Da Venerdi' (Repubblica) del 13 febbraio 09 PAOLA ZANUTTINI intervista ad Alberto Salza ( fisico, biologo, antropologo, e cooperante: fa parte del Centro studi africani di Torino e collabora con diverse università) autore del libro “Niente , Homo Nihil” , Ed. Sperling and Kupfer , E. 17 Come iniziare un saggio antropologico sulla povertà estrema? Con una citazione da Totò: «A casa nostra, nel caffellatte non ci mettiamo niente: né il caffè né il latte» (Miseria e nobiltà). il libro, è chiaro, s'intitola Niente e, per raccontare come si vive senza cibo, acqua, tetto, pascoli, bestiame, medicine, scuola, insomma senza tutto, ricorre anche ad Alice nel Paese delle Meraviglie (come al Mago di Oz, ad Apocalipse Now oppure a Marx, nel senso Groucho. Alberto Salza, l'attore, è uno che mescola saperi e ambienti: un fisico passato all'antropologia, un biologo incappato nella cooperazione, un signore dì 64 anni che insegna nelle Università e collabora con il ministero degli Esteri e l'Unione europea, ma che ammette di trovarsi più a suo agio fra i cammellieri della savana. Del resto, da giovane è stato amico di Jack Kerouac: quando la banda della beat generation arrivava a Torino, lui era incaricato di procurare a Jack la barbera più economica (e adulterata) in circolazione. Intrecciando cinema e letteratura, etnografia e frattali, evoluzione e demografia, Salza è arrivato a un'inquietante conchisione: in futuro, i dannati della terra potrebbero non appartenere più alla famiglia dell'Homo sapiens, ma dar vita a una nuova -specie, che lui battezza l'Homo nihil. Dice che uno dei primi catalizzatori defla mutazione è l'inurbamento, l'esodo dalle campagne verso le megalopoli del Terzo mondo causato dalla guerra e dalla povertà: «Secondo le stime delle Università della Carolina del Nord e della Geòrgia, la nascita di un bambino, o di ima bambina, al-l'incirca il 23 maggio 2007, ha segnato il sorpasso degli abitanti delle città su quelli delle campagne: tre miliardi e mezzo più uno».
E questo cosa determina? «Milioni di persone accalcate negli slum. Lo slum è il luogo comune della miseria, dove si concentra ogni pericolo ed esclusione. Visto che sorge nei posti più fetidi delle città, è esposto al peggior inquinamento. E alle frane, agli allagamenti. La densità è altissima, come la violenza e la criminalità. Poi ci sono gli incendi, spesso dolosi: a Manila, per sgomberare una bidonville, si prende un gatto o un topo - non un cane, che muore troppo in fretta - lo si spruzza di kerosene e lo si "accende" per rilasciarlo in corsa fra le baracche». Un habitat che può creare una nuova specie? «Le radiazioni e l'inquinamento ai quali vengono sottoposti gli inurbati poveri sono mutagene. Aggiungiamoci il contesto molto selettivo, la separazione dall'esterno, i vari muri di Gaza, la promiscuità e la natalità accelerata, le epidemie: sono tutti prerequisiti per una speciazione. La miseria è ereditaria, passa nel patrimonio genetico dei discendenti, anche se nascono e vivono in condizioni migliori. Cambia anche l'intelligenza. Per non parlare dell'influsso dei rapidissimi cambiamenti culturali». Mutageni anche quelli? Gli slum sono il luogo comune della miseria. La mutazione della specie umana parte da qui , «Le evoluzioni culturali interagiscono in modo esponenziale e non sappiamo dire con quale velocità. Mio padre, nato nel 1910, mai avrebbe pensato di vedere un cellulare prima di morire e oggi i clan si tengono uniti con il telefonino, mica con le galoppate sul cammello. Non è detto che quella dell'Homo nihil sia una specie inferiore: nella storia dell'evoluzione i normali si estinguono e gli anormali si trasformano per adattarsi. Il pipistrello sarà sembrato ben strambo ai topi, ma lui vola, loro no». Nel libro, lei critica le statistiche e gli strumenti usati per misurare la povertà, come la soglia di un dollaro al giorno. Ma perché poi poggia le sue tesi proprio su quei dati? «La qualità non si misura, eppure intorno al niente c'è una massa fii informazioni. Dati e bibliografia mi giustificano, mi parano le spalle: il libro ha 55 pagine di note». La sua definizione di povertà? «Individualmente, è la percezione, anche intima, d'inadeguatezza fra sé e il mondo intorno. Per un mio amico della tribù Dinka è l'incapacità di chiedere e dare aiuto». Lei biasima le politiche umanitarie che applicano i metodi del capitale ai sistemi comunitari. Poi auspica l'attribuzione dei titoli di proprietà delle terre. Che modello di sviluppo propone? «Una commistione di modelli. Ma se i somali sono un popolo di pastori nomadi autosufficienti, non vedo perché dobbiamo fermarli. E non ci chiediamo mai se non sarebbe meglio vivere senza ospedali, che loro detestano. Dobbiamo capire come muoverci, con le singole persone è più semplice perché ognuno è un universo a sé: l'individuo è probabilistico, mentre i gruppi sono deterministici. L'uomo è come una particella subatomica, niente a che vedere con i macrosistemi. Comunque, prima di agire bisogna conoscere, la frase più pericolosa che può dire un cooperante è: "Dato che non possiamo capirli, dobbiamo aiutarli"». Guerra e miseria sono due compagne di sventura, ma in Africa si continua a combattere: anche questo è un anello dell'evoluzione? «Frequento la povertà da quarant'anni» dice Alberto Salza . Dai disastri si impara. Nel Sahel gli allevatori selezionano gli zebù col muso che scova meglio l'erba del conflitto. Tutto nasce con l'identità culturale, che protegge, ma produce anche il razzismo»«Pace e giustizia non fanno parte della natura umana, i cooperanti dovrebbero imporle con la disciplina, non con l'amore. Basta quel che è successo nell'ex Jugoslavia per capire che la bellicosità non è una prerogativa africana, il guaio sono i kalashnikov, che hanno alzato il livello . Dall'altra parte c'è l'omologazione culturale. «Infatti questo è uno dei temi più scivolosi sia a destra che a sinistra. Ma le tribù non esistono, sono una nostra invenzione o un'autoinvenzione degli autoctoni. Se un sistema cresce o diventa complesso si divide, come nella riproduzione cellulare. Senza scismi non viviamo felici, guardiamo i nostri partiti». Un conto è la sinistra italiana, un altro i Dinka o i Turkana. «Ecco, appunto. I Turkana, oggi kenioti, erano un clan dei Karamajong, noti predoni di bestiame ugandesi. Si separarono dopo un peccato originale: rubarono le vacche a membri della tribù. I ladri, è noto, fregano agli altri, non a quelli del gruppo, così, per autoassolversi, i Turkana si inventarono una nuova identità, come a dire "noi non siamo voi, quindi possiamo derubarvi". Ho studiato sette popolazioni del lago Turkana: non c'è differenza genetica e quella culturale è minima». Lei parla di evoluzione, ma come hanno fatto i poveri, quelli veri, a non estinguersi tra fame, siccità, guerre, epidemie? «La resilienza, cioè la capacità di resistere agli urti, non è solo un concetto psicologico, è una forma di esperienza: si impara dai disastri. Gli allevatori del Sahel selezionano gli zebù dal muso più affilato, capaci di trovare l'erba nelle terre aride. Anche i bambini soldato praticano una forma di resilienza: si creano un mondo senza adulti, sono un'altra cosa, non ci si parla. Li apprezzo». Beh, una società in mano ai bambini soldato... «Sempre meglio che in mano a dei vecchi rimbambiti come da noi».
"Guardati dalla bestia uomo, poiché egli è l'artiglio del demonio. Egli è il solo fra i primati di Dio che uccida per passatempo, o lussuria, o avidità. Si, egli uccide il suo fratello per possedere la terra del suo fratello. Non permettere che egli si moltiplichi, perché egli farà il deserto della tua casa. Sfuggilo, ricaccialo nella sua tana nella foresta, perchè egli è il messaggero della morte." Il Legislatore, XXIX Pergamena, 6° versetto. ,clicca l'immg x link
Verso la fine degli anni sessanta la paura di un olocausto nucleare era più che una semplice paura collettiva, ma una concreta eventualità alimentata dalla guerra fredda fra le due super-potenze mondiali. In questo contesto sociale il cinema, la letteratura, la musica, denunciarono il malessere delle masse e la paura che la nostra civiltà conoscesse un rapido ed irreversibile declino. Attori di alto calibro, come Charlton Heston, seguendo spontaneamente questa tendenza, interpretarono diverse pellicole del genere apocalittico: "1975, Occhi bianchi sul pianeta Terra", "Il pianeta delle scimmie" ed il suo seguito "L'altra faccia del pianeta delle scimmie." Il contesto della saga si basa su di una società a rovescio, dove le scimmie, oggi sfruttate negli zoo e nei circhi, sono divenute i padroni assoluti della società post-atomica. Non a caso gli uomini sono regrediti a creature primitive, la guerra nucleare esplosa per la follia di quella generazione, ha relegato la razza umana nei bassifondi delle città distrutte, lasciando il dominio agli animali; nella fattispecie le scimmie, nostri probabili antenati. Il terrore di Zaius, la scimmia che perseguita Taylor nella prima pellicola, è concreto e solo apparentemente senza giustificazione, egli infatti conosce come si sono svolti gli eventi ed il male che l'uomo ha fatto alla natura ed a sé stesso in epoca ormai remota..................Nell'ultima drammatica scena, quando la Statua della Libertà viene rinvenuta affondata nella sabbia di una desolata spiaggia radioattiva, Taylor comprende la verità e disperato maledice tutto il genere umano per le sue colpe................La seconda pellicola "L'altra faccia del pianeta delle scimmie" è ancora più pessimistica. Ad una società del tutto irriconoscibile, fra mutazioni e malattie derivanti dalla guerra, l'ordigno definitivo Alpha/Omega, considerato una divinità dai pochi umani ancora intellettualmente dotati, sarà fatta esplodere da Taylor quando le scimmie vorranno impadronirsene, distruggendo definitivamente il nostro pianeta.............Meglio ricordare il volto di Taylor mentre batte il pugno nella sabbia di fronte alla Statua della Libertà, ormai del tutto distrutta dalla nostra stessa stupidità. Claudio Caridi
1 commento:
Il pianeta delle scimmie , la saga drammatica , non e' (e non era) solo cinematografica. L'allegoria e' terribile, ma la moltitudine dei disperati che attraversano il mediterraneo , pronti ad ogni sacrificio pur di non tornare nela miseria e nella violenza , selezionati per la loro resistenza, bene la ricorda. Il problema e' immenso e storico , la strada per risolverlo e' piena di difficolta', la storia diceva un giornalista famoso e' uno "sciacciasassi". C'e' una specie di strana , e, per molti versi, paurosa gara tra l'immatricolazione in crescita dei suv (con il conseguente inquinamento locale e non ) e la crescita degli slums a livello mondiale. Una corsa iconprensibile, difficile da fermare. Chi la vincera'?
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