sabato 4 febbraio 2012

I Marchionne dell’università pubblica da uniNOMADE , rivista on line

orso castano : certo e' che l'Universita' Pubblica, quella cioe' finanziata dallo Stato, , quella dove lavora il Ministro del Lavoro, Fornero, dovrebbe evitare sottosegmentazioni di pèiu' facile accesso, che pero' sono con scarse prospettive di lavoro. Dovrebbe garantire accessi a basso costo ed aiuti ai  meno ricchi, dovrebbe potenziare si zsegmenti, ma fortemente legati allo svoluppo economico, con forti legami al mondo industriale, si da rendere appetibili alle industrie i laureati che escono. Ma questo sembra essere un sogno. La stessa Ministro cosa ha fatto  nella sua Universita' in questa direzione? L'Universita' era un Centro di dibattito politico-culturale molto vivace, parlo del decennio 69/79, e molto alto, a parte i gruppi estremisti che cercavano di egemonizzare il dibattito   non si capisce bene supportati da chi e perche'; ma sarebbe scorretto "buttare il bambino con l'acqua sporca". Il cosiddetto 68 ha dato un grande scossone alle baronie rosse e bianche , ma poi e' intervenuta la Riforma Berlinguer, che, come dice l'articolo, pur finalizzata a buoni propositi, ha finito col cristallizzare e dequalificare il livello culturale dell'Universita' senza eliminare il suo difetto piu' grande, il "fuoricorsismo". Tralasciamo i disastrosi tentativi di Gelmini. La situazione ora riparte: questo governo cosa fara'? nulla, come dice l'articolo, oppure tentera' di agganciare questa "fabbrica di cultura" ad un New Deal economico? Non se ne vedono purtroppo i segni, mancando proprio il New Deal. Le manovre depressive di questo governo condanneranno ancora una volta le nostre Universita' a segmentazioni per la sopravvivenza, col rischio di una sottocultura auto-riproducentesi.

L’università globale è crisi          Interrogarsi su che cosa sia l’università oggi, significa assumere che l’università per come l’abbiamo conosciuta non esiste più. Qual è, allora, il modello emergente? Sgombriamo subito il campo da due equivoci. Il primo: alla centralità dei saperi nelle forme di produzione non corrisponde la centralità delle istituzioni formative. Anzi, la produzione dei saperi tende sempre più a eccedere i confini dell’università per socializzarsi in tessuti cooperativi e reticolari, costringendo il capitale a catturare a valle quelle forze produttive che non riesce più a organizzare a monte. Per questo motivo l’università, così come l’intero regime economico e sociale, è sempre affacciato su una crisi che tende a diventare permanente. Dunque, l’università contemporanea non è solo in crisi (colpita dal suo combinarsi con la crisi economica), ma è l’università della crisi: crisi della misura e di una nuova organizzazione della conoscenza, gestione precaria di un processo di accumulazione basato sulla cattura della produzione del sapere.   Il secondo equivoco: bisogna disfarsi del tradizionale culto della sinistra per il sapere. Cognitivizzazione del lavoro, infatti, non è sinonimo di liberazione, né allude alla scomparsa del lavoro “manuale”: indica invece un processo di trasformazione complessivo, “illuminazione generale” delle nuove forme di sfruttamento e di conflitto. Significa anche cognitivizzazione della misura e della regolazione salariale.  Le nuove coordinate spazio-temporali dell’università della crisi sono globali. Ma la global university non è banalmente un’“americanizzazione” del mondo: mostra l’esistenza di tendenze comuni della trasformazione del mercato della formazione e del lavoro, e differenti forme di traduzione nei vari contesti regionali e macro-regionali. Attorno a ciò si determinano i nuovi processi di gerarchizzazione e differenziazione del mercato globale. Schematizziamo le principali tendenze comuni. In primo luogo c’è un processo di aziendalizzazione dell’università. Sarebbe però riduttivo intenderlo semplicemente come intrusione dei capitali privati nel mondo accademico, o come cambiamento del suo statuto giuridico. Negli Stati Uniti, ad esempio, le corporate university sono private e pubbliche, entrambe abbondantemente irrorate da fondi sia statali e federali, sia delle grandi imprese. Parlare di aziendalizzazione significa individuare l’esaurirsi della dialettica tra pubblico e privato, che si mostrano come due facce dello stesso processo di accumulazione capitalistica. L’università stessa, allora, deve farsi impresa e competere sul mercato globale.
Una seconda tendenza è il cambiamento della figura dello studente, non più forza lavoro in formazione, ma a tutti gli effetti lavoratore, ancorché non retribuito. Non è un caso che i movimenti studenteschi degli ultimi anni si siano sviluppati esattamente nella sovrapposizione tra mercato della formazione e mercato del lavoro, mettendo immediatamente in discussione i rapporti sociali e di lavoro. Una questione di grande rilevanza è costituita dalla precarizzazione e da un processo di generalizzato declassamento(terzo trend). Finisce così l’idea che l’università sia un ascensore per la mobilità sociale o per la formazione delle élite. Nella sovrapposizione tra mercato del lavoro e della formazione, quarta tendenza, i saperi sono dispositivi di misurazione e gerarchizzazione. Gli studenti hanno accesso in massa alle istituzioni dell’istruzione superiore in misura direttamente proporzionale alla dequalificazione dei saperi trasmessi. Siamo passati da un sistema basato sull’alternativa tra inclusione ed esclusione, a un sistema fondato sull’inclusione differenziale. Le lotte sulla qualità dei saperi (come dimostra l’affermarsi delle pratiche di “autoformazione”) sono quindi conflitti sui dispositivi di segmentazione e gerarchizzazione del mercato del lavoro.In questo quadro, infine, si consuma la crisi delle discipline, cioè dei pilastri istituzionali dell’organizzazione della conoscenza in epoca moderna. Un gruppo di noti economisti ha affermato che l’incapacità di prevedere la crisi globale dipende da ragioni strutturali: la disciplina economica, così com’è, non serve più a nulla o quasi. Non è diverso il discorso per le altre discipline. I confini disciplinari tendono a riprodurre campi di potere improduttivi, mentre l’inter- e multidisciplinarietà rischia di rivelarsi un incerto tentativo di creare nuovi codici e misure.............Vanificata l’aspirazione a una “dimensione europea nell’insegnamento superiore”, all’abbassamento della qualità del sapere non corrisponde la costruzione di un’economia competitiva. Perfino la mobilità di studenti e ricercatori non ha tratto particolare giovamento: in Italia è addirittura diminuita rispetto aglio anni ’90!........... a fronte dell’insuccesso rispetto alle speranze di una drastica riduzione del fuoricorsismo, di una coniugazione virtuosa tra laurea triennale e mercato del lavoro, nella costruzione di griglie formative rigide laddove si predica flessibilità – non esita a parlare di stallo o fallimento. L’auspicio di Eco si è realizzato solo a metà: la preparazione si è decisamente abbassata, mentre i laureati non sono cresciuti di molto. Soprattutto, non sanno che farsene del loro titolo di studio. Le recenti leggi o Ddl – la cui cifra è costituita dai tagli – hanno quindi radici profonde e bipartisan........Le aziende italiane investono per meno dell’1% in formazione e ricerca, preferendo un comodo ruolo parassitario e utilizzando, laddove necessario, forza lavoro già formata. Le ragioni storiche del disinvestimento sono evidenti: un capitalismo assistito e gonfiato dallo Stato (Fiat docet) e l’affermarsi di un tessuto di piccole e medie imprese, a bassa innovazione
e alto sfruttamento. Del resto, difficilmente l’imprenditore del nord-est, iperspecializzato in un segmento della filiera globale in cui è poco rilevante l’innovazione di prodotto e di processo, spenderà i propri soldi in una fondazione universitaria sull’orlo della bancarotta. Anche l’istituzione dell’Aquis (dentro il dibattito sulla fine del valore legale del titolo di studio e alla differenziazione degli atenei) rappresenta soprattutto il tentativo di costruire un sindacato delle università medio-grandi che contratta con il governo la propria sopravvivenza. Insomma, la parola d’ordine è: si salvi chi può...........il governo feudale degli atenei è la peculiare via italiana all’aziendalizzazione......... Si chiederà: qual è la strategia? .........nessuna, ovvero è una strategia di dismissione del sistema formativo e della ricerca. A quale scopo? Ricollocare il ruolo dell’Italia dentro il mercato globale, facendone cioè una sub-area con ambizioni ridimensionate, competitiva sul costo di una forza lavoro dequalificata o pagata come tale (i migranti), intensificando la produzione specializzata in alcuni segmenti della filiera transnazionale e riservandosi punte di cosiddetta “eccellenza”, con scarso investimento in innovazione e ricerca. Con una battuta: taglio dei fondi alla formazione e generalizzazione del modello Pomigliano.
Dunque, piangere sulla situazione italiana invocando l’interesse capitalistico e statale nello sviluppo dell’economia della conoscenza o l’applicazione di altri modelli (quello americano o addirittura francese) dimostra un’incomprensione dei nessi che compongono le tendenze globali. Nel peggiore dei casi, è un’apologia provinciale e ingenua, perciò colpevole, di sistemi contro cui si sono determinate lotte importanti (per restare alla Francia, la rivolta contro il Cpe nel 2006 e la grande mobilitazione di ricercatori e docenti l’anno passato). Non solo: a meno che non si voglia esclusivamente difendere un ceto o la propria funzione (definendo quindi l’anti-intellettualismo di Stato semplicemente come l’attacco agli intellettuali di professione), non si possono non vedere i processi di gerarchizzazione del capitalismo contemporaneo. Per dirla con una battuta, come Gelmini fa rima con Marchionne, così le politiche di Sarkozy sull’università e quelle su banlieue o rom, sono due facce della stessa medaglia.
Allora, di fronte ai difensori interessati dell’università pubblica contro il gemello privato, alla scelta tra Sparta e Messene, ignorante le pratiche dei movimenti e di organizzazione delcomune, viene in mente una vignetta degli anni ’70: un sindacalista proclama a muso duro “il posto di lavoro non si tocca!”, e Agnelli sprezzante: “E chi lo tocca? A me fa schifo solo a guardarlo”.
* Questo articolo  stato pubblicato su “alfabeta2″ 03, ottobre 2010

Nessun commento: