di Thomas Schelling da la Repubblica dell'11 marzo 2009
Esistono due definizioni di teoria dei giochi. Una "soft" e una "hard". In base alla definizione "più facile", la teoria dei giochi è lo studio di come due o più entità -persone, governi, organizzazioni - praticano una scelta tra varie azioni possibili, in situazioni il cui esito dipende proprio dalle scelte che i due o tutti loro effettuano, e nelle quamodo col quale essi dovrebbero (o potrebbero) effettuare razionalmente le loro scelte interdipendenti.
Ogni individuo deve saper anticipare le decisioni che prenderanno gli altri, ma ciò significa quindi che ognuno di loro deve saper anticipare ciò che gli altri stanno a loro volta anticipando, il che implica saper anticipare ciò che ciascuno di loro presume di stare anticipando! Questa delucidazione potrebbe apparire un'involuzione formidabile, ma in sostanza significa soltanto saper individuare una serie di aspettative che siano coerenti e logiche tra loro. In un certo senso, occorre individuare e agire in funzione di una comune aspettativa della conclusione "presumibile". Vi è poi un'altra definizione, quella "più complessa", che probabilmente riflette - o perlomeno rifletteva fino a tempi recenti - gli interessi della preponderanza dei teorici dei giochi, secondo i quali, dunque, "La teoria dei giochi può essere definita come lo studio di modelli matematici del conflitto e della cooperazione tra coloro che sono incaricati di prendere decisioni intelligenti e razionali" (Roger B. Myerson, 1991). (Il mio dizionario American Heritage del 1975, Edizione NewCollege, definisce la teoria dei giochi come "l'analisi matematica di modelli astratti di competitivita strategica..."). La differenza è duplice: l'enfasi sulla "matematica" o sui "modelli matematici" - anzi, la loro esclusività - e l'enfasi sulla decisione "razionale". C'è qualcosa di ambiguo in relazione al modificatore "matematico". Consentitemi una piccola digressione: ritengo che l'invenzione più importante nella storia della matematica sia il simbolo " = ", il segno di uguale. Si tratta di uno strumento contabile: se uno sa che due entità unite da quel segno sono uguali, allora sa anche che indipendentemente da qualsiasi cifra si aggiunga o si sottragga da entrambi i lati dell'equazione questi restano uguali; che qualsiasi moltiplicazione di entrambi i numeri per uno stesso numero, o anche una qualsiasi potenza o estrazione di radice, li lascia esattamente uguali; così come qualsiasi alterazione del genere che porta una delle due parti dell'equazione (per convenzione sempre quella di destra) a essere uguale a zero, equivale a dire che ogni fattore dell'altro lato è una radice dell'equazione. Nel suo complesso tutta l'algebra—e l'algebra è parte integrante della maggior parte della matematica simbolica — dipende da questo semplice strumento contabile. Mi rendo conto che la più grande invenzione nella storia dell'amministrazione aziendale è la contabilità a partita doppia, in virtù della quale tutti gli attivi e i passivi sono collegati tra loro dal segno dell'uguale e qualsiasi discrepanza è riconoscibile come valore netto, negativo o positivo. La più grande invenzione nella storia della macroeconomia è stata, fino a 75 anni fa circa, la contabilità della bilancia dei pagamenti, che poi, negli anni Quaranta, si trasformò in contabilità delle entrate statali, un sistema a partita quadrupla, che metteva insieme la contabilità a partita doppia delle due controparti di una transazione. Nello studio per il quale ho ricevuto l'onorificenza, il mio interesse si è focalizzato meno sui problemi dell'anticipazione reciproca (come quello al quale ho appena fatto riferimento), e maggiormente sulla comprensione delle modalità con le quali le controparti possano tentare di influenzarsi reciprocamente nel loro comportamento e influire di conseguenza sulle scelte che ciascuno di loro effettua. (Nel caso del traffico automobilistico, per esempio, abbiamo appurato che esiste la possibilità di segnalare le nostre intenzioni) Questa problematica si presenta nell'atteggiamento che le nazioni tengono nelle loro relazioni, nelle controversie industriali, nell'ordinamento penale, nelle contrattazioni commerciali legate a un acquisto, quando si incoraggiano i bambini e perfino gli animali e quando si cerca di imporre a entrambi la disciplina, nelle estorsioni e nei ricatti e addirittura, come abbiamo visto, quando si cerca di concordare una soluzione al traffico automobilistico o dei mezzi a due ruote. Un metodo efficace per condizionare il comportamento altrui - ho notato -consiste nell'influenzare le aspettative che l'altro nutre in relazione al proprio comportamento. Ho anche avuto modo di prendere atto che ciò si realizza spesso decidendo la propria linea d'azione in anticipo e in modo palese rispetto agli altri, o in ogni caso comunicandolo al prossimo in modo credibile. Di conseguenza sarebbe possibile definire il proprio comportamento in due modi, o incondizionatamente o condizionandolo alla reazione altrui. Mi ha colpito, in particolare, il ruolo che in tutto ciò riveste l'impegno, il fatto di impegnarsi nei confronti di una determinata linea d'azione: nel caso dell'ingorgo stradale, per esempio, il fatto di prendere la decisione "Io proseguo!" piuttosto chel'altra "Io rallento". Nell'esempio del traffico, la decisione "Io proseguo!" è credibile, perché se non fosse una sua palese intenzione non sarebbe utile alle finalità del conducente. Si tratta oltretutto di una decisione incondizionata, non contingente alla decisione altrui di rallentare. (Traduzione di Anna Bissanti)
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