Un paradosso stringe oggi da vicino la destra italiana. Il berlusconismo le ha consentito un successo clamoroso e insperato. Ma dal berlusconismo dovrà subito uscire, se vuole darsi una prospettiva che regga al futuro. Nella storia politica del nostro Paese non è mai esistito, finora, un partito conservatore di massa. Un partito, cioè, schierato in modo conseguente sia a destra, sia sul terreno della democrazia. La Dc era un’altra cosa, anche se nel suo amalgama la destra rappresentava una componente essenziale. E un’altra cosa, naturalmente, era l’Msi, intrinsecamente minoritario, e saldamente radicato nel neofascismo fino agli inizi degli anni novanta. Questa assenza – un’anomalia assoluta rispetto alle altre grandi democrazie dell’Occidente – si spiega con i traumi subiti dall’Italia nella prima parte del suo Novecento: un’epoca di ferro e di fuoco, in cui abbiamo inventato, insieme, il fascismo e la forma europea del comunismo, nel tentativo di venire a capo di un durissimo scontro di classe; abbiamo combattuto due guerre mondiali, e ci siamo dilaniati in un sanguinoso conflitto civile di liberazione nazionale. Il prezzo lo abbiamo pagato ingessando per i quarant’anni successivi la nostra politica e la stessa democrazia faticosamente riconquistata, immobilizzate entrambe intorno all’ininterrotto primato del centrismo democristiano: in un primo tempo, in una condizione di vera e propria “guerra fredda civile” (negli anni cinquanta); più tardi, in un consociativismo sempre più spinto (legittimato dalla strategia del “compromesso storico”), durato sino alla fine degli anni Ottanta. E’ stato solo il collasso del comunismo e il crollo dell’impero sovietico che ha spazzato via tutto questo, creando le condizioni per una nostra piena “normalizzazione” democratica. Il processo è stato tuttavia più faticoso del previsto, e su di esso (come ha scritto Ezio Mauro) ha messo ben presto il suo “sigillo” Silvio Berlusconi, con le ben note conseguenze. Egli si era trovato d’improvviso un’autostrada vuota spalancata innanzi, e si è imposto politicamente e culturalmente decostruita da una duplice transizione, post-industriale e post- democristiana; un Paese ansioso di voltar pagina, cui hasaputo offrire uno specchio in cui riconoscersi, una facile ideologia acquisitiva e mercatista che sembrava al passo con i tempi, e un’interpretazione scarnificata e leaderistica della democrazia, ai limiti del sovversivismo, in sintonia con alcuni caratteri profondi della nostra identità. Non è riuscito a imporre un’autentica egemonia sul Paese, ma ci è andato vicino, e soprattutto è stato capace di incunearsi nel rapporto fra sinistra e modernizzazione, che si era già spezzato negli anni Ottanta, e a interporre, nel varco che si era creato, la propria narrazione, i propri simboli, la propria messa in scena, ricongiungendo – nel sentire della maggioranza degli italiani –nuova destra e nuova modernità, antistatalismo e leggerezza consumistica. Ma ora anche questa stagione sta finendo. La crisi sta disegnando per noi un altro orizzonte, ben lontano dall’orgia e si è imposto di mercato che abbiamo finora vissuto. Nell’Europa e nel mondo che usciranno dalla recessione, quello che abbiamo conosciuto e identificato finora come “berlusconismo” non avrà più spazio. È irrimediabilmente la canzone di un’altra età, di quell’Italia liquefatta dall’impeto della deindustrializzazione e stordita dalla scomparsa del vecchio sistema dei partiti, che ormai ci stiamo lasciando alle spalle. Può darsi che il vecchio leader riesca, con un colpo di teatro, a sopravvivere politicamente alla sua stessa creatura, improvvisando non saprei quale metamorfosi. Sarà tuttavia molto difficile. Oggi la prospettiva di una nuova destra – di un partito conservatore di massa come elemento decisivo della normalizzazione democratica italiana – passa per un’altra strada. Quella di Burke e non di de Maistre, come ha scritto Eugenio Scalfari su questo giornale. La tradizione, la terra, la nazione certo; e poi innesti nuovi: la Costituzione, il presidenzialismo, la riscoperta dello Stato. Ma qui le strade si dividono, e gli eredi del berlusconismo cominciano a manifestare idee diverse, e non facilmente componibili. C’è la visione di Fini, che ormai guarda esplicitamente oltre Berlusconi, e mette in guardia con parole forti dai rischi del leaderismo in nome di una concezione più pluralista, più laica (che non rinuncia a un filone illuministico: ancora Scalfari). E quella invece di Tremonti, che sembra avere in mente un’Italia ripiegata nel suo guscio, meno “globale” e più “locale”, municipalizzata, dichiaratamente “neoguelfa”, pronta a essere accolta sotto le bandiere della Chiesa. Di fronte, un lavoro enorme attende la sinistra italiana: la ricostituzione di un patrimonio ideale degno di questo nome. Può riuscirvi. Il Paese aspetta un’indicazione forte, all’altezza della gravità del momento. Dalla recessione non si esce arretrando. La globalizzazione è senza ritorno, come lo è il rapporto fra tecnica, vita e mercato. Ma bisogna elaborane una forma più matura. La sinistra può vincere se saprà intercettare le tendenze che usciranno dalla crisi. La destra farà fatica a farlo. Non è dalle sue parti che ha mai abitato la razionalità sociale di cui abbiamo bisogno. Cerchiamo di ricordarlo.
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