martedì 14 maggio 2013

INN Istituto Nazionale di Neuroscienze

orso castano : e' con vivo interesse che pubblichiamo questo articolo , ringraziando l'autore , sperando che le sue interessanti sperimentazioni continuino.

L’effetto placebo: così inganna la nostra mente

Fabrizio Benedetti, docente di fisiologia all’Università di Torino e consultant al National Institute of Health a Bethesda (USA) e alla Mind-Brain-Behavior Initiative della Harvard University, dedica gran parte della sua attività alle ricerche sull’effetto placebo. Di che cosa si tratta? Lo scopriamo insieme a lui e per chi desiderasse approfondire l’argomento il professor Benedetti parlerà di effetto placebo domenica 20 aprile alle ore 18:00 presso il molo IV di Trieste in occasione di FEST 2008, la seconda edizione della Fiera Internazionale dell’editoria scientifica.

Professor Fabrizio Benedetti quali sono le origini del termine placebo e che cosa significa esattamente?
Placebo deriva dal verbo latino placere, che letteralmente significa "io piacerò". In ambito medico si riferisce a qualsiasi sostanza inerte, ossia priva di capacità terapeutiche intrinseche, capace di migliorare le condizioni cliniche del paziente e quindi avere su di lui un effetto piacevole. Gli esempi più conosciuti di sostanza placebo sono la zolletta di zucchero e il bicchiere d’acqua fresca. Grazie al placebo è possibile testare l’efficacia di un nuovo farmaco. Ciò avviene all’interno di trial clinici così organizzati: i pazienti sanno che possono ricevere il trattamento farmacologico o la sostanza placebo con una probabilità del 50 per cento e, prima della fine dello studio, né i medici né i pazienti sanno chi ha assunto il vero farmaco. Il nuovo trattamento farmacologico è considerato efficace se ha sui pazienti un effetto migliore del placebo.

È possibile estendere il concetto di placebo anche a trattamenti diversi da quelli farmacologici?
Certo. Esistono “strumenti placebo” e “interventi chirurgici placebo”. Nel primo caso, si tratta di strumenti lasciati spenti e quindi non realmente utilizzati, come una macchina a ultrasuoni, nel secondo caso, il medico anestetizza il paziente, accede alla parte malata, per esempio aprendo il cranio o il torace, ma non interviene su di essa.

Che cosa si intende per “effetto placebo”?
Per effetto placebo si intende tutto ciò che accade nel paziente dopo aver assunto un placebo.

Poiché una zolletta di zucchero o un bicchiere d’acqua non possono improvvisamente acquisire poteri terapeutici, l’effetto placebo è un inganno della nostra mente?
Direi proprio di sì e dipende dal contesto psicologico e relazionale in cui il paziente si trova. In questo contesto il medico curante gioca un ruolo fondamentale perché è in grado di convincere il paziente che il farmaco che sta per assumere lo farà stare meglio. Numerosi trial clinici dimostrano che uno stato emotivo tranquillo e fiducioso è accompagnato da una maggior efficacia dei trattamenti farmacologici. L’effetto placebo, quindi, è un fenomeno psico-biologico in cui l’innescarsi di un nuovo stato emotivo determina precisi cambiamenti all’interno del nostro cervello.

Quali sono i meccanismi fisiologici più noti?
Sono due: i meccanismi tipicamente cognitivi e quelli totalmente inconsci.
Nei primi la coscienza gioca un ruolo fondamentale poiché la risposta a un trattamento dipende dalle aspettative che il medico riesce a creare nel paziente. Non è un caso che nei malati di morbo di Alzheimer, i cui processi cognitivi sono compromessi, l’effetto placebo è molto ridotto.
Nei meccanismi inconsci, come la secrezione ormonale o l’attività del sistema immunitario, l’effetto placebo si innesca dopo una fase di “condizionamento” in cui il paziente impara ad associare il trattamento (per esempio l’assunzione di una compressa tonda e bianca contenente il principio attivo) alla scomparsa di un sintomo, quale il dolore fisico. Se dopo la fase di condizionamento il medico somministra al paziente un trattamento identico ai precedenti ma privo di principio attivo l’effetto terapeutico non cambia.
Lei ha parlato di chirurgia placebo, una modalità di intervento piuttosto invasiva nei confronti del paziente. Ci può dire qualcosa in più al riguardo?
La chirurgia placebo è entrata a far parte della pratica clinica negli anni Cinquanta, dopo la pubblicazione di due studi americani sull’angina pectoris, un dolore toracico provocato da una insufficiente irrorazione del muscolo cardiaco. In alcuni casi i chirurghi operarono il malato secondo la prassi di quegli anni, in altri fecero l’anestesia, aprirono il torace e lo richiusero senza intervenire sui vasi sanguigni. La chirurgia placebo dimostrò che non era l’intervento in sé a migliorare la circolazione cardiaca, ma la fiducia che il paziente vi riponeva.
Oggi la chirurgia placebo coinvolge molti ambiti, ma ha un occhio di riguardo per la neurochirurgia, in particolare per la stimolazione cerebrale profonda e l’impianto di cellule fetali dopaminergiche per il trattamento della malattia di Parkinson. Ad ogni modo, qualunque sia l’ambito, i protocolli di questi studi devono essere valutati e approvati dai comitati di bioetica.
Professor Benedetti, in base alla sua esperienza diretta, quali applicazioni cliniche possono avere gli studi sull’effetto placebo?
La mia esperienza mi porta a considerare principalmente tre tipi di applicazione. La prima riguarda la metodologia dei trial clinici e consiste nel capire in che modo e in che misura l’effetto placebo può interferire sulla reale efficacia terapeutica del farmaco. A oggi, questo è ancora un punto irrisolto.
La seconda applicazione riguarda il ruolo e le potenzialità della relazione medico–paziente. Fino a che punto la sola idea di prendere una compressa è in grado di migliorare lo stato di salute del malato? A tale proposito, la letteratura scientifica dimostra che se un medico somministra all’insaputa del paziente un farmaco, l’effetto terapeutico di quest’ultimo può ridursi a zero perché non si attiva alcun effetto placebo.
In terzo luogo, sfruttando i meccanismi del condizionamento è possibile ridurre l’assunzione di farmaci che hanno effetti collaterali gravi, come la morfina. Si procede somministrando la sostanza per qualche giorno e poi se ne riduce drasticamente il dosaggio sostituendola con un placebo, senza che il paziente ne risenta.


Lei si è ha studiato gli effetti dei meccanismi di condizionamento con la morfina negli sportivi. Ce ne può parlare?
La morfina agisce attivando i recettori oppioidi delle cellule cerebrali, bloccando la percezione del dolore a livello periferico e non facendo sentire lo sforzo fisico. I miei colleghi e io abbiamo realizzato un modello sperimentale che simulava una competizione sportiva e analizzato quali effetti poteva avere sugli atleti un condizionamento con la morfina. Lo studio è stato pubblicato nell’ottobre del 2007 su The Journal of Neuroscience ed è stato ripreso anche dal settimanale inglese The Economist. I dati che abbiamo raccolto dimostrano che l’atleta che si sottopone a un periodo di condizionamento con la morfina (due somministrazioni a distanza di una settimana l’una dall’altra) e il giorno della gara, a sua insaputa, riceve al suo posto una sostanza placebo, mantiene le stesse prestazioni delle settimane precedenti.


Entro il 2008 Oxford University Press pubblicherà un suo libro. Ci può accennare di cosa si tratta?
Nel libro descrivo la mia sfida di oggi e del prossimo futuro: capire in quali situazioni, patologiche e non, e in che fasi della loro evoluzione si verificano effetti placebo. Studi sul condizionamento, come quello appena citato, ne sono un esempio concreto.
Elisa Frisaldi

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