venerdì 13 marzo 2009

teoria dei giochi : decisioni e conflitti

di Thomas Schelling  da la Repubblica dell'11 marzo 2009

Esistono due definizioni di teoria dei giochi. Una "soft" e una "hard". In base alla definizione "più facile", la teoria dei giochi è lo studio di come due o più entità -persone, governi, organizzazioni - prati­cano una scelta tra varie azioni possibili, in situazioni il cui esito dipende proprio dalle scelte che i due o tutti loro effettua­no, e nelle quamodo col quale essi dovrebbero (o potrebbero) effettuare razionalmente le loro scelte interdipendenti.

Ogni individuo deve saper anticipare le decisioni che prenderanno gli altri, ma ciò significa quindi che ognuno di loro deve saper anticipare ciò che gli altri stanno a loro volta anticipando, il che implica saper anticipare ciò che ciascu­no di loro presume di stare anticipando! Questa delucidazione potrebbe appari­re un'involuzione formidabile, ma in so­stanza significa soltanto saper indivi­duare una serie di aspettative che siano coerenti e logiche tra loro. In un certo senso, occorre individuare e agire in fun­zione di una comune aspettativa della conclusione "presumibile". Vi è poi un'altra definizione, quella "più complessa", che probabilmente ri­flette - o perlomeno rifletteva fino a tempi recenti - gli interessi della preponde­ranza dei teorici dei giochi, secondo i quali, dunque, "La teoria dei giochi può essere definita come lo studio di model­li matematici del conflitto e della coope­razione tra coloro che sono incaricati di prendere decisioni intelligenti e razio­nali" (Roger B. Myerson, 1991). (Il mio dizionario American Heritage del 1975, Edizione NewCollege, definisce la teoria dei giochi come "l'analisi matematica di modelli astratti di competitivita strategica..."). La differenza è duplice: l'enfasi sulla "matematica" o sui "modelli matemati­ci" - anzi, la loro esclusività - e l'enfasi sulla decisione "razionale". C'è qualco­sa di ambiguo in relazione al modificatore "matematico". Consentitemi una piccola digressione: ritengo che l'inven­zione più importante nella storia della matematica sia il simbolo " = ", il segno di uguale. Si tratta di uno strumento contabile: se uno sa che due entità unite da quel segno sono uguali, allora sa anche che in­dipendentemente da qualsiasi cifra si aggiunga o si sottragga da entrambi i la­ti dell'equazione questi restano uguali; che qualsiasi moltiplicazione di entram­bi i numeri per uno stesso numero, o an­che una qualsiasi potenza o estrazione di radice, li lascia esattamente uguali; così come qualsiasi alterazione del ge­nere che porta una delle due parti dell'e­quazione (per convenzione sempre  quella di destra) a essere uguale a zero, equivale a dire che ogni fattore dell'altro lato è una radice dell'equazione. Nel suo complesso tutta l'algebra—e l'algebra è parte integrante della maggior parte del­la matematica simbolica — dipende da questo semplice strumento contabile. Mi rendo conto che la più grande in­venzione nella storia dell'amministra­zione aziendale è la contabilità a partita doppia, in virtù della quale tutti gli attivi e i passivi sono collegati tra loro dal se­gno dell'uguale e qualsiasi discrepanza è riconoscibile come valore netto, nega­tivo o positivo. La più grande invenzione nella storia della macroeconomia è stata, fino a 75 anni fa circa, la contabilità della bilancia dei pagamenti, che poi, negli anni Qua­ranta, si trasformò in contabilità delle entrate statali, un sistema a partita qua­drupla, che metteva insieme la contabi­lità a partita doppia delle due contropar­ti di una transazione. Nello studio per il quale ho ricevuto l'onorificenza, il mio interesse si è focalizzato meno sui problemi dell'anticipa­zione reciproca (come quello al quale ho appena fatto riferimento), e maggior­mente sulla comprensione delle moda­lità con le quali le controparti possano tentare di influenzarsi reciprocamente nel loro comportamento e influire di conseguenza sulle scelte che ciascuno di loro effettua. (Nel caso del traffico auto­mobilistico, per esempio, abbiamo ap­purato che esiste la possibilità di segna­lare le nostre intenzioni) Questa problematica si presenta nell'atteggiamento che le nazioni tengono nelle loro relazioni, nelle controversie industriali, nell'or­dinamento penale, nelle contrattazioni commerciali legate a un acquisto, quan­do si incoraggiano i bambini e perfino gli animali e quando si cerca di imporre a entrambi la disciplina, nelle estorsioni e nei ricatti e addirittura, come abbiamo visto, quando si cerca di concordare una soluzione al traffico automobilistico o dei mezzi a due ruote. Un metodo efficace per condizionare il comportamento altrui - ho notato -consiste nell'influenzare le aspettative che l'altro nutre in relazione al proprio comportamento. Ho anche avuto modo di prendere atto che ciò si realizza spesso  decidendo  la propria linea d'azione in anticipo e in modo palese rispetto agli al­tri, o in ogni caso comunicandolo al prossimo in modo credibile. Di conse­guenza sarebbe possibile definire il pro­prio comportamento in due modi, o in­condizionatamente o condizionandolo alla reazione altrui. Mi ha colpito, in particolare, il ruolo che in tutto ciò riveste l'impegno, il fatto di impegnarsi nei confronti di una deter­minata linea d'azione: nel caso dell'in­gorgo stradale, per esempio, il fatto di prendere la decisione "Io proseguo!" piuttosto chel'altra "Io rallento". Nell'e­sempio del traffico, la decisione "Io pro­seguo!" è credibile, perché se non fosse una sua palese intenzione non sarebbe utile alle finalità del conducente. Si trat­ta oltretutto di una decisione incondi­zionata, non contingente alla decisione altrui di rallentare. (Traduzione di Anna Bissanti)

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