture minime, sono assenti; la criminalità organizzata occupa il territorio con il beneplacito della mala classe politica locale; le lungaggini burocratiche per concedere benefici alle neo-imprese ed ai neo-imprenditori, spesso, stroncano sul nascere le buone intenzioni; le istituzioni finanziarie nazionali sono assolutamente disinteressate alla concessione del credito, sfruttando – anzi – la posizione di forza in cui si trovano per chiedere abusivamente ai beneficiati garanzie reali, quando non investimenti monetari. In questo sconfortante quadro da Terzo mondo, il potere pubblico, centrale e locale, invece di affrancare il popolo meridionale dai suoi problemi, si serve di questi ultimi per ricattarlo, ponendogli l’infame scelta tra una vita di stenti e la rinuncia alla salute pubblica, quando addirittura non opera per mettere le basi di future stragi e disastri – come palesa la folle, se non criminale, intenzione di realizzare un rigassificatore ricadente nel comprensorio del porto di Gioia Tauro in una delle zone a più elevata sismicità del pianeta. Il Sud ha bisogno di ripartire dall’amore e dal rispetto del suo territorio e dalla constatazione che le fallimentari politiche sin qui seguite lo stanno svuotando dei suoi giovani e, quindi, della sua speranza. Giovani che, nuovi emigranti con lauree, sono costretti ad abbandonare le loro terre per rendere più ricche altre nazioni. Eppure, il Sud potrebbe e dovrebbe diventare, anche con l’ausilio di quelle politiche fiscali di vantaggio previste dagli accordi europei, un aiuto all’Italia e, quindi, all’Europa, nel favorire l’espansione economica in altri mercati di cui la nostra nazione potrebbe diventare punto di snodo per contro-bilanciare le politiche di nazioni con sbocchi sul Mar del Nord. Infatti, tra il 2008 ed il 2013 il PIL di Nord Africa, Medio Oriente e Turchia è cresciuto di oltre il 25 per cento e si espanderà ulteriormente di oltre il 33 per cento entro il 2018, crescendo il triplo dell’area Euro; i tassi di disoccupazione di Marocco e Turchia sono ben più vicini al benchmark tedesco – 6 per cento – rispetto agli altri paesi europei. alla luce delle considerazioni suesposte si ritiene che il DEF 2013 non abbia nessuna programmazione di medio e lungo periodo di crescita e sviluppo del nostro Paese. Pertanto si invita il Governo a recepire le osservazioni e le proposte delineate nella presente relazione al fine di predisporre le misure più idonee per uscire da una crisi economica e sociale che non ha precedenti nella storia.
Sebastiano BARBANTI,
Relatore di minoranza

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